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Matteo Messina Denaro, se il boss è ancora in fuga un’intera società lo protegge

L’Espresso, 6 Aprile 2018

Matteo Messina Denaro, se il boss è ancora in fuga un’intera società lo protegge

Dopo le rivelazioni del super testimone nove persone sono indagate per aver favorito la latitanza del boss. Coperto e favorito da imprenditori, commercianti, politici e disoccupati

DI LIRIO ABBATE E GIOVANNI TIZIAN

Le indicazioni fornite da “Gino”, il super testimone toscano che ha incontrato Matteo Messina Denaro (rivelate sull’Espresso ) hanno portato i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze a indagare nove persone. Sono accusate di associazione mafiosa e favoreggiamento del latitante siciliano. I pm sono convinti della «rilevante valenza investigativa» dell’uomo e sottolineano nei loro atti giudiziari «la conferma piena della validità» delle sue dichiarazioni. La procura fiorentina, tre anni fa, ha aperto un fascicolo sulla latitanza del boss in Toscana, individuando i suoi complici e l’organizzazione criminale, legata alla ’ndrangheta, che lo ha coperto.

Grazie all’input di “Gino” sono state avviate intercettazioni ambientali e telefoniche. L’indagine è stata delegata alla Guardia di Finanza di San Miniato. L’ascolto delle conversazioni degli indagati e i riscontri effettuati hanno portato i magistrati antimafia a scrivere che «si può senza dubbio affermare come i soggetti indagati hanno costruito una stabile organizzazione finalizzata a compiere molteplici fatti illeciti». E ancora: «L’organizzazione è ben radicata sul territorio nazionale, in primis in Toscana e in Calabria, e si avvale senza dubbio di soggetti che hanno contatti con l’estero, quantomeno Svizzera, Germania e Nord Africa». Gli inquirenti aggiungono la circostanza che «allo stato attuale delle indagini è emerso che al di sopra dei soggetti indagati ed intercettati vi è una figura non ancora identificata, la quale viene spesso menzionata durante le conversazioni».

Per gli investigatori sarebbe “lo zio”, e cioè Matteo Messina Denaro, lo stragista trapanese ricercato dal 1993. Il capo d’imputazione per i nove indagati è chiaro e fa riferimento al mafioso siciliano.

Sul «favoreggiamento della latitanza del boss, è assolutamente necessario evidenziare una novità di assoluto rilievo investigativo che conferma il quadro di gravi indizi che si era profilato dalle prime fasi dell’attività di indagine», scrive ancora la procura antimafia di Firenze.

“Gino” ha messo a disposizione degli inquirenti e dei detective tutti gli elementi che potevano portare al padrino. E partendo da ciò che ha detto, gli investigatori della finanza hanno prodotto dieci voluminose informative che sono state depositate agli atti.

Il testimone, fra le tante cose, ha parlato di un incontro fra un esponente della ’ndrangheta e il nipote del latitante, Francesco Guttadauro, al quale “Gino” ha assistito. Le indagini hanno portato a scoprire gli interessi che il rampollo siciliano ha in Toscana, in provincia di Pisa. Tanto che per incontrare l’esponente della ’ndrangheta, tre anni fa Guttadauro ha effettuato un viaggio in aereo da Palermo a Pisa con ritorno nella stessa giornata. Si sarà trattato di una cosa urgente, che forse al telefono non poteva essere chiarita.
A questo proposito, sui contatti fra i siciliani e i toscani-calabresi, emerge (in seguito agli accertamenti del Gruppo della Guardia di Finanza di Viareggio) la figura di un magistrato. Infatti in questa misteriosa storia sulla presenza di Messina Denaro e dei suoi più stretti familiari in Toscana, fa la sua comparsa una Bmw intestata a Nicola Russo: magistrato già in servizio alla distrettuale antimafia di Pordenone, Trieste e Udine e oggi alla procura presso il tribunale per i minorenni di Trieste. Russo è cugino di Francesco Guttadauro, con il quale è in contatto, ipotizzano i detective sulla base di intercettazioni a cui fanno riferimento nei loro rapporti. Il magistrato, spiegano gli inquirenti, è nipote di Matteo Messina Denaro, come lo è pure Guttadauro.

Le circostanze fornite da Gino «sono di fondamentale importanza», scrivono i pm, «in quanto confermano che il testimone ha conosciuto una persona che fa parte dell’entourage di Matteo Messina Denaro, collegata a soggetti appartenenti all’organizzazione». Questa persona opera in Toscana e all’estero. “Gino” accetta di mettere tutto a verbale e rivela alla pm Angela Pietroiusti alcuni incontri effettuati con i calabresi in una frazione di un comune della provincia di Pisa, al quale ha partecipato anche il nipote del latitante. Di questi fatti il testimone aveva subito informato l’allora comandante della stazione dei carabinieri del paesino toscano. Il militare si recò sul posto e scattò diverse foto. Il maresciallo, contattato dal pm, ha sostenuto «di non aver stilato alcuna relazione ma di aver informato i superiori».

Ma nel resoconto di Gino c’è molto di più. Dice per esempio che su quella regione il capomafia ha puntato moltissimo: «Ho saputo che Matteo Messina Denaro, soprannominato “lo zio”, ha iniziato investimenti in Toscana nell’ambito turistico». Fatto che affiora nell’ultima relazione annuale della procura nazionale antimafia e che spiega come in Toscana la sfera di influenza di Cosa nostra «non si fondi sul canonico controllo del territorio, bensì su forme e tentativi di condizionamento dell’azione pubblica (funzionali soprattutto al controllo degli appalti pubblici) e di infiltrazione dell’economia e della finanza, grazie alla spiccata capacita relazionale e di mimetizzazione con il contesto di riferimento». Metodo da mafia silente, insomma. Una scelta precisa per non destare allarme sociale, in un territorio ricco e accogliente, in cui non c’è la chiara percezione della minaccia mafiosa. Del resto già in passato diverse inchieste hanno mostrato questa capacità di Cosa nostra di penetrare nel tessuto produttivo toscano.

Se dunque Matteo Messina Denaro è ancora libero dopo 25 anni di ricerche, non si deve pensare solo alle difficoltà investigative per arrestarlo. Ma anche al fatto che se un boss di questo calibro è ancora in fuga, la responsabilità è da cercare di sicuro in una parte della società che lo appoggia, lo favorisce e lo copre. Sarà pure una minoranza, ma di fatto prevale sulla maggioranza di persone perbene che vivono nei territori ancora “occupati” dalla mafia. Non tutto può essere delegato alla magistratura o alle forze dell’ordine. C’è un confine e ognuno deve decidere da che parte stare. Una decisione che dovrebbe essere scontata, a ventisei anni dalle stragi di Falcone e Borsellino, tuttavia nei fatti spesso si rivela difficile.
[[(article) I terribili 26 anni 
di Matteo Messina Denaro]]
Oggi Matteo Messina Denaro continua a essere il primo ricercato. E forse è questa la sua sfida principale con lo Stato.
Coperto e favorito da imprenditori, commercianti, politici e disoccupati. D’altronde la vita da fuggitivo di un capomafia di questo profilo costa tantissimo. Il denaro serve come il pane. È preoccupante che in questa vasta zona grigia non ci sia alcuna intenzione di ribellarsi al potere criminale dei padrini. Le intercettazioni ambientali di tante indagini continuano a rivelare collusione e omertà. Ci sono imprenditori che per andare avanti nella propria attività sentono il bisogno di un “passaporto sociale”, rilasciato da Cosa nostra o dalla ’ndrangheta. Un passaporto che apre le porte delle banche, facilita i rapporti con gli uffici pubblici, sbaraglia ogni concorrente negli appalti. E se dietro a quel documento c’è Matteo Messina Denaro il via libera è assicurato.

Anche per questo ci sono persone delle più diverse fasce sociali che lo amano, oltre a temerlo. Tra queste c’è chi, sfibrato dalla crisi e dalla disoccupazione, è tornato in fila sotto casa delle cosche per chiedere assistenza al welfare mafioso. Una mafia, quindi, considerata di nuovo “istituzione” credibile.