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Mafia, il pentito del clan dei Casalesi: «Abbiamo interrato 9mila quintali di rifiuti»

 

Il Corriere della Sera, Venerdì 17 febbraio 2017

Mafia, il pentito del clan dei Casalesi: «Abbiamo interrato 9mila quintali di rifiuti»

Il racconto del business dei rifiuti illegali nel racconto di Domenico Bidognetti, cugino del capoclan oggi collaboratore di giustizia, nel libro «Il sangue non si lava»: «Guadagnavamo 125 milioni a notte»

di Antonio Crispino

Ogni notte il clan dei casalesi incassava 126 milioni di lire, solo con il traffico illecito dei rifiuti. C’erano dai venti ai trenta camion che tutte le sere, dal lunedì al venerdì, trasportavano novemila quintali di monnezza che finivano sotterrati nelle cave abusive. A raccontarlo è Domenico Bidognetti, cugino del capoclan Cicciotto ‘e mezzanotte e braccio armato della famiglia mafiosa, oggi collaboratore di giustizia.

Il business dei rifiuti

In un libro firmato da Fabrizio Capecelatro, «Il sangue non si lava», mette nero su bianco il tariffario del clan che grazie alla società Ecologia 89 di Gaetano Cerci (nipote del boss) e le discariche di Cipriano Chianese e Gaetano Vassallo (gestori delle discariche) ha fatto affari d’oro. «Gli imprenditori ci pagavano fra le 180 e le 220 lire al chilo. Nel migliore dei casi, ovvero quelli in cui questi rifiuti venivano effettivamente smaltiti nelle discariche regolari, “Ecologia ‘89” guadagnava fra le 50 e le 90 lire al chilo. Se, invece, venivano sotterrati nelle cave abusive il nostro guadagno arrivava anche a 160 lire al chilo». Bidognetti, detto ‘o Bruttaccione, racconta dei viaggi a Milano insieme a Gaetano Cerci ed Elio Roma (imprenditore del settore trasporti accusato di essere funzionale al clan) per convincere gli imprenditori ad affidare loro lo smaltimento dei rifiuti. «Lì capii che in realtà gli imprenditori facevano soltanto finta di non sapere con chi trattavano il trasporto e lo smaltimento di questi rifiuti, perché gli conveniva, visto che risparmiavano fra il 30 e il 40% rispetto a quello che avrebbero dovuto pagare smaltendoli legalmente». Una volta collaudato il sistema sono gli imprenditori a fare la fila fuori la porta dei casalesi per affidargli il servizio.

Il racconto del pentito del clan

Domenico Bidognetti ha iniziato a collaborare con la giustizia nel 2007, dopo sette anni di carcere duro al 41bis. È certamente il pentito più importante all’interno del clan dei casalesi. Un anno dopo la sua collaborazione gli uccisero il padre, Umberto. In televisione, ad Annozero di Michele Santoro, aveva osato invitare gli affiliati a collaborare con la giustizia. Il giorno dopo, la frangia armata guidata da Giuseppe Setola organizzò la vendetta trasversale. Le dichiarazioni di Domenico Bidognetti fanno ulteriore luce anche sul racket alle imprese edili. Sempre più spesso pagavano il pizzo prima ancora che il clan lo pretendesse: «Presentarsi prima offriva loro il vantaggio di avere un risparmio, visto che gli chiedevamo una percentuale del 3%, invece che del 5% sul fatturato». Il controllo capillare del territorio era garantito da vedette pagate appositamente per scovare l’apertura di nuovi cantieri. «Subito veniva bloccato il cantiere mandando un paio di mac-chine a minacciare i lavoratori affinché non lavorassero più… Quando l’imprenditore veniva portato al nostro cospetto, veniva talmente mortificato che spesso finiva con il piangere, in ginocchio». E quell’imprenditore non sarebbe uscito mai più dalle maglie della camorra. «Gli indicavamo noi i fornitori e le imprese a cui dare il subappalto per i lavori collaterali: gli facevamo avere il cemento, il ferro, le ceramiche e anche le piante, se ce ne era bisogno; gli facevamo fare gli scavi, i tramezzi, i pavimenti. Non tralasciavamo nulla, in modo da poter lucrare anche su quei subappalti e così quella percentuale del 3% diventava, per noi, del 10 o del 12%».

Gli arresti

Proprio a inizio febbraio scorso la Direzione Investigativa Antimafia di Napoli ha eseguito 31 arresti di affiliati al clan Bidognetti, tra cui le figlie e la nuora di Cicciotto ‘e mezzanotte, capo storico del clan. Secondo l’accusa continuavano a gestire gli interessi economici della cosca nonostante il padre fosse rinchiuso nel carcere all’Aquila.