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Merci cinesi, affari italiani. Cosa c’è dietro l’industria del falso

Merci cinesi, affari italiani. Chi si arricchisce con l’industria del falso

L’intreccio di interessi dietro un business da 7 miliardi. Quali sono le dimensioni di questa macchina silenziosa? E quanti danni crea all’economia? E quali profitti realizzano gli italiani che partecipano ai traffici?

ROMA – In un piccolo ufficio con vista sul grande raccordo anulare, un giovane e taciturno funzionario dello Stato aggiorna quotidianamente la mappa di un metro per due che ha appeso all’unica parete lasciata libera da libri e faldoni. Con il lapis e la gomma, il funzionario corregge, integra, aggiunge. È una galassia di nomi e di luoghi che ogni giorno si arricchisce e muta i suoi confini. Quanto riesca a fotografare la realtà è difficile dirlo. È però probabile che dentro queste stanze apparentemente tutte uguali, nella blindatissima sezione antifrode dell’Agenzia centrale delle dogane, risieda il punto più avanzato della conoscenza di un fenomeno illegale che ogni anno, solo in Italia, fattura 7,5 miliardi di dollari e produce alla nostra economia danni incalcolabili.
La galassia cinese della contraffazione è un reticolo di piccoli boss impegnati a restare invisibili e di giovani aspiranti boss dai metodi assai meno discreti. Sono concentrati nelle aree italiane di maggiore immigrazione, ma anche nei crocevia del traffico internazionale (valichi e porti) attraverso i quali si smistano i container carichi di ogni tipo di merce.

Sono i signori del falso. Smuovono un’enormità di denaro illegale che riciclano in immobili o reinvestono in patria. Fanno affari con la criminalità. Pagano la loro quota alla mafia cinese. Sfruttano e danneggiano le migliaia di cinesi onesti che in occidente hanno cercato un futuro. E, da ultimo, danno lavoro a un piccolo esercito di professionisti italiani che sono gli indispensabili mercenari dell’illegalità. I pass-partout utili a superare le barriere della lingua, i controlli, la burocrazia.
Ma chi sono i signori cinesi della contraffazione e del contrabbando? Quanto sappiamo effettivamente del loro mondo nascosto? E come funziona la filiera dell’illegalità?

LE CHINATOWN ITALIANE
Per rispondere a queste domande bisogna provare a entrarci, in quel mondo. Un labirinto di silenzi, di gesti rituali e di fatica quotidiana. Perché è la fatica, nelle attività regolari come in quelle illecite, il segno distintivo di questa gente che non si risparmia mai. Dai laboratori full-time di Prato o di Carpi all’incessante lavorio dei negozianti delle varie chinatown di Roma, Milano o Napoli, le comunità che negli ultimi trent’anni si sono insediate in Italia sono fabbriche-mercati a ciclo continuo in cui talvolta distinguere ciò che è legale da ciò che non lo è diventa impossibile anche per chi le studia da tempo.
Nel complesso sono cinquantamila le imprese cinesi in Italia, molte delle quali regolari. “È vero, noi lavoriamo tanto. Abbiamo forti motivazioni, ambizioni e obiettivi”, spiega Marco Wong, ingegnere, nato e cresciuto in Italia da genitori immigrati. Wong non ha dubbi sul fatto che l’illegalità sia di una minoranza e tuttavia ammette che le varie comunità fanno ancora fatica a dialogare con la società italiana, istituzioni comprese.
“L’immigrazione cinese in Italia è un fenomeno tutto sommato recente”, osserva Giancarlo Maffei, ex consigliere della Provincia di Prato per i rapporti con l’oriente e tra i maggiori esperti italiani nelle relazioni con la Cina. “Per avere un dialogo effettivo, credo che si dovrà aspettare il passaggio di almeno una generazione”.
Probabilmente è al di là da venire il tempo in cui un sindaco di origine cinese sul modello San Francisco governerà una grande città italiana. Oggi i cinesi di prima generazione sono per la maggior parte cinquantenni che appaiono barricati all’interno della nicchia etnica. Ostinati e guardinghi. Abitudinari e autoreferenziali. Per molti di loro il contatto con gli italiani si riduce alle relazioni indispensabili. Il sentimento della diffidenza è incoraggiato dall’attuale clima politico ma è anche assecondato dai boss delle comunità. Meno se ne sa, meglio è per tutti. E in particolare per gli affari.

I giovani sono altrettanto diffidenti ma meno prudenti. Capita che in poco tempo si ritrovino pieni di soldi che spendono in auto costose e in vestiti firmati non taroccati. Tra gli oggetti del desiderio la Porsche Cayenne è da anni al primo posto. Status symbol, ma anche segnali pericolosi che i connazionali più anziani guardano con allarme, consapevoli forse del fatto che la Guardia di finanza annota tutto.
Gli italiani ammessi sono pochi. Quelli strettamente necessari. Qualcuno che superi la barriera della lingue, che sappia districarsi nella giungla delle norme e della burocrazia. Qualcuno di cui potersi fidare. Figure molto ben identificate nella galassia del malaffare cinese: commercialisti, spedizionieri doganali, dirigenti bancari, notai e agenti immobiliari. È un piccolo esercito di professionisti disinvolti quello che lavora per il grande business illegale. Un “circolo chiuso” che, in tutto il Paese, probabilmente non va oltre le cento unità. Perché i cinesi sono abitudinari anche in questo. Se un esperto italiano ha la preferenza di una “famiglia”, in breve tempo può trovarsi a gestire uno o più clan. Centinaia se non migliaia di clienti. Funziona così per tutto, e da sempre.
Ci si muove nella maniera più vecchia del mondo: passaparola e rapporto fiduciario. Se poi quell’attività è ai margini della legalità, o del tutto fuorilegge, il rapporto si fa ancora più selettivo, rigido, prudente. Più l’italiano è avido, più è degno di considerazione. La fiducia diventa complicità.

PROFESSIONISTI SPERICOLATI
Ma è proprio questo centinaio di potenti e spericolati “spicciafaccende” italiani, oggi, a rendere il mondo del malaffare cinese un po’ meno impenetrabile. Nella mappa della galassia illegale, quei nomi italiani rispondono a professionisti che operano nelle grandi città ma anche in provincia. Personaggi del sottobosco economico che forse neanche immaginano di ricoprire una posizione che viene monitorata quotidianamente. Alcuni di loro, da anni, sono gli inseparabili assistenti di imprenditori cinesi che mischiano sapientemente attività lecite con affari proibiti. Altri, fiutando le potenzialità del business, hanno pensato al salto di qualità. Giro d’affari più ampio e magari lo sbarco in una grande realtà. La capitale, per esempio. In alcuni casi – pochi per ora – le loro ambizioni sono finite nel mirino della magistratura.

Giuseppe Scognamiglio, originario di Pozzuoli, e Marco Quadri, di Jesi, sono due commercialisti. Insieme avevano aperto la “Centrale Fiduciaria srl”, società finanziaria con sede a piazza Vittorio, luogo storico dell’immigrazione a Roma. Lavoravano al secondo piano di uno stabile in cui si trova anche l’agenzia numero 1 della Bnl. Nei loro uffici ricevevano i guadagni illeciti di svariate decine di clienti cinesi, tutti operatori del mercato del falso, dal tessile all’elettronica. Erano soldi da riciclare e per farlo, secondo la Dia (Direzione investigativa antimafia) bastava scendere solo qualche rampa di scale. Nella filiale della Bnl, grazie all’apertura di un centinaio di conti correnti, quei soldi venivano mascherati dalla concessione di mutui e poi fatti riemergere come “regolari pagamenti” per operazioni commerciali fittizie con misteriosi referenti in varie città della Cina.

Dopo una lunga indagine battezzata “Operazione Ultimo imperatore” e conclusa nel maggio scorso, la procura di Roma ha inquisito 47 persone, tra cui alcuni italiani: dirigenti bancari, operatori finanziari e, ovviamente, i due commercialisti. Ma ciò che desta impressione è il giro d’affari. “In poco più di due anni”, spiegano gli investigatori della Dia, “la Centrale Fiduciaria ha movimentato oltre cento milioni di euro”.
Cento milioni di euro in soli due anni. Un’orgia di denaro. Quali e quanti profitti (interessi, commissioni, parcelle) ha generato per gli italiani che hanno partecipato? E quante altre situazioni del genere potrebbero nascondersi, oggi, nel nostro Paese?

COMPLICITÀ IN QUESTURA
Tra le indagini condotte in altre città, sembra particolarmente indicativa quella della primavera scorsa a Prato. Nel mirino degli inquirenti finisce Ban Yun Dong, uno dei boss della potente comunità cinese, proprietario del ristorante Hong Kong e titolare di aziende di abbigliamento. Negli anni, Dong ha saputo costruire una rete di amicizie attraverso le quali, oltre a curare i propri affari, dispensa favori ai connazionali assicurando gli agognati permessi di soggiorno. Dopo appostamenti, pedinamenti e intercettazioni, su mandato della Procura, la polizia parte con gli arresti e per alcuni di essi è costretta a intervenire anche in casa propria: tra gli indagati ci sono infatti il vice questore e capo delle volanti Fabio Pichierri, l’assistente capo Michele Passeri in servizio all’ufficio immigrazione, la poliziotta Daniela Ognibene, l’agente delle volanti Emanuele Ghimenti. Altri tre poliziotti (due uomini e una donna) sono sospesi dal servizio. Finiscono nei guai anche due carabinieri dei Nas, Enrico Ostili e Giuseppe Brucculeri.
Secondo l’accusa, il disinvolto imprenditore Ban Yun Dong, aveva messo a punto una serie di operazioni illecite che attraverso connivenze e scorciatoie evitavano controlli, davano vigore agli affari ma soprattutto al proprio prestigio nella popolosa comunità cinese del triangolo Prato, Firenze, Pistoia.
Complicità talvolta insospettabili, omertà diffusa e un’innegabile abilità imprenditoriale. Tutto questo rende la macchina dell’illegalità cinese un silenzioso rullo compressore. Ma quali sono le sue dimensioni reali? E quali danni crea alla nostra economia?

LA FABBRICA DEL “TAROCCO”
La fabbrica del falso non chiude mai. Produce e spedisce a getto continuo. In Italia il business della contraffazione fattura sette miliardi e mezzo di dollari all’anno. Nel mondo 250 miliardi. Il fenomeno è globale e non risparmia nessuno. In Italia, il 64% delle merci contraffatte proviene dalla Cina, Se si aggiungono i sequestri di container che arrivano da Hong Kong (un altro 5%) e dai porti della Grecia (sempre cinesi, altro 5%) si tocca la considerevole quota del 74%. Come dire che, per tre quarti, il falso che ci piove in casa esce da aziende della seconda potenza economica mondiale. Seguono Vietnam, Thailandia e Singapore.
Contraffazione, false fatturazioni, evasione dei dazi e dell’Iva, concorrenza sleale, riciclaggio di denaro, alterazione del mercato. Questo e altro, con il suo corollario di corruzione e complicità, forma l’imponente carico di illegalità che il traffico del falso porta con sé. Solo di evasione fiscale, la contraffazione costa allo Stato italiano due miliardi e mezzo di euro. E sono 130 mila i posti di lavoro che ogni anno si perdono. In più ci sono seri rischi per i consumatori.

A La Spezia le quindicimila borse “di marca” provenienti dalla Cina contenevano nella fodera interna forti quantità di cromo esavalente, sostanza altamente cancerogena. Altri casi simili si sono avuti nell’abbigliamento e nelle calzature. Perfino nelle sigarette e nel finto Viagra.
“Chi acquista certi prodotti forse non lo sa, ma spesso maneggia bombe chimiche che possono procurare danni molto gravi”. Il maggiore Agostino Tortora, analista della Guardia di finanza, mostra l’elenco dei blitz eseguiti su tutto il territorio nazionale. Un quinto dei sequestri europei si fa in Italia.
Come difendersi? Stringere ancor più le maglie nelle importazioni? Aumentare i sequestri?
Misure certamente necessarie, ma per capirne la potenziale efficacia bisogna passare qualche minuto nella sala controllo dell’Agenzia centrale delle dogane, dove una dozzina di monitor offrono in tempo reale la situazione dei porti in tutto il mondo. Rotterdam e Amburgo, da soli, fanno più di tutti gli scali italiani. Il 62% delle merci cinesi in Europa passa da lì. E una volta che i container sono sdoganati, viaggiano su gomma e su rotaia senza più alcuna barriera. Così, mentre doganieri e finanzieri setacciano i nostri ingressi marittimi, via terra può arrivare di tutto. I cinque signori cinesi di Magdeburgo che gestiscono una grossa fetta della logistica del nord Europa, inondano il Vecchio continente di generi di ogni tipo. Nel traffico tra la Germania e l’Italia, la stragrande maggioranza di episodi di frode che vengono scoperti riguardano società di import-export e di trasporto con sede a Magdeburgo. Quasi tutte cinesi.

CINESI MADE IN ITALY
Intanto da Roma a Catania, da Milano a Napoli, passando ovviamente per Prato, Carpi e Reggio Emilia, s’avanza la nuova generazione dei cinesi made in Italy. Hanno 20-25 anni, stanno completando gli studi. “I più abbienti frequentano la Bocconi e la Luiss perché – spiega Marco Wong – una solida preparazione e una rete di relazioni giuste sono fondamentali”.
Le facoltà economiche sono le più frequentate. Si formano i commercialisti e gli operatori finanziari di un domani che è già oggi. Ben attrezzati, padroni delle lingue, profondi conoscitori delle dinamiche sociali cinesi ma anche occidentali. Alcuni di loro stanno facendo pratica in studi di fiducia. È vicino il tempo in cui degli “spicciafaccende” italiani non ci sarà più bisogno.

Luigi Carletti

(Tratto da Repubblica)