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L’urlo di Fiammetta Borsellino: “Nessuna verità sul depistaggio. Questo Paese incapace di onorare i suoi morti”

L’urlo di Fiammetta Borsellino: “Nessuna verità sul depistaggio. Questo Paese incapace di onorare i suoi morti”

05 GIUGNO 2020

La procura di Messina ha chiesto di archiviare l’inchiesta sui due ex pm di Caltanissetta Palma e Petralia accusati di aver costruito ad arte il falso pentito Scarantino. La figlia del magistrato ucciso nel 1992 con la scorta: “Impossibile che i poliziotti abbiano fatto tutto da soli”

DI SALVO PALAZZOLO

“Il colossale depistaggio che ha tenuto lontana la verità sulla morte di mio padre e dei suoi agenti di scorta continua a non avere responsabili”, sussurra al telefono Fiammetta Borsellino. Ha appena letto su Repubblica.it che la procura di Messina ha chiesto l’archiviazione per i due ex pm di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia indagati di calunnia aggravata, per aver gestito il falso pentito Scarantino. “Non entro nel merito di quest’ultima inchiesta – dice – attendo di leggere le motivazioni. Ma una cosa è certa, questo è un Paese incapace di fare luce sui suoi misteri. E’ incapace di onorare i suoi morti”.

C’è però ancora in corso, a Caltanissetta, un processo in cui sono imputati tre poliziotti: il funzionario Mario Bò, l’ex capo del gruppo di indagine Falcone Borsellino, e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Se fosse vivo, sarebbe imputato anche l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera.
“Impossibile che i poliziotti abbiano potuto fare tutto da soli. Peraltro, ricordo, che inizialmente era stata presentata una richiesta di archiviazione per uno degli imputati. Poi, il caso ha preso un percorso diverso”.

Cosa sta emergendo dal processo di Caltanissetta?
“Delle circostanze molto importanti. Durante alcune telefonate dei magistrati con Scarantino, l’intercettazione sul telefono del falso pentito veniva disattivata dagli agenti. In aula si stavano facendo approfondimenti di un certo rilievo, che si sono dovuti interrompere per l’emergenza Covid. Mi dispiace davvero, quegli approfondimenti avrebbero potuto offrire spunti significativi all’indagine di Messina”.

Lei e i suoi fratelli Manfredi e Lucia, con vostra madre Agnese, non avete mai smesso di chiedere verità sul depistaggio che fino al 2008 ha tenuto lontana la verità sulla strage di via D’Amelio. Cosa c’è dietro questa vicenda ancora piena di misteri?
“Credo ci sia una verità troppo scomoda, una verità drammatica e inquietante per essere contenuta in un’aula di giustizia”.

E’ scomparsa anche l’agenda rossa di suo padre. E Gaspare Spatuzza, il pentito che nel 2008 ha riaperto il caso, ha detto di non conoscere l’uomo che il pomeriggio prima della strage caricava la Fiat 126 di esplosivo nel garage di via Villasevaglios. “Un uomo che non faceva parte di Cosa nostra”, ha spiegato.
“Siamo in linea con tutti i grandi misteri d’Italia, lo Stato non riesce a fare luce su queste ferite indelebili. E un Paese che non trova la verità è un Paese senza democrazia. Mi rincuora il fatto che tanta gente non si rassegni e continui a chiederla quella verità”.

Cosa dice ai giovani che incontra?
“Che la verità è un diritto sancito dalla Costituzione. Non ci si può rinunciare”.

Pensa che un giorno si arriverà alla verità su via D’Amelio?
“E’ un percorso lungo, tortuoso, fatto di tasselli che devono essere messi l’uno accanto all’altro, per provare a capire. Ma non possiamo rinunciare alla verità”.

Da oggi però il percorso sarà ancora più tortuoso.
“Sono passati 28 anni da quel 19 luglio, e non sappiamo ancora cosa è successo. I nostri morti non meritano tutto questo”.

Come proseguirà il suo impegno?
“Anche in questi mesi ho incontrato in videoconferenza tantissimi studenti e i loro insegnanti. Vogliono sapere, vogliono fare. E poi continuo il mio impegno nel mondo delle carceri, con le iniziative dell’associazione “Ristretti orizzonti”. Incontrare chi vive in cella e confrontarsi con quelle storie credo sia un percorso importante”.

Presto, riprenderà anche il processo di Caltanissetta.
“Continuerò ad essere presente in aula, per seguire gli approfondimenti che continuano ad emergere. Lo ripeto: non credo che i poliziotti abbiano fatto tutto da soli”.

A questo giornale affidò tredici domande sul depistaggio del falso pentito. Si chiedeva: perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra tutti i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni? E ancora: chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione? Un’altra domanda: perché furono autorizzati dieci colloqui investigativi della polizia con Scarantino, quando già era iniziata la collaborazione con i magistrati?
“Domande ancora attualissime. Domande che attendono una risposta”.

Fonte:https://rep.repubblica.it/