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Non solo pizzo e droga, i boss della mafia fanno affari col caffè e i bus turistici

Non solo pizzo e droga, i boss della mafia fanno affari col caffè e i bus turistici

Cosa nostra imponeva le forniture nei bar e poi reinvestiva i soldi sui mezzi che portano in giro i turisti. I retroscena dell’operazione “Atena”, che ha portato all’arresto di 32 persone. “Ehhh, perché ci cacano la mi… per il caffè non prendere impegni… a posto”

Riccardo Campolo

La mafia faceva affari con il caffè imponendo le forniture nei bar e poi reinvestiva i propri soldi sui bus turistici. Senza mai tralasciare altri business sempre remunerativi ma rischiosi come le estorsioni e lo spaccio di droga: 5, 10 o 15 chili venivano smerciati rapidamente, grazie ai pusher che erano pronti – giorno e notte – anche per fare consegne a domicilio ad avvocati, dentisti, maestri di golf e altri “insospettabili” professionisti. Sono solo alcuni dei retroscena emersi dall’operazione dei carabinieri “Atena” che ha portato all’arresto di 32 persone legate al mandamento di Porta Nuova e accusate a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni, minacce, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, favoreggiamento, concorrenza sleale illecita e trasferimento fraudolento di valori. Tra i destinatari dell’ordinanza di misura cautelare firmata dal gip, sulla scorta delle indagini eseguite dai carabinieri e coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, c’era Francesco Arcuri. Secondo gli inquirenti c’era lui a muovere le fila di due società che operano nel settore del commercio del caffè torrefatto e aperte in due giorni (nell’aprile 2016) per smerciare i prodotti della Kaffeina srl: la “Arcuri Salvatore Dario” di via Eugenio l’Emiro, formalmente intestata al fratello, e la Torrefazione Caffeina di Salvatore D’Oca di piazza Principe di Camporeale, utilizzata anche come “snodo per lo spaccio di droga”. A confermare le ipotesi investigative anche alcune intercettazioni fra due indagati, uno dei quali chiedeva all’altro – gestore di un bar – come mai non avesse ancora cambiato il fornitore. “E’ zirbusu?”. “Deve essere tostato, si deve riposare il caffè, così funziona”. “E allora perché ti sei preso questo caffè?”. “Ehhh, perché ci cacano la mi….’per il caffè non prendere impegni…a posto’”, rispondeva il piccolo imprenditore. Rifornire di “oro nero” i bar e cercare nuovi clienti era un modo come altri, per la “famiglia”, per mettere le mani sul tessuto economico della città e mantenere il controllo sulla piccola economia locale. Un’altra attività dove fare soldi facili in una città votata al turismo era portare in giro per Palermo i viaggiatori che sbarcavano al porto. Per fare ciò serviva una società, qualche pullman e degli autisti con tanto di licenza. Ed ecco la Pronto Bus Sicilia srl di Sebastiano Vinciguerra e Gioacchino Cirivello, società in cui sarebbero confluiti i soldi dei fratelli Gregorio e Tommaso Di Giovanni, considerati uomini d’onore e temuti in tutto il mandamento Porta Nuova, e quelli di Paolo Calcagno. Quote da 5 mila euro ciascuno che sarebbero servite a dare una spinta all’impresa in quanto nei periodi con minor afflusso di turisti “era sotto”. “Dice…glieli sto mettendo io e tra 2-3 anni vedremo quanto ha fruttato. Dice – spiegava a Calcagno la moglie – fai sapere che me li prendo io visto che glieli sto mettendo io”. Tra debiti e investimenti non mancavano i momenti di attrito. Altre quote, secondo quanto emerso dalle indagini, sono state investite per altre attività che avrebbero consentito di reimpiegare il denaro accumulato negli anni e scongiurare soprattutto la mannaia delle misure di prevenzione patrimoniali. Per prendersi gioco dello Stato Paolo Calcagno, Vito Seidita e Cosimo Vernengo avrebbero intestato (nel 2014) il pub Great House 67 di via Quintino Sella a una ragazza di 30 anni vicina a Seidita. “Ma Vito sempre ha il locale? Quello Vito…quello il Seidita…sempre ha il locale di quello…’ddu Ghiaccio’? (soprannome di Vernengo, ndr)” chiedeva uno degli indagati al suo interlocutore durante una chiacchierata intercettata dalle microspie dei carabinieri. Non solo pub. Stando a quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip anche trattorie e ristoranti facevano gola alla mafia. Tra questi l’Osteria al casereccio di via Discesa dei Maccheronai (oggetto di sequestro nel provvedimento eseguito oggi) dove si sarebbero svolti diversi incontri “finalizzati alla trattazione di affari illeciti con altri esponenti mafiosi tra i quali Giuseppe Corona, il defunto Giuseppe Dainotti, Gregorio Di Giovanni, Rubens D’Agostino e Gaspare Rizzuto”. “Può quindi affermarsi, quantomeno in termini di gravità indiziaria che vi fosse un’intestazione fittizia che dissimulava la reale titolarità del patrimonio, dell’azienda e del potere di gestione della impresa ‘Osteria al Casereccio’, mentre appare evidente – scrive il giudice – che tale macchinazione era stata architettata per evitare (o anche per evitare) che all’esterno si percepisse la riconducibilità dell’attività commerciale a dei mafiosi, in modo da eludere il rischio dell’applicazione di misure di prevenzione”. 12 Marzo 2019 Fonte:http://www.palermotoday.it/

Non solo pizzo e droga, i boss della mafia fanno affari col caffè e i bus turistici

Cosa nostra imponeva le forniture nei bar e poi reinvestiva i soldi sui mezzi che portano in giro i turisti. I retroscena dell’operazione “Atena”, che ha portato all’arresto di 32 persone. “Ehhh, perché ci cacano la mi… per il caffè non prendere impegni… a posto”

Riccardo Campolo

La mafia faceva affari con il caffè imponendo le forniture nei bar e poi reinvestiva i propri soldi sui bus turistici. Senza mai tralasciare altri business sempre remunerativi ma rischiosi come le estorsioni e lo spaccio di droga: 5, 10 o 15 chili venivano smerciati rapidamente, grazie ai pusher che erano pronti – giorno e notte – anche per fare consegne a domicilio ad avvocati, dentisti, maestri di golf e altri “insospettabili” professionisti. Sono solo alcuni dei retroscena emersi dall’operazione dei carabinieri “Atena” che ha portato all’arresto di 32 persone legate al mandamento di Porta Nuova e accusate a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni, minacce, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, favoreggiamento, concorrenza sleale illecita e trasferimento fraudolento di valori.

Tra i destinatari dell’ordinanza di misura cautelare firmata dal gip, sulla scorta delle indagini eseguite dai carabinieri e coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, c’era Francesco Arcuri. Secondo gli inquirenti c’era lui a muovere le fila di due società che operano nel settore del commercio del caffè torrefatto e aperte in due giorni (nell’aprile 2016) per smerciare i prodotti della Kaffeina srl: la “Arcuri Salvatore Dario” di via Eugenio l’Emiro, formalmente intestata al fratello, e la Torrefazione Caffeina di Salvatore D’Oca di piazza Principe di Camporeale, utilizzata anche come “snodo per lo spaccio di droga”. A confermare le ipotesi investigative anche alcune intercettazioni fra due indagati, uno dei quali chiedeva all’altro – gestore di un bar – come mai non avesse ancora cambiato il fornitore. “E’ zirbusu?”. “Deve essere tostato, si deve riposare il caffè, così funziona”. “E allora perché ti sei preso questo caffè?”. “Ehhh, perché ci cacano la mi….’per il caffè non prendere impegni…a posto’”, rispondeva il piccolo imprenditore.

Rifornire di “oro nero” i bar e cercare nuovi clienti era un modo come altri, per la “famiglia”, per mettere le mani sul tessuto economico della città e mantenere il controllo sulla piccola economia locale. Un’altra attività dove fare soldi facili in una città votata al turismo era portare in giro per Palermo i viaggiatori che sbarcavano al porto. Per fare ciò serviva una società, qualche pullman e degli autisti con tanto di licenza. Ed ecco la Pronto Bus Sicilia srl di Sebastiano Vinciguerra e Gioacchino Cirivello, società in cui sarebbero confluiti i soldi dei fratelli Gregorio e Tommaso Di Giovanni, considerati uomini d’onore e temuti in tutto il mandamento Porta Nuova, e quelli di Paolo Calcagno. Quote da 5 mila euro ciascuno che sarebbero servite a dare una spinta all’impresa in quanto nei periodi con minor afflusso di turisti “era sotto”. “Dice…glieli sto mettendo io e tra 2-3 anni vedremo quanto ha fruttato. Dice – spiegava a Calcagno la moglie – fai sapere che me li prendo io visto che glieli sto mettendo io”. Tra debiti e investimenti non mancavano i momenti di attrito.

Altre quote, secondo quanto emerso dalle indagini, sono state investite per altre attività che avrebbero consentito di reimpiegare il denaro accumulato negli anni e scongiurare soprattutto la mannaia delle misure di prevenzione patrimoniali. Per prendersi gioco dello Stato Paolo Calcagno, Vito Seidita e Cosimo Vernengo avrebbero intestato (nel 2014) il pub Great House 67 di via Quintino Sella a una ragazza di 30 anni vicina a Seidita. “Ma Vito sempre ha il locale? Quello Vito…quello il Seidita…sempre ha il locale di quello…’ddu Ghiaccio’? (soprannome di Vernengo, ndr)” chiedeva uno degli indagati al suo interlocutore durante una chiacchierata intercettata dalle microspie dei carabinieri. Non solo pub. Stando a quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip anche trattorie e ristoranti facevano gola alla mafia.

Tra questi l’Osteria al casereccio di via Discesa dei Maccheronai (oggetto di sequestro nel provvedimento eseguito oggi) dove si sarebbero svolti diversi incontri “finalizzati alla trattazione di affari illeciti con altri esponenti mafiosi tra i quali Giuseppe Corona, il defunto Giuseppe Dainotti, Gregorio Di Giovanni, Rubens D’Agostino e Gaspare Rizzuto”. “Può quindi affermarsi, quantomeno in termini di gravità indiziaria che vi fosse un’intestazione fittizia che dissimulava la reale titolarità del patrimonio, dell’azienda e del potere di gestione della impresa ‘Osteria al Casereccio’, mentre appare evidente – scrive il giudice – che tale macchinazione era stata architettata per evitare (o anche per evitare) che all’esterno si percepisse la riconducibilità dell’attività commerciale a dei mafiosi, in modo da eludere il rischio dell’applicazione di misure di prevenzione”.

12 Marzo 2019

Fonte:http://www.palermotoday.it/