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Le domande senza risposta a 25 anni dalle stragi.Il processo “mafia-stato” e le “trattative” di cui non si vuole che si parli

Le domande senza risposta a 25 anni dalle stragi
Bisogna partire dal 1979 per capire cosa accadde nel 1992 e da quali rischi democratici fu attraversata l’Italia con le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Con i massacri del 23 maggio e del 19 luglio. Legati a doppia mandata

Sabato 20 maggio 2017

di Felice Cavallaro

Un anno, il 1992, spesso definito lo spartiacque che con le sue devastazioni cominciò a scuotere davvero un intero popolo. Una comunità già segnata dalla «morte della speranza dei palermitani onesti», giusto per ricordare un amaro epitaffio vergato dieci anni prima da mano anonima.

La carneficina

È il giudice Rocco Chinnici a varare alla fine del 1979, subentrando al giudice Cesare Terranova ucciso il 25 settembre, il primo embrione di quello che diventerà il pool antimafia. E lo fa arruolando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il primo, forte di una esperienza alla cosiddetta «Fallimentare», pronto a battere le piste economiche e bancarie di cosche e potentati. Il secondo subito immerso nell’indagine sfociata nell’individuazione del covo di Leoluca Bagarella, lo spietato cognato di Totò Riina che nel ’79 aveva già assassinato il giornalista Mario Francese e il capo della Squadra Mobile, Boris Giuliano. Delitti seguiti, nell’Epifania dell’80, dall’agguato a Piersanti Mattarella (nella foto Ansa) e, via via, da una carneficina finalizzata a decapitare i vertici di politica, magistratura e apparati investigativi.

Fra boss e Andreotti

Fa bene la Rai, nel venticinquesimo anniversario della strage di Capaci, ad intitolare la trasmissione di Fabio Fazio, presentata come una orazione civile, con due cognomi senza spazi fra il primo e il secondo, «FalconeeBorsellino». Perché risultano legate ed intrecciate fra loro non solo le due stragi del ’92, ma le stesse vite dei due magistrati, nati nel cuore della vecchia Palermo, fra la Magione e la Kalsa, poi ritrovatisi nel corridoio dell’Ufficio istruzione, chiamati da Chinnici a sviscerare i rapporti fra mafia, politica e imprenditoria. Il groviglio intercettato dai due magistrati. A cominciare dal nodo delle esattorie, con in cugini Salvo contemporaneamente in affari e in contatti con i boss e con Giulio Andreotti.

L’intreccio

È lo stesso intreccio degli appalti e dei rapporti inconfessabili ai quali proprio nei primi anni Ottanta lavoravano, in parlamento, Pio La Torre per affinare gli strumenti legislativi e, sul campo, un generoso servitore dello Stato come il generale-prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Caduti entrambi. A cento giorni di distanza. Nel 1982 (nella foto Ansa, l’A112 sulla quale, il 3 settembre, in via Carini a Palermo, il generale venne ucciso assieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo). Allora comparve il cartello che notificava «la morte della speranza dei palermitani onesti». Speranza destinata ad essere soffocata tante altre volte. Anche l’anno successivo con la strage «alla libanese» per eliminare Chinnici. Ed ancora nel 1985 con i delitti di Beppe Montana e di Ninni Cassarà, il segugio e il commissario considerati bracci operativi di Falcone e Borsellino, impegnati quell’anno a costruire il maxiprocesso. Costretti a fuggire via da Palermo per sicurezza. Letteralmente rinchiusi con mogli e figli addirittura all’Asinara per stare lontani dall’inferno di un pianeta investigativo e giudiziario zeppo di insidie interne, fra gelosie, talpe e veleni.

L’assalto degli «amici»

Determinati e tenaci, non mollarono e nel 1987 portarono a conclusione il grande processo che cristallizzò una certezza con la condanna, fra gli altri, dell’esattore Ignazio Salvo. A riprova di quell’asse perverso che finiva per condizionare l’imprenditoria, l’intera economia. Favorendo solo quella degli «amici». Con l’assalto agli enti regionali e alle banche. In fondo, come accadeva da cent’anni, visto che nel 1893 proprio per il ruolo di moralizzatore all’interno del Banco di Sicilia era caduto un uomo perbene, l’ex sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo. Primo delitto eccellente (raccontato da Sebastiano Vassalli nel libro «Il cigno») di una storia antica. Una storia che avrebbe potuto fare mollare la presa a tanti per paura o per quieto vivere, come accadeva nelle professioni e perfino all’interno del tribunale. Ma non per Falcone e Borsellino (insieme nella foto), convinti che l’impegno e il dovere avrebbero salvato la terra in cui operavano.

Violente polemiche

Ma lo spartiacque del «maxi», specchio di una realtà in cui cadono tanti alibi della cosiddetta società civile e di una accondiscendente borghesia, innesta violente polemiche soprattutto contro Falcone. Sempre difeso da Borsellino, pronto ad accendere le luci con denunce pubbliche. Come fa nel 1988, lanciando strali perfino contro «il giuda» del Csm, contro i traditori che nella scelta del nuovo capo dell’Ufficio istruzione, dopo Antonino Caponnetto, succeduto a Chinnici, gli preferirono Antonio Meli. Puntando da Agrigento il dito contro pezzi del mondo politico e giudiziario: «Stanno smantellando il pool antimafia, c’è un clima di smobilitazione…».

Il grido di Rosaria

Impegno e dovere, dunque, per salvare la loro terra. Una convinzione priva di retorica, come si capì nel 1992, fra una strage e l’altra, quando nei 57 giorni vissuti con ansia Borsellino si ritrovò a parlare di speranza. Come fece a due settimane dall’autobomba di via D’Amelio, a casa sua, al settimo piano di via Cilea dove irruppe, senza preavviso, bussando alla porta, una giovane donna a lui aggrappatasi per invocare giustizia, Rosaria Schifani. Sì, la vedova di uno dei tre agenti morti con Falcone e la moglie Francesca Morvillo, a 22 anni sconvolta dal mostro che le aveva distrutto la vita, divenuta per i mass media l’icona della strage di Capaci dopo quell’improvviso monito lanciato ai mafiosi nel giorno dei funerali (nella foto Ansa): «Vi perdono, ma inginocchiatevi». La accolse come una figlia, e ascoltò Rosaria che chiedeva giustizia: «Riuscirà a farla signor giudice?». E Borsellino confortandola con la moglie Agnese, con i suoi tre figli, tutti intorno a lei: «Questa terra diventerà bellissima». Frase scolpita nel cuore di Rosaria che s’interroga e non trova risposte ai mille dubbi sui possibili traditori, sui depistatori, sui processi sbagliati e rifatti in questi anni. E torna l’angoscia di Borsellino dopo la strage di Capaci, quando ad Antonio Ingroia confidò: «Devo fare presto». E a Leonardo Guarnotta: «Non so se farò in tempo a proseguire il lavoro di Giovanni Falcone». Cosciente che quell’impasto di interessi di cui Cosa nostra è solo una parte rischiava di soffocare ancora una volta ogni speranza.

Da Capaci al Quirinale

La bomba di Capaci aveva perfino bloccato l’elezione del presidente della Repubblica, azzoppando uno dei candidati più accreditati, proprio Andreotti. Adesso è certo che in quei giorni la sicurezza nazionale fu messa a repentaglio. Come anticipava una poco nota e disinvolta agenzia giornalistica vicina al pianeta andreottiano, «Repubblica». Quasi un vaticinio. Seguito perfino da un blackout dei telefoni di Palazzo Chigi. E, poco dopo, rapidamente eletto al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro, dall’avvio di colloqui che si cominciava a tessere tra ufficiali dei carabinieri e mafiosi, attraverso un ponte singolare, l’ex sindaco di Palermo «don» Vito Ciancimino (nella foto Ap). Siamo al tema della trattativa. O delle trattative, come preferirà dire molti anni dopo l’ex procuratore di Caltanissetta Sergio Lari.

Le date della trattativa

Pagine ancora controverse con inchieste incrociate fra Palermo e Caltanissetta dove Lari ha ricorda in passato una confidenza di Cossiga alla vedova Borsellino: «Ci fu la trattativa e ci fu poi il depistaggio». Quest’ultimo addebitato al Gruppo Falcone-Borsellino coordinato da Arnaldo La Barbera e sciolto in sordina. Una trattativa per la quale l’ex procuratore di Caltanissetta aveva indicato addirittura i tempi: «Entra nel vivo la prima settimana del giugno ’92». Smentendo così gli uomini del Ros, da Mori a De Donno e Mauro Obinu, che parlano di incontri con Vito Ciancimino successivi alla strage di via D’Amelio. E Lari: «Al di là delle loro parole, sono proprio i loro contatti che consentono di retrodatare gli avvenimenti. È lo scenario sul quale abbiamo indagato».

Il pentito e il tritolo

L’esito di queste indagini è ancora avvolto in una nebulosa. Ma per questo è stata ipotizzata una accelerazione nell’esecuzione della strage di via D’Amelio collegandola ai colloqui di Borsellino con il pentito Gaspare Mutolo, il boss che solo pochi mesi prima aveva deciso di parlare con Falcone, finalmente pronto a verbalizzare con l’uomo che gli appariva il naturale successore. L’ultimo incontro fra Borsellino e Mutolo è del 17 luglio, un venerdì, due giorni prima della strage, a Roma. Mentre parlano arriva una telefonata e, stando alle dichiarazioni di Mutolo, il giudice sospende l’interrogatorio dicendo di dovere andare al Viminale: «Mi ha chiamato il ministro». Circostanza smentita dall’allora titolare del Viminale, Nicola Mancino. Borsellino avverte l’insidia e vive quei giorni cosciente di dover correre contro il tempo, come rivela al suo amico Giuseppe Tricoli: «È arrivato in città il tritolo per me».

Misteri irrisolti

Sembra un libro al quale hanno strappato delle pagine, tante pagine. Così, venticinque anni dopo, si discute ancora di misteri. D’altronde, non sappiamo ancora chi si appropriò, all’interno della prefettura, della chiave della cassaforte di Carlo Alberto dalla Chiesa. Trovata quando ormai qualcuno aveva già portato via tutto. Accadde lo stesso con il notebook di Falcone, ritrovato con la memoria cancellata. E si verificò la stessa cosa con la borsa del giudice Borsellino portata via dalla macchina ferma in via D’Amelio da un uomo in divisa, un carabiniere, e ritrovata senza l’agenda rossa di cui parlano colleghi e familiari. Come se ogni volta intervenisse con tempestivo sospetto una sorta di «agenzia» pronta a entrare in azione ancor prima dei drammatici eventi, come azzardò in uno suo libro Giuseppe Ayala. Altro mistero in una terra che ricorda i 25 anni trascorsi, mentre tanti continuano a porre domande senza risposta.

fonte:http://www.corriere.it/