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Mafia non vinta – Parte 2

Mafia non vinta – Parte 2

Giorgio Bongiovanni e Jamil El Sadi

07 Dicembre 2020

Cosa nostra 2.0, droga, imprenditoria. Nitto Santapaola ancora “Padre Padrone” di Catania

Attiva e permeata nel tessuto economico, politico e sociale. Questo è lo status in cui si palesa oggi la mafia nel nostro Paese, ed in particolare in Sicilia, come già ampiamente dimostrato nell’incipit di questo approfondimento (Mafia non vinta – Parte 1”). Lungi dall’essere tema cardine dei dibattiti politici o televisivi, della dialettica dei grandi professoroni o dei benpensanti, la criminalità organizzata oggi veste abiti nuovi. Trattasi di una mafia societaria, imprenditoriale, il cui potere risiede nella commistione fra vecchi e nuovi padrini: deterrenti di segreti e consolidati poteri, i primi, e garanti di longevità delle consorterie criminali, i secondi. Una “Cosa nostra SpA”, per citare il termine usato da Sebastiano Ardita, consigliere togato al Csm, come titolazione del suo ultimo libro (Società Editoriale Il Fatto SpA, collana PaperFirst). Una mafia, insomma, di appannaggio imprenditoriale, che gioca nelle quotazioni in borsa, ricicla ed investe denaro, il cui baricentro è nei palazzi dell’alta finanza e, soprattutto, operante in un coacervo di interessi internazionali.
Tutti aspetti che regalano un’immagine all’attivo, industrialmente parlando, del crimine organizzato.

Silvio Corra: l’ultimo pentito della famiglia Santapaola-Ercolano
Tra le fila di Cosa nostra catanese vi è da poco un nuovo collaboratore di giustizia. Si tratta di Silvio Giorgio Corra, classe ’84, il quale lo scorso 21 settembre si è seduto davanti ai pm Agata Santonocito e Antonino Ferrara (che da decenni coordinano alcune tra le più importanti inchieste su Cosa nostra catanese). Probabilmente è un nome poco conosciuto, ma certo è che alcuni membri della sua famiglia sono ben noti alle cronache giudiziarie. Corra è il cognato di Angelo Santapaola, cugino di Nitto, ucciso nel settembre 2007 nel calatino per ordine dei vertici della famiglia: i Santapaola-Ercolano.
Le rivelazioni del neo-pentito hanno posto al centro dell’attenzione i capi indiscussi di Cosa nostra catanese, dimostrando che, nonostante il padrino Nitto Santapaola, e molti affini siano in carcere, quella branca familiare continua ad essere il deterrente del potere mafioso della provincia.

Segreti, assetti di potere e ritorno di vecchi boss
Corra ha rivelato fatti e misfatti ripercorrendo la sua storia criminale e dividendola in tre fasi. La prima, riferita al periodo che va dal 2004 al 2007 (anno in cui fu arrestato per la prima volta). Lasso di tempo in cui il giovane venne affiliato ai Santapaola-Ercolano e suo cognato scarcerato (aprile 2004). Quest’ultimo prima prese il potere, spostando il baricentro del clan a Catania rispetto al calatino, e poi venne ucciso perché considerato un cane sciolto. In questa prima fase si evince come Angelo Santapaola curasse rapporti con alcuni dei più importanti boss del calatino, come Alfonso Fiammetta e Pasquale di Palagonia e Rosario di Castel di Judica, racchiusi all’interno dell’inchiesta Iblis (che ha smascherato importanti rapporti fra mafia, politica e imprenditoria).
La seconda finestra va dal 2013 al 2016, periodo in cui, a detta del giovane pentito, fu riorganizzata la famiglia riportando in auge il nome dei Santapaola. Nel 2013, infatti, vi era un nuovo reggente sul “trono” di Cosa nostra. “Quando sono uscito dal carcere ho trovato Francesco Santapaola che era alla detenzione domiciliare […] – ha detto Corra –. Figlio di Salvatore Santapaola“. Il suo incoronamento fu deciso nel carcere di Bicocca, dove erano presenti anche “suo cugino Vincenzo Santapaola e Daniele Nizza (uomo d’onore, ndr). Coscienti entrambi che Francesco Santapaola sarebbe stato trasferito ai domiciliari per problemi di salute e, per questo, era l’unico che avrebbe potuto prendere in mano il testimone del comando.
Ma Corra non si è limitato a raccontarne l’ingresso nella famiglia, ma anche la sua affiliazione come uomo d’onore. “L’hanno fatto Rosario Tripoto (boss di Picanello, ndr), Salvatore Seminara (boss della provincia di Enna, ndr) e Franco Amantea (boss di Paternò, ndr) – ha continuato il pentito – […] Mi sembra tra luglio e agosto 2015″. La “pungiuta” di Francesco Santapaola si colloca, dunque, in un quadro temporale molto recente. Ulteriore testimonianza che denota la vitalità di Cosa nostra catanese e la sua propensione alle nuove leve.
Ma è narrando la terza parte che emerge un dato ancora più inquietante. Cosa nostra catanese, traffico di armi e le ombre esterne al clan
Nella terza fotografia del racconto, la più recente (che va dal giugno 2019 a settembre 2020), il pentito ha fatto riferimento all’armamentario della famiglia.
Una volta tornato a piede libero, perché scaduti i termini di custodia cautelare del suo secondo arresto, a suo dire avrebbe capeggiato (dal gennaio 2020 fino al giorno della sua collaborazione) una delle articolazioni dei Santapaola-Ercolano: il gruppo dei Nizza.
Una famiglia in ascesa che poteva contare su una forte disponibilità di armi.
Al suo interno, secondo le dichiarazioni del pentito, vi sarebbe anche Giovanni Pinto, un “armaiolo” dei Santapaola e non solo. Sarebbe stato quest’ultimo ad avere un filo diretto per l’approvvigionamento: Le procurava perché lui aveva un amico. Non c’ha mai detto a nessuno il suo canale. Ci diceva soltanto che aveva un amico che lavorava al poligono e che ci forniva pure […] le munizioni. Questo qua l’ha fatto fino ad oggi, quando io ero fuori”. “Li vendeva a noi – ha spiegato Corra – li vendeva ai Cappello, li vendeva, diciamo… a chiunque. Chiunque aveva bisogno di armi, lui le vendeva. […] Aveva di tanti tipi, di tutti i tipi e di tutti i colori. Anche da guerra – ha continuato – AK-47, M16… AK-47 corte, AK-47 lunghe… di tutte le maniere. GLUCK, 7.65 calibro… […] Tutti i tipi possibili. […] Su ordinazione”.
Ancora più sorprendente, però, è ciò che è emerso in merito ai luoghi in cui queste armi venivano nascoste. “Le deteneva in vari posti. […] Le ho viste io, erano detenute a casa sua, a mare, erano sotterrate dentro i sacchi – ha continuato il pentito – […] Fino al 2016 le armi erano detenute sia nel magazzino di suo padre (di Giovanni Pinto, ndr) […] che si trova presso Via Adamo, a Catania, in una traversa. Sia al Campo Di Mare. E anche dentro, in Via Acquicella Porto, dove abito io”. E alle richieste di maggiori spiegazioni da parte dei pm, Corra ha spiegato come le armi venivano nascoste sotto le palazzine. “[…] Si può entrare, ci sono delle… una porticina piccolina così… Entravi tu da là, diciamo, e arrivavi… facevi duecento… tutte le palazzine. Perciò tu puoi camminare sotto ai palazzi. Tipo un sotterraneo, sì”, ha concluso il collaboratore.
In sintesi, le rivelazioni di Silvio Corra evidenziano nuovi assetti di potere, ritorno di vecchie “glorie” mafiose e nuove leve, commercio di armi ed anche sagome “grigie” probabilmente esterne a Cosa nostra. Novità che riportano alla memoria un “modus operandi” dal sapore antico ma sempre presente. Perché di simili personaggi “borderline” la mafia si è sempre servita.

Una fitta ragnatela familiare
Numerose sono le inchieste, le operazioni delle forze dell’ordine e gli arresti che in questi anni hanno falcidiato Cosa nostra catanese. Nonostante ciò, però, la stessa continua a mantenere il controllo sul territorio della provincia e di gran parte della costa ionica.
Lo esprime in maniera inequivocabile la Relazione della Dia, presentata lo scorso 17 luglio al Parlamento, rispetto alla presenza della mafia nella Sicilia orientale durante il secondo semestre del 2019: La capacità di stringere accordi con quei settori dell’imprenditoria e della pubblica amministrazione che si dimostrano sensibili ai vantaggi economici derivanti dalla collaborazione con le consorterie, ha reso le famiglie mafiose capaci di generare intorno a sé un distorto consenso sociale”.
“Nel contesto criminale catanese un posto di vertice spetta alla famiglia di Cosa nostra Santapaola Ercolano – ha scritto la Dia –, il cui peso non appare diminuito a seguito della detenzione dei due capi storici, né dalla condanna di uno dei suoi esponenti di spicco (Antonio Tommaselli, alias “Penna Bianca”, ndr) o dal più recente arresto di un altro soggetto, legato da vincoli familiari ai capi del sodalizio”.
“Nonostante le numerose attività di contrasto, la famiglia Santapaola si è confermata capace di estendere la propria influenza nel territorio orientale dell’Isola, in particolare in provincia di Messina – si legge nella relazione –, dove ha insediato una vera e propria ‘cellula’, retta da soggetti la cui caratura criminale era stata avvalorata dalla parentela con storici boss”.
All’interno della ragnatela di Cosa nostra vi è anche la famiglia dei Mazzei, molto radicata in specifici quartieri della città di Catania. Il sodalizio risulterebbe guidato da un reggente ed opererebbe “avvalendosi del contributo di gruppi criminali locali, tra i quali quelli insediati nei territori pedemontani posti tra il Parco dell’Etna e quello dei Nebrodi, per lo più ricadenti nei comuni di Bronte, Maniace e Maletto”. “Il sodalizio – si evince dal documento – annovera propaggini attraverso articolazioni locali (gruppo dei Mormina) anche in provincia di Ragusa ed indirizza le proprie attività criminali principalmente nel traffico di stupefacenti e di armi”.
Ad aggregarsi allo scenario c’è anche la famiglia La Rocca che si pone in posizione di significativo controllo nel quadro generale degli assetti mafiosi regionali. Saldamente collegata ai Santapaola-Ercolano, infatti, la consorteria “estende il proprio potere sul territorio detto ‘Calatino-sud Simeto’ (a cavallo fra la provincia di Catania e di Enna, ndr), […] nonché nell’agrigentino, in particolare nell’agro di Licata (AG)”.
Infine, ci sono le consorterie mafiose di minor rango, “ma di pari efferatezza criminale”, come ad esempio il clan Cappello-Bonaccorsi il quale si avvale di squadre che agiscono come “braccio armato”, continuando a perseguire i propri interessi nel traffico di stupefacenti e nel settore delle scommesse illegali. Oppure i Cintorino, sempre articolazione dei Cappello, che, come il clan Pillera Puntina, oltre ad essere presenti nella città di Catania, opera anche sul versante ionico fra la provincia catanese e messinese, con particolare presenza nel comune di Calatabiano (CT).
Anche i Cursoti sono ben radicati nei quartieri catanesi di San Leone, Librino e Corso Indipendenza. Un gruppo particolarmente dedito al traffico e allo spaccio di stupefacenti, di norma finanziati con rapine ed estorsioni. Il clan è suddiviso in due frange: catanese e milanese. “Quest’ultima – si legge sempre nel rapporto Dia – in riferimento alla dilatazione territoriale dell’organizzazione, negli anni ’80, nelle città di Torino e Milano”.
Cosa nostra “ionica”, però, necessita un distinguo perché, a differenza di altre organizzazioni criminali, è meno vincolata dalle strutture interne. Alcuni elementi dei Corso, ad esempio, sono migrati nella famiglia dei Mazzei e nel clan Cappello, così come hanno fatto alcuni appartenenti del clan Sciuto. Affiliati dei Piacenti, invece, convivono con le squadre della famiglia egemone dei Santapaola.
Insomma, lo scenario del crimine organizzato su quel versante della Sicilia è tutt’altro che “quieto”. Al contrario pullula di vitalità grazie a nuovi affari, propaggini attive e inedite alleanze consolidate.

Con sempre maggiore evidenza emerge la tendenza dei gruppi criminali catanesi “a stringere patti ed a consolidare sinergie tra loro e con consorterie esterne, per la gestione del traffico e dello spaccio di stupefacenti che – hanno messo nero su bianco gli analisti – rimangono l’investimento più remunerativo e trainante del circuito degli affari illegali (vedi l’operazione “Overtrade” che ha permesso di ricostruire le modalità di approvvigionamento degli stupefacenti e di disegnare il ruolo di mediazione svolto da elementi della criminalità organizzata etnea tra fornitori calabresi ed acquirenti delle province di Catania, Siracusa e Palermo, ndr)“.
Ma, come un’azienda in espansione, Cosa nostra catanese ha allargato le vedute verso orizzonti lontani. A testimonianza di ciò vi è la presenza di gruppi criminali organizzati di stranieri nella provincia di Catania. Vere e proprie bande attive composte da “soggetti magrebini od originari dell’Africa subsahariana, nonché da cittadini provenienti dai paesi balcanici o dalla Cina”, i cui interessi si diramano su più fronti: “Sfruttamento della prostituzione (per lo più appannaggio di nigeriani, albanesi, rumeni), del lavoro nero (attuato principalmente dai rumeni) o nel commercio di prodotti contraffatti (realizzato principalmente dai cinesi)”, ha scritto la Dia nel suo rapporto.

Tutto cambia affinché nulla cambi
La relazione della Dia, le inchieste dei magistrati, le rivelazioni di numerosi collaboratori di giustizia trasmettono un’immagine di Cosa nostra catanese dalle vesti nuove, ma è solo un appannaggio della realtà. I clan, le varie consorterie criminali, le famiglie, sono tutte collegate fra loro da affari, patti e parentele.
E sullo sfondo, nonostante il passare del tempo e l’alternarsi dei protagonisti di scena, resta l’immagine del “Padre Padrone” che, nonostante sia da decenni in carcere, continua a troneggiare Cosa nostra in quel di Catania e dintorni: Benedetto “Nitto” Santapaola.
Si tratta dell’ultimo protagonista fra i boss mafiosi della stagione stragista di Cosa nostra, assieme a Totò Riina e Bernardo Provenzano (deceduti), Bagarella, Graviano e, ovviamente, Matteo Messina Denaro (primula rossa di Cosa nostra ancora latitante). E per questo detenuto al regime di 41 bis dal 18 maggio del ’93, dove sta scontando ben 18 ergastoli.
È descritto da tutti come un uomo molto intelligente e carismatico; una sorta di mafioso “modello”, un po’ stereotipato, a tratti folkloristico.
A determinare il potere nelle sue mani, oltre all’immagine che rappresenta, vi sono anche legami di parentela creati grazie a sua mamma, Cosima D’Emanuele, e le sue due sorelle. Le tre donne, infatti, hanno dato vita alle famiglie più sanguinarie della mafia catanese: i Santapaola, gli Ercolano e i Ferrara.
Ma non finisce qui. Da sempre considerato Re di Cosa nostra catanese e legato storicamente a Provenzano, Santapaola alla fine degli anni ’70 ricevette dalla Commissione regionale (presieduta da Riina) una serie di “feudi”, oltre al mandamento di Catania. Gli venne affidato tutto il territorio della Sicilia orientale, la famiglia mafiosa di Lentini capeggiata dai Nardo (già fedeli a Santapaola), la provincia di Siracusa (in cui spicca il clan Bottaro di Solarino) e il controllo delle organizzazioni criminali locali esterne a Cosa nostra fino ad arrivare a Messina, spartita assieme alla ‘Ndrangheta dei De Stefano e Cosa nostra barcellonese (legata all’ala corleonese dalla quale riceve ordini).
Santapaola è anche uno dei pochi conoscitori dei segreti sui mandanti esterni alle stragi (grazie alla posizione apicale ricoperta all’interno di Cosa nostra). Inoltre, vantava legami con imprenditori di alto livello come Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo. I quattro “Cavalieri dell’Apocalisse Mafiosa”, per citare un termine usato dal giornalista Pippo Fava. Quest’ultimo, ucciso su commissione di Nitto Santapaola e Aldo Ercolano e, probabilmente, con il benestare dei quattro imprenditori.
Nitto vantava legami con soggetti di spicco della massoneria e persino amicizie interne alla magistratura, personaggi appartenenti ad ambienti di potere. Insomma, è sempre stato un uomo che le “mani in pasta” le ha sapute mettere nei giusti ambienti e il suo “spessore criminale” lascia poco spazio alle nuove reclute.
Assetti di potere in odore di massoneria e istituzioni, sistemi di estorsione, traffico di stupefacenti e armi, piani di esecuzione, stragi, interessi internazionali, segreti di Stato. Questo e tanto altro chiarisce il ruolo, più che mai attuale, che gioca “il Licantropo” (come viene ricordato il boss poiché affetto dalla licantropia clinica) all’interno di Cosa nostra.
“Tutto cambia – quindi – affinché nulla cambi”, ricorda il Gattopardo, poiché alla fine i nodi al pettine portano tutti, chi più chi meno, al padrino di Catania, come fosse una cartina tornasole o una calamita. Tutto gira intorno a Nitto Santapaola. Ed il suo imperterrito silenzio ne è la testimonianza.

Luigi Ilardo: ucciso perché sapeva
Nella ricostruzione dei rapporti tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta (e massoneria deviata), un contributo lo avrebbe potuto dare Luigi Ilardo – ex referente provinciale per Cosa nostra nissena, facente le veci di Giuseppe “Piddu” Madonia, e successivamente infiltrato dei carabinieri in Cosa nostra con il nome di “fonte Oriente”. Nei tre anni in cui è stato confidente del colonnello Michele Riccio, Ilardo fece arrestare boss di primo ordine nelle province di Messina, Catania e Caltanissetta, come Vincenzo Aiello, Lucio Tusa, Salvatore Fragapane, Giuseppe Nicotra ed altri. E, com’è stato accertato nei processi, grazie alle sue rivelazioni si sarebbe potuto catturare Bernardo Provenzano a Mezzojuso con undici anni di anticipo (il 31 ottobre 1995).
Ad evidenziare la rilevanza dell’Ilardo vi è stato anche il sostituto procuratore di Caltanissetta Pasquale Pacifico che, in un’intervista a “La Sicilia”, lo ha definito come: Uno dei pochi soggetti a conoscere i perversi intrecci tra mafia, massoneria e pezzi deviati dello Stato”. A Riccio parlò, infatti, anche dei mandanti esterni delle stragi del ’92 e del ’93, rivelò confidenze sugli incontri con Madonia, sullo scambio di pizzini con il boss Provenzano (all’epoca latitante), suoi costanti contatti con i Santapaola, con Aiello e con Galea.
Fonte Oriente”, dunque viveva a Catania ed aveva un ruolo di un certo livello all’interno delle famiglie criminali catanesi. Ma fu proprio la mano di Cosa nostra catanese che lo uccise il 10 maggio 1996 – a seguito di una fuga di notizie in merito alla sua neonata collaborazione con la giustizia. L’esecutore materiale fu Orazio Benedetto Cocimano, su commissione di Giuseppe Madonia e Vincenzo Santapaola, in un agguato organizzato da Maurizio Zuccaro. Boss che, lo scorso 1° ottobre dalla Corte di Cassazione, sono stati condannati all’ergastolo.
Dunque, Ilardo sapeva e, con il “Padre Padrone” catanese in cella, avrebbe potuto spezzare legami di altissimo livello tra Cosa nostra ed il potere che da ormai secoli caratterizzano il nostro Paese.

(Continua…)

fonte:https://www.antimafiaduemila.com/