Cerca

Le vite devastate dei testimoni di giustizia.La Commissione Parlamentare Antimafia ha ora approvato,all’unanimità,la nuova ed attesa proposta di legge per i Testimoni di Giustizia che,secondo quanto comunicatoci dalla Segreteria della Presidenza della Camera da noi interessata per esaudire una richiesta di Luigi Leonardi,é stata trasmessa a ben 5 Commissioni parlamentare per l’esame e l’approvazione.Dopo dovrà andare in aula per l’approvazione definitiva.C’é il rischio che passino ancora anni prima che essa venga varata.Abbiamo scritto a tutti i presidenti e vice presidenti delle 5 commissioni ma nessuno,ad oggi,si é degnato di rispondere.E intanto il calvario continua……………………………Al Convegno di ieri a Caserta il problema é stato risollevato

Le vite devastate dei testimoni di giustizia

Imprenditori che hanno denunciato i loro estorsori ma anche semplici cittadini disposti a deporre contro i criminali in un’aula di tribunale. La legge in teoria tutela questi coraggiosi atti di legalità, ma nella pratica compiere questa scelta significa quasi sempre dire addio ad un’esistenza dignitosa: niente più lavoro, niente più rapporti con i famigliari, niente più contatti con la terra d’origine. “Per questo i clan non ci uccidono, gli basta annientarci”, racconta un ex industriale della provincia di Napoli. E in Sicilia una norma che ha scatenato il caos prevede l’assunzione da parte della Regione

di MICOL CONTE, EMANUELE LAURIA e ENRICO NOCERA. Con un commento di ENRICO BELLAVIA

Il prezzo esorbitante di una scelta coraggiosa

di MICOL CONTE e ENRICO NOCERA

CARIFE (AVELLINO) – A casa di Luigi e Giuseppina Orsino c’è poca luce e nell’aria c’è tanfo di umidità, ma dalla finestra della stanza da letto che affaccia sulle Valle dell’Ufita, in Irpinia, alle tre del pomeriggio filtra qualche raggio di sole caldo. “Purtroppo questo sole non ci serve per vivere”, commenta Giuseppina. Le bastano poche parole per dire quanto sia cambiata la sua vita da quando col marito ha ingaggiato la guerra al racket. Gli Orsino erano imprenditori nel settore della moda e dell’arredamento in provincia di Napoli. Con le loro attività avevano costruito una piccola fortuna grazie alla quale conducevano una vita agiata, poi è arrivata la camorra e di quella fortuna sono rimasti pochi ricordi imballati e depositati nel sottoscala della casa di Carife, dove hanno vissuto da luglio 2014 fino a poche settimane fa col figlio.

Salvati dalla Caritas. “Viviamo con 289 euro al mese, mangiamo grazie ai pacchi della Caritas e al sostegno di qualche amico. La solidarietà ci aiuta, ma per ogni gesto di carità che riceviamo perdiamo un po’ di dignità” si sfoga Luigi. La camorra li ha privati di tutto, ma non della speranza di tornare a vivere e lavorare. A Carife, un paesino di un migliaio di anime, gli Orsino sono soli. La casa in cui abitavano era pagata dal Comune, oggi si sono trasferiti  in un’abitazione popolare di cui hanno preso possesso grazie soprattutto all’intervento del Movimento 5 Stelle. A quello economico si aggiunge il problema della sicurezza. I loro processi a Napoli sono ancora in piedi, le istituzioni non li proteggono adeguatamente e temono la ferocia della camorra, che non perdona chi tradisce il codice dell’omertà. E’ la solitudine la condizione di vita più diffusa tra chi denuncia la malavita. E la paura lo stato d’animo più ricorrente.

Una rosa appassita. Quando Carmelina Prisco nel 2003 denunciò a Mondragone l’omicidio di camorra del quale inconsapevolmente fu testimone oculare, Raffaele Cantone, che all’epoca era un pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, la definì “una rosa nel deserto” per il coraggio dimostrato. Oggi Carmelina parla degli anni vissuti nel programma di protezione testimoni come di un’esperienza devastante che le ha cambiato la vita così radicalmente che ancora oggi, a distanza di tempo, fa fatica a rimettere insieme i cocci.

Il programma di protezione testimoni. Al programma speciale di protezione accede solo chi è in pericolo di vita. Alla base c’è una valutazione dell’autorità giudiziaria che ha un potere esclusivamente di segnalazione, chiarisce Catello Maresca, pubblico ministero della Dda di Napoli. Se il magistrato ravvisa l’urgenza e l’attualità del pericolo di vita di una persona lo segnala alla commissione centrale, che è l’organo preposto a ogni decisione. La commissione valuta caso per caso e si tratta di un giudizio cruciale, sottolinea Maresca, per evitare che si faccia abuso di questo status di testimone, attribuendolo a persone in cerca di aiuti economici o che vogliono semplicemente ricostruirsi una verginità. Se la commissione centrale delibera in favore della protezione ma non è in grado di agire tempestivamente, la competenza passa alla prefettura della località di residenza del testimone affinché attui le misure necessarie.

Il calvario dei testimoni. Che la vita all’interno del programma di protezione non sia facile lo conferma anche l’avvocato Giacinto Inzillo, specializzato nel diritto di mafia, che da Vibo Valentia segue diverse storie di testimoni, tutti accomunati dalle medesime difficoltà di ordine pratico. La prima è il cambiamento di residenza, che porta con sé una serie di effetti collaterali. “Il testimone viene condotto in una località segreta, nessuno può sapere dove sia, viene cancellato dal sistema sanitario nazionale, non può postare foto o informazioni di sé su Internet; se ha dei figli, anch’essi non possono comparire in foto di gruppo con gli amici. Gli viene data una casa, una mensilità che per legge deve essere commisurata al reddito, e ogni spostamento deve essere autorizzato. Persino se vuole incontrare i figli o rientrare nel paese d’origine deve chiedere il permesso, che non è scontato gli venga dato”, racconta Inzillo.

Tempi non rispettati. La commissione centrale a questo punto ha sei mesi di tempo per predisporre il programma definitivo, in virtù del quale il testimone ha diritto a un risarcimento danni commisurato al reddito perso per avere abbandonato la propria vita, ma poiché questo termine non è sanzionato difficilmente viene rispettato. E a volte passano anni, durante i quali le persone invecchiano, perdono opportunità lavorative, sono tagliate fuori dal sistema produttivo e non hanno più contatti con la terra di origine. Come è successo a Carmelina Prisco, che dopo varie peregrinazioni in località protette del nord Italia, ha ricevuto una ingente somma di denaro con la quale ha avviato una pizzeria a Sora, ma gli affari non sono andati bene e da quando è tornata a Mondragone è alla ricerca di un lavoro che non riesce a trovare.

Un sistema da riformare. Di un sistema definito “inesorabilmente invecchiato” che “deve ritrovare la sua strada” – come si legge nella Relazione del 2014 sui testimoni di giustizia- si è occupata a più riprese anche la Commissione Antimafia. La precedente relazione, approvata nell’ottobre del 2013, è stata trasformata in una proposta di legge di riforma depositata in Parlamento nel dicembre 2015, sta per essere calendarizzata dalla commissione giustizia di Montecitorio. Le modifiche puntano a distinguere dai collaboratori e tutelare i testimoni nei loro luoghi di vita per evitare un “esilio”. Del tema si è occupato poi anche un gruppo di lavoro istituito dal ministro dell’Interno Angelino Alfano con il compito di studiare l’attuale modello organizzativo del sistema di protezione dei testimoni e dei collaboratori, per renderlo più idoneo a soddisfare le esigenze dei cittadini.

Oggi i testimoni di giustizia in Italia sono un’ottantina, provenienti quasi tutti dalle regioni del sud: Campania, Calabria, Sicilia, qualcuno dalla Puglia. “Siamo testimoni, non collaboratori”, è la prima precisazione che fanno quando si parla con loro. “La gente confonde le due figure, io stessa a volte sono stata trattata con la stessa diffidenza con cui si tratta un pentito. Ma i collaboratori con le mafie prima ci hanno fatto affari e poi si sono pentiti; noi testimoni invece le mafie le abbiamo prima subite e poi denunciate”, precisa Carmelina Prisco.

Il miraggio dell’assunzione. Il 18 dicembre 2014 il governo, attraverso i ministri Alfano e Madia, ha adottato il regolamento per l’assunzione dei testimoni di giustizia nella pubblica amministrazione. Doveva essere un’opportunità per chi ha perso tutto in nome della legalità, ma fino a oggi questa legge ha trovato applicazione solo in Sicilia e con risultati discutibili. In Campania i testimoni intanto si sono riuniti in un movimento per la legalità, molto attivo su Facebook, che ha l’ambizione di trasformarsi in futuro in un’associazione. Il movimento, di cui si è fatto portavoce Luigi Coppola, testimone di giustizia ed ex imprenditore di Pompei, sta facendo pressione sulla regione affinché dia attuazione alla legge per l’assunzione nel settore pubblico, complice anche il fatto che la posizione dei testimoni di giustizia oggi è equiparata a quella delle vittime di mafia e di terrorismo.

Il caso Sicilia. “La segreteria della Regione Campania si sta interessando della questione perché vogliamo impegnarci a rispettare la legge nazionale sulle assunzioni nel pubblico”, conferma Enrico Tedesco, segretario generale della Fondazione Polis, che si occupa di vittime innocenti della criminalità e beni confiscati. Il ministero dell’Interno ha una graduatoria dei testimoni stilata sulla base dei benefici percepiti durante il programma di protezione, ovviamente maggiori sono stati questi ultimi e minore è il punteggio. La Regione dovrà prendere queste liste e poi verificare quali uffici pubblici campani sono in grado di assumere personale, perché anche i testimoni come tutte le categorie protette possono trovare spazio nella pubblica amministrazione solo se c’è richiesta di organico. A quel punto le assunzioni avverranno per chiamata diretta in base alla graduatoria. “Ci sono tutte le buone intenzioni da parte nostra perché i testimoni meritano di essere aiutati e tutelati, a maggior ragione se non hanno un lavoro – ripete Tedesco – ma per il momento passi concreti non ne abbiamo ancora fatti. Stiamo cercando di capire come muoverci, abbiamo preso contatti con Palermo, dove sono riusciti ad attuare la legge, ma la Sicilia è una regione a Statuto Speciale per cui lì c’è più autonomia di manovra”. E proprio il caso Sicilia ha generato malumore tra i testimoni di giustizia delle altre regioni, che si sentono discriminati per non avere ancora potuto beneficiare di una legge in loro favore

Risse e umiliazioni, il pasticcio della Sicilia

di EMANUELE LAURIA

PALERMO – Testimoni di quella che, ora, ritengono una grande ingiustizia. Testimoni dell’applicazione arruffona e a tratti grottesca di una legge approvata con i migliori propositi. Una norma che, per i 16 beneficiari siciliani – cittadini che hanno dato il loro contributo in un’aula di tribunale per condannare la criminalità – si è trasformata in un incubo. Non possono stare nell’Isola per motivi di sicurezza, non possono andare a vivere con le loro famiglie nei luoghi di “esilio” segreto previsti dai loro programmi di protezione, sono costretti a stare ammassati in un ufficio romano della Regione. Che scoppia di personale.

E sì che  la riforma varata dall’Assemblea regionale siciliana nell’estate del 2014 doveva essere un modello per il resto d’Italia. Prevedeva – prevede – l’assunzione dei testimoni di giustizia nei ranghi della pubblica amministrazione.  Il governatore Rosario Crocetta ne aveva fatto motivo di vanto: al momento della firma dei primi contratti si presentò in conferenza stampa assieme ai testimoni incappucciati. La foto rimbalzò sui siti web ma ben presto a quella immagine si sovrappose la notizia di una clamorosa defaillance: nessuno, prima del varo delle nuove disposizioni, aveva pensato che gli assunti dalla Regione siciliana, per ragioni di incolumità personale, non potevano semplicemente lavorare in Sicilia.

Dove metterli? L’amministrazione isolana ha altre due sedi: Bruxelles, scartata per evidenti ragioni di costo, e Roma. Dove, in via Marghera, è cominciato il calvario dei testimoni di giustizia. La dirigente dell’ufficio, Maria Cristina Stimolo, ha subito fatto notare, con una raffica di lettere, che serve una sistemazione più dignitosa a questo personale che ha portato l’organico a dimensioni extra-large (nell’ambasciata della Sicilia a Roma lavorano ora 41 impiegati) e nei fatti non ha alcuna mansione:  trovata un’occupazione (il semplice affiancamento ai colleghi) solo a quattro dei sedici testimoni di giustizia entrati nei ranghi della Regione. Gli altri dodici svolgono quello che con un termine pomposo viene chiamato “back office”: in sostanza fotocopie e il trasporto di qualche pratica.

Il tutto in una situazione di scarsa sicurezza che ha destato la preoccupazione dei colleghi anziani e un fiorire di procedimenti disciplinari a carico degli stessi testimoni di giustizia, protagonisti di liti e alterchi fra di loro. Ciò anche perché alcuni dei testimoni hanno denunciato parenti o persone vicine agli altri. Gli accusati siedono accanto agli accusatori, insomma. Gli addebiti sono sempre gli stessi: insulti, urla, spintoni sul luogo di lavoro. Alla dirigente Stimolo non è rimasto che segnalare al governatore “numerosi episodi di mancanza di rispetto fra gli stessi colleghi neo-assunti che influiscono in modo negativo sul buon andamento delle attività lavorative e sul decoro dell’ufficio”.

Negli atti allegati al procedimento disciplinare c’è il racconto, contenuto in una denuncia ai carabinieri, di una rissa “con grida e bestemmie” tra due dipendenti divise a stento dal capufficio. L’impiegata sotto accusa, nel racconto della collega che l’ha denunciata, nel corso di una lite avrebbe “afferrato il monitor del computer, scrollandolo nervosamente con intenzioni di fare del male”. Nello stesso esposto si parla di minacce di morte e di una serie di alterchi conclusi – in un caso – con l’arrivo di un’ambulanza. Alla fine si sono rivoltati gli stessi testimoni che hanno scritto a Mattarella: “Non possiamo stare un giorno di più a Roma. Qualcuno ci aiuti – affermano – perché rischiamo la vita. O si vuole inaugurare una nuova categoria di vittime, non della mafia ma dell’incoscienza e dell’inadempienza delle istituzioni?”.

Il tempo passa, però, e l’unico atto concreto della Regione è stato quello di mettere a disposizione ancora 500mila euro per disporre l’assunzione di altri nove testimoni. E in cantiere rimane una “leggina” con la quale il governo Crocetta, pur di superare il problema, prevede lo spostamento dei testimoni di giustizia negli organici di altre Regioni, mantenendone però l’onere finanziario. “Paghiamo noi purché qualcuno li prenda”, è la ratio della norma. Ma con le altre amministrazioni non c’è accordo. E il grande caos prosegue. 

Un patrimonio da tutelare per risorgere

di MICOL CONTE e ENRICO NOCERA

NAPOLI – “Ero appena uscito dal negozio di mio fratello a Boscoreale quando ho sentito una voce che urlava ‘Luigi, Luigi’. Due uomini in moto, a volto scoperto, si sono avvicinati, mi hanno sputato in faccia e mi hanno detto ‘Stai zitto, altrimenti ti spariamo in fronte'”. E’ solo l’ultima delle minacce rivolte a Luigi Coppola, testimone di giustizia responsabile dell’arresto di oltre venti persone in provincia di Napoli. I testimoni di giustizia sono l’espressione più coraggiosa della rete anticamorra che sta prendendo piede in Campania come altrove. Il movimento adesso ha una sede a San Giuseppe Vesuviano e non si esclude la possibilità di aprirne una seconda a Ottaviano, ai piedi del Vesuvio, proprio nella cittadina che fu il regno di Raffaele Cutolo.

“Non si può parlare di camorra senza capire cos’è l’anticamorra”, ha spiegato Tano Grasso, presidente della Federazione Italiana Antiracket, durante gli incontri sulle mafie organizzati dall’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Le sue parole muovono dal presupposto che non si può rappresentare una città come Napoli solo attraverso i delitti, ma è necessario raccontare la parte di società che reagisce con fermezza. Negli ultimi anni sono decine le associazioni volontarie nate sul territorio, in centro come in periferia. L’ultimo movimento nato in piazza, “Un popolo in cammino”, ha portato a manifestare in piazza oltre duemila persone. Era il 5 dicembre 2015, pochi mesi dopo l’uccisione del diciassettenne Genny Cesarano al Rione Sanità.

Un corteo di giovani e giovanissimi che marciava dietro allo striscione con impressa la scritta “No camorra”, immagine impensabile fino a qualche mese fa, in un quartiere che paga anni di dominio criminale e abbandono istituzionale. “D’altra parte i settori strategici della camorra napoletana incidono direttamente sul territorio – spiega Giovanni Colangelo, capo della procura partenopea – le estorsioni, il traffico di droga, il gioco d’azzardo. L’obiettivo dei camorristi è quello di insinuarsi nel tessuto produttivo cittadino”. La parte sana evocata da Tano Grasso ha cominciato a reagire, aprendo squarci di luce in un panorama che le organizzazioni criminali vogliono dominato dall’omertà più assoluta. Consapevole, però, che denunciare non serve se chi lo fa viene lasciato a se stesso: “Non chiediamo nulla di trascendentale – dice don Angelo Berselli, parroco del Rione Sanità – qui non manca solo la sicurezza: mancano scuole, lavoro, luoghi di aggregazione. Arrestare i camorristi non basta, bisogna mettere le persone in condizione di denunciare e vivere serenamente la propria vita”.

Parole che fanno eco a quelle del procuratore Colangelo: “Le istituzioni, di cui anch’io faccio parte, devono cominciare ad agire non più sugli effetti, ma sulle cause del fenomeno camorristico. Ci rendiamo conto del fatto che in alcuni quartieri i bambini crescono spalla a spalla con la criminalità? Bambini che considerano normale un’estorsione, o lo spaccio di droga, perché vedono queste cose ogni giorno? La rinascita di Napoli non può darsi senza un recupero urbanistico e sociale del suo centro antico”.

Arrestare non basta, come dice don Berselli. Quella dei militari inviati nei cosiddetti “quartieri difficili” rischia di diventare la pezza messa alla bella e meglio dopo il danno, se prima non si tutelano le persone che scelgono di reagire alla violenza camorristica mettendosi dalla parte dello Stato: “Dobbiamo muoverci con una prospettiva più ampia – conclude Colangelo – va bene la repressione dei reati, ma dobbiamo anche fare in modo che quegli stessi reati non si ripetano più”. E l’anticamorra corre anche sui social network con l’hashtag “#riscetamento”: risveglio contro la delinquenza e contro chi sceglie di rappresentare solo la Napoli criminale senza accorgersi di quella che il malaffare lo combatte tutti i giorni. 

“Il sud non è omertoso ma serve lo Stato”

di MICOL CONTE e ENRICO NOCERA

NAPOLI – Isaia Sales insegna Storia delle Mafie all’Università Suor Orsola Benincasa a Napoli. Autore di numeri saggi sulla criminalità organizzata, da “La camorra e le camorre” del 1988 all’ultimo “Storia dell’Italia mafiosa”, si è occupato delle politiche di contrasto ai clan sia in veste di studioso che di amministratore nelle file del Pci prima e di Pds e Ds poi. A lui chiediamo una valutazione sulla gestione dei testimoni di giustizia.

La riflessione che accomuna molti testimoni di giustizia è che la camorra non uccide ma isola, annienta.
“E’ il pensiero di persone esasperate ma in parte corrisponde al vero. La presenza dei testimoni di giustizia conferma che il successo delle mafie non è dovuto alla condivisone dei loro gesti da parte della popolazione ma all’impunità. E’ quest’ultima che crea assuefazione alle mafie. Avere dei testimoni di giustizia è la prova che questa non è una società omertosa, se per omertà intendiamo condivisione. Tutt’al più chi non parla lo fa per paura ed è un sentimento umano. Il coraggio è una costruzione collettiva perché un singolo uomo coraggioso deve trovare sponda in altri, nella società e nelle istituzioni. Per le vicende che vivono sulla propria pelle, i testimoni di giustizia sono anche persone con una psicologia fragile, perché hanno rotto un silenzio e per questo motivo andrebbero trattati con accortezza e umanità”.

Eppure si continua a dire che quella meridionale è una società omertosa
“La teoria dell’omertà dei meridionali è una stupidaggine. Confondere la paura che deriva da una constatazione delle forze delle mafie con una condivisione del loro operato è assurdo. Ricordo che in tutto il periodo dei sequestri di persona che riguardavano imprenditori del nord non c’è stato un testimone di giustizia. Io non lo considero un fatto negativo, faccio una constatazione. Quando hai un familiare nelle mani di un criminale temi che le tue parole possano compromettergli la vita. Però mi chiedo perché la società settentrionale, che è stata così tollerante rispetto ai silenzi di quei sequestri, è così attenta a scaricare sui meridionali la responsabilità dell’insuccesso della sconfitta delle mafie. Contro il terrorismo e i sequestri il successo è derivato dalla forza dello Stato. Il coraggio dei cittadini viene solo dopo l’azione repressiva statale”.

Che cosa si intende per metodo mafioso?
“La possibilità di rendere la violenza strategia. Strategia di contatti, di relazione, di intimidazione, di potere. Il metodo mafioso consiste nell’intimidire per accordarsi. Nel minacciare per contrattare. Storicamente questi atteggiamenti li abbiamo ritrovati in molte classi dirigenti italiane, nelle quali la violenza veniva usata come una forma di potere. E’ successo con i feudatari, con i nobili siciliani. Ecco perché io penso che le mafie siano nella storia italiana e non si può capire la storia del nostro paese senza studiarle”.

Perché le mafie in Italia continuano ad avere successo?
“Perché hanno relazioni con coloro che dovrebbero reprimerle. Senza queste relazioni sarebbero criminalità comune. I mafiosi sono diversi dai briganti o dai banditi perché non si contrappongono frontalmente a tutto lo Stato ma solo a una parte di esso. Quindi il loro successo è in questa particolarità: sono violenza di relazione. Si servono della forza per entrare in contatto con il mondo delle istituzioni, dell’economia e con varie formazioni sociali”.

Con l’obbligo di esilio sarà sempre una sconfitta
Con l’obbligo di esilio sarà sempre una sconfitta
di ENRICO BELLAVIA

ROMA – Hanno resistito al racket, hanno assistito a omicidi, denunciato e sfidato assassini, estorsori e usurai. Sono i testimoni di giustizia, circa 80 in Italia, ufficialmente protetti dallo Stato, spesso vittime della inestricabile burocrazia che accompagna le vite blindate e sotto copertura. Pochi accettano di mostrarsi in volto. La paura fa parte costante della loro esistenza. In pochissimi sono riusciti a riprendersi la quotidianità in mano. A proseguire le loro attività o a impiantarne di nuove. La corsia preferenziale per le assunzioni a chiamata diretta nella pubblica amministrazione fa a pugni con piante organiche e ristrettezze di bilancio. La Sicilia, capofila con una norma che li ha equiparati ai familiari delle vittime della violenza mafiosa, ne ha assunti 16, aprendo le maglie fino a 45 posti, destinandoli alla sede di Roma per motivi di sicurezza. Ma la coabitazione forzata di personalità e di storie diverse, la obbligata inattività in un ufficio che scoppia, ha trasformato la soluzione in un calvario.

La gran parte, sostenuta da un sussidio che dovrebbe compensare i mancati guadagni, aspetta e spera ciò che dovrebbe spettargli per legge: un lavoro o una somma che dovrebbe allineare il futuro al tenore di vita precedente. Ma, è questo il punto, in un luogo diverso da quello della residenza abituale e con una nuova identità. La realtà è fatta di alloggi segreti ben al di sotto da un livello accettabile, di soldi che arrivano a stento e di prospettive incerte. Al resto provvedono gli infiniti inciampi che coinvolgono i testimoni e i loro familiari, obbligati a seguire la loro scelta, vittime due volte di uno sradicamento che ha il sapore amaro di una doppia sconfitta. Figli che non è possibile iscrivere a scuola, assistenza sanitaria assente, gestione dei patrimoni difficilissima, rapporti con banche e creditori che si deteriorano fino allo smacco del fallimento. In breve, attività che vanno in malora.

La Commissione Antimafia e il Parlamento lavorano da tempo a una norma nuova che risolva una volta per tutte i problemi, sganciando il trattamento dei testimoni da quello dei collaboratori, adesso gli uni e gli altri affidati alla tutela del servizio centrale di protezione. L’obiettivo è arrivare a quella che nelle intenzioni è la vera vittoria: ossia la possibilità di lasciare i testimoni nel proprio ambiente, protetti ma non costretti a emigrare e con le loro attività, negozi, imprese che riaprono o si rilanciano, liberate dal giogo delle estorsioni e dal ricatto degli usurai.

La storia dei testimoni, come quella dei collaboratori di giustizia, è relativamente recente, almeno per l’ordinamento italiano che un decreto sul tema lo varò nel 1991. Il primo a invocare una norma fu Giovanni Falcone che sperimentò direttamente la difficoltà di gestione degli uni e degli altri. Pietro Ivano Nava, il rappresentante di commercio lombardo che in Sicilia, nel 1990, assistette in diretta all’omicidio del giudice Rosario Livatino e coraggiosamente non si tirò indietro riconoscendo i killer ebbe la vita stravolta da quella scelta. Si ritrovò lontano da casa e nell’impossibilità di lavorare. Lo stesso accadde a Giuseppe Carini, studente in medicina, al fianco di Padre Pino Puglisi, il prete martire di Brancaccio proclamato beato. Carini testimoniò contro gli assassini del sacerdote e si ritrovò catapultato in un’esistenza da fuggiasco.

Una vera legge, arrivata nel 2001 e modificata in meglio dal governo Letta tre anni fa, non ha sciolto tutti i nodi. Mentre gli appelli al coraggio civile della denuncia si rincorrono e si ripetono. E molti successi nella lotta alla mafia e al racket delle estorsioni poggiano proprio sulla forza di chi ha trovato l’energia di esporsi, avventurandosi nel mare aperto di una burocrazia che ha il volto non meno feroce dell’inerzia.

fonte:inchieste.repubblica.it