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Oltre 300 danneggiamenti in 20 anni, testimone di giustizia ancora nel mirino del clan Alvaro

Oltre 300 danneggiamenti in 20 anni, testimone di giustizia ancora nel mirino del clan Alvaro

Alcuni giorni fa l’ennessima intimidazione in una delle proprietà dell’imprenditore sotto scorta Domenico Luppino, che denunciò le angherie della pericolosa cosca dei ‘signori della montagna’

di Francesco Altomonte

mercoledì 10 luglio 2019

«Con questo abbiamo superato la quota di 300 danneggiamenti in 20 anni. È un macabro conteggio che mi sono preso la briga di fare non perché sia importante in generale, ma perché lo è per me».

Basterebbero questi numeri per dare il senso degli ultimi 20 anni di vita di Domenico Luppino, imprenditore olivicolo di Sinopoli e testimone di giustizia. Alcuni giorni fa l’ennesimo danneggiamento in una delle sue proprietà di San Procopio, nel cuore dell’Aspromonte, il regno della famigerata cosca Alvaro: 20 alberi di ulivo sono stati incendiati intorno alle due di pomeriggio, un messaggio chiaro che si aggiunge a tanti altri già recapitati nel corso del tempo alla sua famiglia. Uno stillicidio di intimidazioni, minacce e attentati hanno costellato, infatti, l’esistenza da battitore libero di Luppino. Un uomo intelligente che, nonostante tutto, non ha perso la sua capacità di analisi.

«È successo alcuni giorni fa – ha spiegato l’imprenditore – intorno alle due di pomeriggio. Ero passato da questo uliveto con la mia scorta un’ora prima e tutto era tranquillo. Verso le 14 mi hanno chiamato i carabinieri per avvertirmi dell’incendio che ha coinvolto almeno una ventina di alberi di ulivo. Può sembrare terribile, ma alla fine ci si abitua anche a episodi del genere. Lo sai che prima o poi accadranno. D’altronde li metti in conto».  

Mimmo Luppino, un giorno di 20 anni fa, decise di dire basta alle continue richieste dei picciotti e denunciò molti esponenti della cosca Alvaro. Si presentò ai magistrati della procura antimafia di Reggio Calabria, addirittura, con una mappa per spiegare la complicata composizione dei diversi rami del casato di ndrangheta di Sinopoli. Lui li conosceva, li aveva visti crescere e diventare potenti e aveva scelto di dire basta.

«La mia esperienza con la scorta si divide in un due periodi – ha aggiunto Luppino – la prima volta per quattro anni quando ero sindaco di Sinopoli, poi ho avuto degli anni di “libertà” e adesso da quattro anni sono di nuovo sotto scorta». Due carabinieri vigilano sull’incolumità dell’imprenditore, barricati nella sua casa di Sinopoli, dalla quale ha allontanato la moglie e i figli.

«Il secondo periodo, cioè quando mi hanno ridato la scorta – ha proseguito il testimone di giustizia – è coinciso con una telefonata dei vertici dell’Arma dei carabinieri che mi avvertivano che ero in pericolo di vita. Una situazione che ho focalizzato solo tempo dopo quando ho letto le dichiarazioni di alcuni pentiti che parlavano di progetti per uccidermi».

 

Un’esistenza da recluso, alla quale non si è mai abituato, ma che comunque non rinnega. Dal suo racconto, però, emerge la forte consapevolezza di una scelta a suo modo drammatica, di una quotidianità scandita, anche, da minacce e paura. «A volte quando non accadono per lunghi periodi episodi come questo, di danneggiamenti – ha affermato Luppino – mi preoccupo anche. Aspetto cosa ben più gravi».

Sotto scorta, libero, e di nuovo protetto dallo Stato, ma Domenico Luppino da Sinopoli non se n’è mai voluto andare. «Quando mi è stata ridata la scorta – ha concluso – mi avevano proposto di andarmene, di entrare nel programma di protezione di testimoni di giustizia. Ma io non voglio andare via, questa è la mia terra e ho fatto delle scelte che adesso pago, consapevolmente. Inoltre, qui ho un’azienda agricola da mandare avanti ed è mio preciso dovere portala avanti».

 

Fonte:https://lacnews24.it