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Mafia viterbese, 80 anni di carcere per 10 imputati: «Una vera cupola»

Il Corriere della Sera, 11 Giugno 2020

Mafia viterbese, 80 anni di carcere per 10 imputati: «Una vera cupola»

La rete difendeva i suoi affari con incendi e teste d’agnello. Ai capi le condanne più gravi: 13 anni e 4 mesi a Giuseppe Trovato, 12 anni a Ismail Rebeshi. Giudicata estranea la donna appartenente al gruppo

di Stefania Moretti

L’accusa regge, almeno per ora. Per il tribunale di Roma è vera mafia la banda italo-albanese stanziata a Viterbo, che difendeva i suoi affari incendiando auto, crivellando vetrine e piazzando teste d’agnello. Due ore di camera di consiglio sono bastate al gup Emanuela Attura per comminare ottant’anni di carcere, sui 135 chiesti dalla Direzione distrettuale antimafia romana: al netto di una serie di assoluzioni per danneggiamenti e tentate estorsioni, l’architrave dell’accusa ha tenuto.

Dieci imputati, tutti in videoconferenza dalle carceri di mezza Italia. Condannato, con rito abbreviato, l’intero cartello per associazione a delinquere di stampo mafioso, a eccezione di una collaboratrice del boss Giuseppe Trovato: per lei la pena più lieve, due anni e 4 mesi e l’assoluzione dall’accusa di aver fatto parte della cupola viterbese. Tra i cinque e gli otto anni di reclusione per i sette imputati ritenuti la manovalanza del clan, autori di decine di attentati tra il 2016 e il 2018. Risarcimenti alle parti civili (una quarantina in tutto le vittime, ma solo 19 chiedono i danni al clan), tra cui 30mila euro da versare immediatamente al Comune di Viterbo. Ai capi, le condanne più pesanti: 13 anni e 4 mesi a Giuseppe Trovato, calabrese trapiantato a Viterbo, vicino alla cosca Giampà; 12 anni a Ismail Rebeshi, albanese, l’altro boss della «piovra locale», gestore di un night e di una rivendita di auto. Soci in affari, secondo i pm Giovanni Musarò e Fabrizio Tucci. Gli interessi equamente divisi in regime di mutua collaborazione, per spartirsi fette di business: Trovato voleva il monopolio dei compro oro viterbesi, Rebeshi il controllo dello spaccio.

Una mafia piccola, perché piccolo è il suo raggio d’azione, ma spietata e con tutti i crismi della criminalità organizzata, hanno sempre sostenuto i magistrati. Spirito imprenditoriale e anima violenta. Non una costola della ‘ndrangheta ma un gruppo radicato sul territorio che, semmai, alla ‘ndrangheta e alla mala albanese si ispirava, producendo terrore e omertà. Contro chi lo ostacolava nel disegno di controllo della provincia, il clan scaricava la sua vendetta: i compro oro concorrenti a Trovato dovevano chiudere, intimiditi con incendi, buste con proiettili, animali sgozzati e lumini votivi davanti alle saracinesche. A fuoco anche le macchine di carabinieri e di avvocati come Roberto Alabiso, che avevano come sola colpa quella di fare il proprio lavoro: i primi indagando, il secondo era la controparte di Trovato in un vecchio processo.

Nessuna mafia, secondo i difensori. «Mancano la gerarchia, il programma associativo, una cassa comune, i rituali d’affiliazione – spiega l’avvocato di Trovato, Giuseppe Di Renzo, che ha contestato la validità della montagna di intercettazioni a sostegno dell’inchiesta -. Tutt’al più, può trattarsi di una federazione di interessi, a seconda dei casi. Gente che si faceva favori a vicenda, come dimostrano anche le dichiarazioni dell’unico pentito del gruppo». Poi c’è Rebeshi, «dipinto come il maggior trafficante di cocaina del viterbese quando ha solo una vecchia condanna», dichiara il suo legale Roberto Afeltra. Stamattina, prima che il giudice decidesse, Rebeshi ha voluto dire la sua, dal carcere di Cuneo, dove si trova al 41 bis: cinque pagine di appunti che sfogliava per aiutarsi a ricordare. «Mi hanno bruciato due camion e in questo processo non ce n’è traccia – ha detto, agitato, al gup -. Ho massimo rispetto per i carabinieri, non conosco neppure quello a cui è stata incendiata la macchina. Quando sono venuti a perquisire casa mia hanno rotto tutto, la mia fidanzata era in lacrime». Le sue parole non sono bastate.