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Massimo Carminati vuole rompere il silenzio

L’espresso, Mercoledì 15 marzo 2017

Massimo Carminati vuole rompere il silenzio
Per la prima volta nella sua lunga storia processuale il ‘nero’ ha chiesto di parlare. Il suo intervento, in videoconferenza dal carcere di Parma dove è rinchiuso in regime di 41 bis, è previsto per il 29 e il 30 marzo

di Floriana Bulfon

Massimo Carminati chiede ai giudici del tribunale di parlare. Il suo intervento è previsto per il 29 e il 30 marzo. Due giorni in cui l’imputato numero uno nel processo di mafia Capitale ci racconterà la sua versione dei fatti. Vorrebbe farlo in aula, ma la presidente Rosanna Ianniello non fa sconti: rimarrà in collegamento in video conferenza dal carcere di Parma dove è rinchiuso al 41 bis, il regime per i mafiosi, così come prevede la norma.

È stata la difesa a chiedere il suo esame. E così per la prima volta nella sua lunga storia processuale il ‘nero’ romperà il silenzio. In realtà durante l’anno e mezzo di dibattimento nell’aula bunker del carcere di Rebibbia è già intervenuto lanciando messaggi al mondo di sopra e a quello di sotto, dando le linee di condotta a quello di mezzo, senza dimenticare di attaccare chi è riuscito a scoperchiare anni di potere criminale sulla Capitale.

L’ultimo segnale si è verificato lo scorso 8 marzo. Non appena il ‘compagno’ Salvatore Buzzi conclude la sua deposizione dicendo: Eravamo la Terza Internazionale più Carminati», eccolo scattare in piedi e a favore di telecamera alzare il braccio destro. La mano è tesa, è l’omaggio di un saluto fascista. Il suo legale lo licenzia come un gesto di saluto e di esultanza tra vecchi amici. Sembra invece essere un richiamo ai vincoli ideologici che sostengono il sodalizio criminale dal suo nascere e che ha le sue radici in un tempo più lontano.

A fine mese Carminati non potrà non chiarire quello che sembra essere il nucleo portante del suo pensiero, dove tutto è nato e dove tutto sembra dover finire: il furto rigidamente selettivo nel luglio 1999 delle cassette di sicurezza di magistrati, avvocati, professionisti e impiegati del ministero della Giustizia al caveau della cittadella giudiziaria di Roma.

È lui a sottolinearne l’importanza quando nell’udienza del 24 ottobre, dopo la pubblicazione dell’inchiesta de l’Espresso della lista dei titolari delle 147 cassette svaligiate, sostiene con vigore: «Come al solito l’Espresso mi ha onorato della sua attenzione. C’è scritto Ricatto alla Repubblica italiana (…) La stessa tesi l’ha portata in questo processo il maggiore del Ros dei carabinieri Rosario Di Gangi. Figura apicale del reparto che ha condotto questa indagine». E poi va oltre, passa un confine che fino ad ora non aveva mai varcato: quello che le carte rubate possano essere state utili per sistemare processi. Intanto ammette la sua responsabilità nel colpo al caveau, per il quale è stato condannato, ma soprattutto ammette l’esistenza di documenti nelle cassette. «Ovviamente», prosegue, «se Carminati corrompe i giudici e aggiusta i processi, se un domani l’esito di questo processo non fosse di gradimento dell’Espresso, probabilmente avrei corrotto anche i giudici di questo dibattimento. Presidente io vorrei difendermi solo dalle cose che sono nel processo, ma purtroppo non lo posso fare (…) Le cose che stanno succedendo fuori da questo processo sono altrettanto importanti di quelle che accadono dentro questo processo».

Fin troppo esplicito il collegamento tra furti, ricatti e sentenze. E non è solo una provocazione la richiesta di avviare un procedimento per corruzione in atti giudiziari, pare proprio un avvertimento a chi nel tempo gli ha assicurato tranquillità nei processi. Anche darsi dello scemo sembra essere rivolto a terzi, quelli che sono convinti che lui mantenga fermamente fede alla sua storica posizione in dibattimento: stare zitto.

E invece continua a esaltare quel furto al caveau. Il 22 novembre ammette: «È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c’erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C’erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l’ho preso. Solo i carabinieri fanno finta di non capire da dove arrivi questa mia disponibilità economica, è ovvio». Il messaggio ha più obiettivi, il primo di giustificare la provenienza dei soldi e quindi della sua sproporzionata capacità economica, poi quello di disapprovare la linea investigativa che aveva consentito l’avvio delle indagini da parte dei Carabinieri e quindi quello più importante: sottolineare ancora una volta il valore dei documenti sottratti. Documenti importanti e riservati, scelti con cura tra quelle 900 cassette, utili forse per godere di lunga protezione e per ricordare a qualcuno che sono ancora nella sua disponibilità. Il tutto ammettendo candidamente e pubblicamente la responsabilità di quel colpo. Per quel furto Carminati è stato condannato, ma grazie all’indulto Prodi-Berlusconi la sua pena è stata ridotta e poi è stato affidato ai servizi sociali. Da quel momento inizia la sua avventura con Buzzi. Si incontrano nell’autunno del 2011, seduti attorno a un tavolino del bar Palombini nel quartiere Eur voluto da Benito Mussolini, a poca distanza dal ‘Fungo’, luogo di riferimento dell’estrema destra negli anni di piombo. Buzzi fa risalire a quell’incontro il patto con Carminati. Il 14 marzo in udienza ricorda che il ‘nero’ «temeva di essere intercettato per i suoi rapporti con Finmeccanica… Voi parlate di ‘Mafia Capitale’ – si è sfogato – ma dimenticate che l’appalto più grosso a Roma e in Italia è quello della metro C, con Finmeccanica, Gruppo Caltagirone e Toti, è lì che si concentra tutto. Lui portava i soldi ai politici per conto di Finmeccanica, non so a chi ma temeva che, essendo intercettato, potessi essere intercettato anche io».

Più che una narrazione di eventi sembra un vero assist. Il terreno è preparato in vista di quanto Carminati dovrà dire tra una quindicina di giorni. Il fedele ‘compagno’ ha fatto la sua parte, difendendolo e difendendosi dall’accusa di mafia, ma ha indicato una prospettiva che difficilmente non avrà conseguenze e che apre uno squarcio, forse, verso il mondo di sopra.Massimo Carminati chiede ai giudici del tribunale di parlare. Il suo intervento è previsto per il 29 e il 30 marzo. Due giorni in cui l’imputato numero uno nel processo di mafia Capitale ci racconterà la sua versione dei fatti. Vorrebbe farlo in aula, ma la presidente Rosanna Ianniello non fa sconti: rimarrà in collegamento in video conferenza dal carcere di Parma dove è rinchiuso al 41 bis, il regime per i mafiosi, così come prevede la norma.

È stata la difesa a chiedere il suo esame. E così per la prima volta nella sua lunga storia processuale il ‘nero’ romperà il silenzio. In realtà durante l’anno e mezzo di dibattimento nell’aula bunker del carcere di Rebibbia è già intervenuto lanciando messaggi al mondo di sopra e a quello di sotto, dando le linee di condotta a quello di mezzo, senza dimenticare di attaccare chi è riuscito a scoperchiare anni di potere criminale sulla Capitale.

L’ultimo segnale si è verificato lo scorso 8 marzo. Non appena il ‘compagno’ Salvatore Buzzi conclude la sua deposizione dicendo: «Eravamo la Terza Internazionale più Carminati», eccolo scattare in piedi e a favore di telecamera alzare il braccio destro. La mano è tesa, è l’omaggio di un saluto fascista. Il suo legale lo licenzia come un gesto di saluto e di esultanza tra vecchi amici. Sembra invece essere un richiamo ai vincoli ideologici che sostengono il sodalizio criminale dal suo nascere e che ha le sue radici in un tempo più lontano.

A fine mese Carminati non potrà non chiarire quello che sembra essere il nucleo portante del suo pensiero, dove tutto è nato e dove tutto sembra dover finire: il furto rigidamente selettivo nel luglio 1999 delle cassette di sicurezza di magistrati, avvocati, professionisti e impiegati del ministero della Giustizia al caveau della cittadella giudiziaria di Roma.

È lui a sottolinearne l’importanza quando nell’udienza del 24 ottobre, dopo la pubblicazione dell’inchiesta de l’Espresso della lista dei titolari delle 147 cassette svaligiate, sostiene con vigore: «Come al solito l’Espresso mi ha onorato della sua attenzione. C’è scritto Ricatto alla Repubblica italiana (…) La stessa tesi l’ha portata in questo processo il maggiore del Ros dei carabinieri Rosario Di Gangi. Figura apicale del reparto che ha condotto questa indagine». E poi va oltre, passa un confine che fino ad ora non aveva mai varcato: quello che le carte rubate possano essere state utili per sistemare processi. Intanto ammette la sua responsabilità nel colpo al caveau, per il quale è stato condannato, ma soprattutto ammette l’esistenza di documenti nelle cassette. «Ovviamente», prosegue, «se Carminati corrompe i giudici e aggiusta i processi, se un domani l’esito di questo processo non fosse di gradimento dell’Espresso, probabilmente avrei corrotto anche i giudici di questo dibattimento. Presidente io vorrei difendermi solo dalle cose che sono nel processo, ma purtroppo non lo posso fare (…) Le cose che stanno succedendo fuori da questo processo sono altrettanto importanti di quelle che accadono dentro questo processo».

Fin troppo esplicito il collegamento tra furti, ricatti e sentenze. E non è solo una provocazione la richiesta di avviare un procedimento per corruzione in atti giudiziari, pare proprio un avvertimento a chi nel tempo gli ha assicurato tranquillità nei processi. Anche darsi dello scemo sembra essere rivolto a terzi, quelli che sono convinti che lui mantenga fermamente fede alla sua storica posizione in dibattimento: stare zitto.

E invece continua a esaltare quel furto al caveau. Il 22 novembre ammette: «È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c’erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C’erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l’ho preso. Solo i carabinieri fanno finta di non capire da dove arrivi questa mia disponibilità economica, è ovvio». Il messaggio ha più obiettivi, il primo di giustificare la provenienza dei soldi e quindi della sua sproporzionata capacità economica, poi quello di disapprovare la linea investigativa che aveva consentito l’avvio delle indagini da parte dei Carabinieri e quindi quello più importante: sottolineare ancora una volta il valore dei documenti sottratti. Documenti importanti e riservati, scelti con cura tra quelle 900 cassette, utili forse per godere di lunga protezione e per ricordare a qualcuno che sono ancora nella sua disponibilità. Il tutto ammettendo candidamente e pubblicamente la responsabilità di quel colpo. Per quel furto Carminati è stato condannato, ma grazie all’indulto Prodi-Berlusconi la sua pena è stata ridotta e poi è stato affidato ai servizi sociali. Da quel momento inizia la sua avventura con Buzzi. Si incontrano nell’autunno del 2011, seduti attorno a un tavolino del bar Palombini nel quartiere Eur voluto da Benito Mussolini, a poca distanza dal ‘Fungo’, luogo di riferimento dell’estrema destra negli anni di piombo. Buzzi fa risalire a quell’incontro il patto con Carminati. Il 14 marzo in udienza ricorda che il ‘nero’ «temeva di essere intercettato per i suoi rapporti con Finmeccanica… Voi parlate di ‘Mafia Capitale’ – si è sfogato – ma dimenticate che l’appalto più grosso a Roma e in Italia è quello della metro C, con Finmeccanica, Gruppo Caltagirone e Toti, è lì che si concentra tutto. Lui portava i soldi ai politici per conto di Finmeccanica, non so a chi ma temeva che, essendo intercettato, potessi essere intercettato anche io».

Più che una narrazione di eventi sembra un vero assist. Il terreno è preparato in vista di quanto Carminati dovrà dire tra una quindicina di giorni. Il fedele ‘compagno’ ha fatto la sua parte, difendendolo e difendendosi dall’accusa di mafia, ma ha indicato una prospettiva che difficilmente non avrà conseguenze e che apre uno squarcio, forse, verso il mondo di sopra.