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La storia di una lunga battaglia

La storia di una lunga battaglia

15 Maggio 2018

di Gioacchino Natoli

Nella vita giudiziaria della Palermo dell’inizio degli Anni Ottanta, il modulo del cosiddetto “lavoro in pool” per i processi di mafia è stato una vera necessità per fronteggiare non più sostenibili carenze culturali ed organizzative circa l’essenza del fenomeno mafioso, nel momento in cui venivano uccisi – uno dietro l’altro (a parte esponenti mafiosi, quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo nel 1981) – uomini politici e rappresentanti dello Stato come Michele Reina (9.3.1979), Boris Giuliano (21.7.1979), Cesare Terranova (25.9.1979), Piersanti Mattarella (6.1.1980), Gaetano Costa (6.8.1980), Pio La Torre (30.4.1982) e Carlo Alberto dalla Chiesa (3.9.1982).

Ma, per giustificare questa affermazione, che potrebbe apparire perentoria, appare utile un flash-back sule vicende degli Anni Sessanta e Settanta nonché sull’iter dei pochissimi processi di mafia (quattro-cinque) celebrati in quegli anni. Del tutto falliti anche per l’assoluta inadeguatezza del metodo di lavoro utilizzato per indagare sul “fenomeno Cosa Nostra”, che non è semplice criminalità ma espressione di un pezzo del “sistema di potere”.

In tal modo, si vedrà che il “metodo di lavoro” non è affatto “neutro” rispetto al risultato che si vuole ottenere, e che lo sviluppo storico degli avvenimenti è stato molto più lineare di quanto si possa a prima vista immaginare.

Ma, soprattutto, tale analisi dimostrerà che nelle dinamiche di Cosa Nostra la “chiave di lettura” è molto spesso riposta in un passato, che per statuto epistemologico dovrebbe essere sempre tenuto sempre presente da chi svolge indagini per avere un corretto approccio interpretativo con i problemi dell’attualità.

TUTTO QUEL POCO (E NIENTE) CHE ERA AVVENUTO PRIMA

Il 30 giugno 1963 (alle ore 11.30) in un fondo agricolo di Ciaculli (al confine tra Palermo e Villabate) saltava in aria una “Giulietta”, imbottita di tritolo, e morivano sette uomini dello Stato, tra carabinieri, poliziotti ed artificieri.

Erano i tempi della cosiddetta “prima guerra di mafia”.

In effetti, per limitarci a pochissimi cenni, di auto imbottite di esplosivo ve ne erano state molte in quei mesi, giacché:

il 12 febbraio 1963 una Fiat 1100 era scoppiata, a Ciaculli, dinanzi alla casa di Totò Greco “Cicchiteddu” (senza fare morti);

il 26 aprile 1963 una “Giulietta” era scoppiata a Cinisi, uccidendo il famoso “don” Cesare Manzella ed un suo fattore;

e quella stessa mattina del 30 giugno 1963 (all’alba) un’altra “Giulietta” era esplosa a Villabate, dinanzi al garage di Giovanni Di Peri, uccidendo il custode ed un passante. Il Di Peri sarebbe poi trucidato nella cd. strage di Bagheria del Natale 1981.

Nonostante il gravissimo sconcerto destato nell’Italia intera dalle vicende del 30 giugno 1963 (invero, due automobili saltate in aria nel giro di sole quattro ore non erano facilmente “digeribili” neppure a quel tempo), il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, appena pochi giorni dopo – nello scrivere al Segretario di Stato vaticano Cardinal Cicognani – affermava che “la mafia era un’invenzione dei comunisti per colpire la Democrazia Cristiana e le moltitudini di siciliani che la votavano”.

E, nel mese di luglio del 1963, all’Assemblea Regionale Siciliana, l’onorevole Dino Canzoneri (DC) ebbe la tracotanza di affermare che Luciano Leggio era un galantuomo, calunniato dai comunisti sol perché “era un coerente e deciso avversario politico”.

Lo Stato reagì (almeno formalmente) alla strage di Ciaculli, facendo finalmente partire la prima Commissione parlamentare antimafia, che era stata frettolosamente costituita nel febbraio 1963 (Presidente Paolo Rossi), ma che non aveva potuto riunirsi neppure una volta a causa della fine della legislatura.

Quella Commissione, peraltro, era “dovuta” nascere (nonostante i tentativi politici di minimizzare i fatti) anche a seguito della “guerra di mafia”, che stava insanguinando Palermo e che aveva indotto il “Giornale di Sicilia” ad aprire l’edizione del 20 aprile 1963 con il titolo “Palermo come Chicago” per una cruenta sparatoria (in pieno giorno) avvenuta nella pescheria “Impero” della centrale via Empedocle Restivo.

Il 6 luglio 1963, pertanto, conclusesi le elezioni politiche nazionali, il nuovo Parlamento aveva ricostituito subito una Commissione antimafia e ne aveva affidato la guida ad un vecchio giudice meridionale, proveniente dalla Cassazione (Donato Pafundi), che non si era mai distinto né per conoscenze del fenomeno né per attività giudiziaria in processi di mafia.

Giova ricordare, per incidens, che della Commissione era divenuto vice-presidente il siciliano Nino Gullotti, preferito al giovane e meno “governabile” Oscar Luigi Scalfaro.

C’era in quel momento storico (come spesso accaduto in Italia) l’assoluta necessità di dare una risposta “straordinaria” ad un evento, che non consentiva più di “nascondere la polvere sotto il tappeto”.

Pertanto, in ispecie dopo la prima legge antimafia (n° 575/1965), proposta dalla Commissione, si incrementarono notevolmente le proposte per misure di prevenzione, così esportando l’attività mafiosa (come avrebbero riferito 30 anni dopo i collaboratori di giustizia), al nord del Paese soprattutto nel settore dei sequestri di persona.

I vari ministri dell’Interno diedero incarico ai Questori di presentare alla magistratura rapporti di denuncia (quasi sempre “vuoti”), con elenchi di presunti mafiosi, che erano spesso frutto delle confidenze di informatori prezzolati (o altrimenti interessati).

Per quanto riguardò Palermo, i risultati giudiziari furono oltremodo modesti, per non dire fallimentari, anche se i processi – per “legittima suspicione” – vennero celebrati fuori dalla Sicilia (o, forse, proprio per questa ragione).

LE CORTI DEI MIRACOLI

Si arrivò, così alle “storiche” sentenze di Catanzaro (22.12.1968) e di Bari (10.6.1969), che sancirono la bancarotta dell’impegno giudiziario e repressivo degli Anni Sessanta.

Le liste degli imputati erano sostanzialmente due, ed in particolare: la prima con coloro che provenivano da Corleone (processo c/Leggio Luciano + 63, istruito da Cesare Terranova); e la seconda concernente i mafiosi di origine palermitana (La Barbera Angelo +116).

Il risultato, come si anticipava, fu di assoluzione per tutte le imputazioni di omicidio e con poche condanne per il reato di associazione per delinquere semplice (non c’era ancora il 416 bis). La pena media delle condanne fu di circa quattro anni di reclusione, con altre assoluzioni e pene ancora più basse in grado di Appello.

Proprio nel processo di Bari (10 giugno 1969) fu assolto e scarcerato Totò Riina, che si diede subito ad una latitanza, che sarebbe finita solo 24 anni dopo (15 gennaio 1993).

Bernardo Provenzano, invece, che si era già sottratto ad un mandato di cattura nel maggio 1964, avrebbe continuato a godere di una sua “splendida latitanza” fino al 7 aprile 2006.

Il principale protagonista di quella stagione giudiziaria fu, senza dubbio il giudice istruttore Cesare Terranova, che curò un imponente processo su una decina di omicidi, avvenuti nel corleonese dal 1958 al 1963.

Era il metodo di lavoro, però, nonostante l’impegno straordinario di quel giudice, ad essere inadeguato all’importanza del cimento per l’assenza (quasi) totale di prove idonee a resistere alle intimidazioni “ambientali” che si scatenarono nel dibattimento e per il fatto che la filosofia giudiziaria dell’epoca faceva dipendere integralmente sia i PM sia i Giudici istruttori dai soli “rapportoni” delle Forze dell’ordine, che erano basati esclusivamente su mere confidenze e su ricostruzioni dei fatti molto spesso semplificatrici (se non “romanzate”).

Inoltre, il lavoro dei magistrati era assolutamente “individuale” e non collegato neppure a livello dell’ Ufficio Istruzione, ove all’epoca – di norma – venivano assegnati giudici che i Presidenti del Tribunale non ritenevano particolarmente idonei (per vari motivi) ai collegi giudicanti penali e civili.

Però, l’impegno non comune del giudice Terranova non sfuggì a Cosa nostra, che, il 26 settembre 1979, lo avrebbe ucciso (“in segno di riconoscenza”) non appena era rientrato in magistratura dopo due legislature trascorse in Parlamento, e si profilava per lui la possibilità che divenisse il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo.

In particolare, gli era rimasto personalmente grato Luciano Leggio, che gli addebitava un impegno ai suoi occhi ingiustificato e “causa prima” dell’ergastolo da lui subito in Appello a Bari, nel 1970, mentre tutti gli altri imputati venivano assolti.

Nel 1963, infatti (come si sarebbe appreso in seguito dai collaboratori), Cosa nostra di Palermo aveva deciso di sciogliersi (almeno ufficialmente), in modo da far mancare alla neonata Commissione antimafia l’oggetto stesso dell’indagine.

Tuttavia, le “famiglie” più avvedute (in particolare quelle di Corleone, di Santa Maria di Gesù e di Cinisi) avevano tenuto in vita le strutture essenziali, mentre l’organizzazione continuava a vivere nelle province di Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Catania ed Enna, rimaste di fatto non toccate dalle indagini.

Quando, dopo le elezioni politiche del 1968 e la fine dei due processi sopra ricordati, Cosa Nostra palermitana capì che il “bau bau” dello Stato era scaduto nella routine di sempre (non era stata presentata, invero, neppure una relazione “preliminare” sui lavori svolti dall’Antimafia), l’organizzazione nel 1970 si ricostituì, affidandosi al famoso triumvirato di Leggio-Badalamenti-Bontate.

Tra l’altro, il processo di Catanzaro (22.12.1968) aveva partorito un “topolino”, se si pensa che imputati del livello di Badalamenti, Leggio, Coppola, Matranga, Panno ed Antonino Salamone erano stati addirittura assolti dallo stesso reato associativo.

Ancora peggiore era stato l’esito della sentenza della Corte di Assise di Bari (10.6.1969), giacché tutti gli imputati “corleonesi” furono assolti sia dalle numerose imputazioni per omicidi commessi nel periodo 1958/63 sia dal reato associativo: fu condannato il solo Riina – ad anno 1 mesi 6 di reclusione – per una falsa patente trovatagli in occasione di un precedente arresto (15.12.1963).

Sarebbe stata poi la Corte di Assise di Appello di Bari (23.12.1970), in riforma della precedente sentenza che aveva destato sconcerto nell’opinione pubblica, a condannare Luciano Leggio all’ergastolo per l’omicidio (2 agosto 1958) del famigerato capo-famiglia di Corleone, dott. Michele Navarra.

COSA NOSTRA RIALZA LA TESTA

Ma, proprio per dare un segnale tangibile alla cittadinanza palermitana della “ripresa ufficiale” dell’attività, Cosa Nostra eseguì la “strage di via Lazio” del 10 dicembre 1969 e, un anno dopo (notte del 31 dicembre 1970), fece esplodere le cd. “bombe di Capodanno” dinanzi a tre edifici pubblici palermitani, dandone incarico all’emergente Francesco Madonia da Resuttana ed al suo giovanissimo figlio Antonino.

Madonia senior venne processato per detenzione illegale delle armi e degli esplosivi rinvenuti nel suo fondo Patti a Pallavicino, e condannato qualche anno appresso ad una irrisoria pena di soli 2 anni di reclusione.

Nessun inquirente, però, aveva capito il significato di quelle tre esplosioni contemporanee (palazzo Ente Minerario Siciliano, Assessorato. Agricoltura e Anagrafe di via Lazio): sarebbero stati poi i collaboratori, nel 1987, a spiegarlo ai magistrati, facendo loro mettere insieme i pezzi di un puzzle, che erano rimasti per quasi vent’anni separati e non compresi dalla polizia giudiziaria.

Intanto, nella notte sull’8 dicembre 1970, a Roma (ma anche a Palermo) vi era stato il tentativo di golpe del “principe nero della X MAS” Junio Valerio Borghese.

Per Cosa Nostra – già in grado da subito di riprendere tutte le sue importanti “relazioni politiche esterne” – avevano preso parte alla trattativa con i golpisti i più autorevoli esponenti di vertice palermitani e catanesi, chiedendo in cambio dell’aiuto fornito l’impegno per la futura revisione del processo (allora in corso a Bari) a carico del latitante Leggio per l’omicidio del dott. Navarra, in cui il PM aveva chiesto proprio in quelle settimane l’ergastolo. Chiesero anche ai golpisti l’“aggiustamento” del processo di Perugia, che (nel 1969) aveva visto condannati all’ergastolo Vincenzo e Filippo Rimi (cognato e nipote di Badalamenti) per l’omicidio del giovane Toti Lupo Leale, a seguito delle accuse della coraggiosa madre Serafina Battaglia.

Il golpe Borghese, come sappiamo, fu improvvisamente bloccato mentre era in corso di svolgimento, ma comunque dopo che un manipolo di ardimentosi era già entrato nell’armeria del Viminale, rubando dei mitra MAB (ritrovati, qualche anno dopo, nella disponibilità di terroristi “neri” a Roma) e dopo che un reggimento del Corpo Forestale aveva sfilato, in armi, per i Fori imperiali.

A Palermo, secondo quanto dichiarò ai giudici istruttori nel 1987 uno strano personaggio dell’eversione di destra (tale prof. Alberto Volo), era già stata occupata la sede RAI di via Cerda (ad opera dello stesso Volo e di altri) ed era stata sul punto di essere invasa la Prefettura, ove il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo (poi ucciso a Ficuzza da Leoluca Bagarella nell’agosto 1977) avrebbe dovuto prendere in consegna il Prefetto e sostituirlo personalmente nella funzione.

Cosa Nostra, dunque, riprese “alla grande” all’inizio degli anni Settanta la propria attività, uccidendo il Procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione (5.5.1971), e sequestrando (8.6.1971) Pino Vassallo (figlio del noto costruttore Ciccio Vassallo) nonché (il 16.8.1972) nel cuore di via Principe di Belmonte, alle ore 13.30, l’ing. Luciano Cassina, giovane figlio dell’influente conte Arturo, uomo dell’establishment politico-imprenditoriale, legato al potentissimo Vito Ciancimino (il sequestro durò sette mesi e si concluse nel febbraio 1973).

In questo contesto, il 30 marzo 1973 si era presentato alla Squadra Mobile di Palermo tale Leonardo Vitale (“Leuccio”), che confessò di appartenere alla famiglia di Altarello di Baida e svelò (ben 11 anni prima di Buscetta) la struttura e le regole di Cosa Nostra, il ruolo di Riina e di Calò, ed indicò anche il nome di alcuni consiglieri comunali di Palermo, appartenenti a famiglie mafiose.

Da questa temperie scaturì il cosiddetto “processo dei 114” (c/Albanese Giuseppe+74), avente per oggetto la sola imputazione di associazione per delinquere semplice (art. 416 c.p.).

La sentenza di 1° grado (Presidente. Stefano Gallo), resa il 29.7.1974, vide condannare solo 34 imputati (tra cui, Badalamenti, il catanese Pippo Calderone, Buscetta, Coppola, Leggio, Gerlando Alberti, Bontate e Riina).

Le pene, però, furono risibili (ad es.: Buscetta a 2 anni 11 mesi; Bontate a 3 anni; Riina a 2 anni e 6 mesi), tranne che per Badalamenti, Calderone, Leggio ed Alberti.

In Appello (prima sezione, presidente Michelangelo Gristina), in data 22.12.1976, le condanne riguardarono solo 16 imputati e la stessa significativa conferma della condanna di Badalamenti ne ridusse però la pena ad anni 2 e giorni 15 di reclusione (sentenza definitiva, poi, il 28.11.1979).

Del pari, il processo scaturito direttamente dalle dichiarazioni del Vitale (ritenuto affetto da “struttura schizoide”, e perciò semi-infermo di mente) si concluse il 14.7.1977 (4) davanti alla 2^ Corte di Assise (pres. Carlo Aiello) con la condanna a 25 anni di reclusione del Vitale per gli omicidi confessati, ma con l’assoluzione dalle stesse imputazioni di tutti quelli che egli aveva chiamato in correità (a cominciare da Pippo Calò).

Le condanne per il reato associativo (art. 416 c.p.) riguardarono solo 9 imputati (tra cui i latitanti Calò e Nino Rotolo, puniti con 7 e con 5 anni e 6 mesi di reclusione, che sarebbero poi stati catturati a Roma, per altri reati, il 29.3.1985).

Nessun cenno, nella scarna motivazione di appena 65 pagine, all’esistenza di Cosa Nostra ed alle sue strutture.

In Appello (29.10.1980, Presidente.Faraci), però, quasi tutti i condannati vennero assolti per insufficienza di prove e Leuccio Vitale fu inviato in un manicomio giudiziario per 5 anni.

Il Vitale, però, venne ucciso da uomini di Cosa Nostra l’11.12.1984, appena ritornato in libertà dal manicomio di Barcellona.

LA MAFIA COME “FENOMENO DI CLASSI DIRIGENTI”

Intanto, il 31.3.1972, la Commissione antimafia istituita dalla originaria L. n. 1720 del 20.12.1962 (pres. Francesco Cattanei) depositava finalmente una sua prima relazione (dopo ben 9 anni), il cui unico merito fu quello di dire – pur tra molte interessate reticenze – che la mafia si distingue dalle altre organizzazioni similari “in quanto si è continuamente riproposta come esercizio di autonomo potere extra-legale e come ricerca di uno stretto collegamento con tutte le forme di potere pubblico, per affiancarsi ad esso, strumentalizzarlo ai suoi fini o compenetrarsi nelle sue stesse strutture”.

L’importanza di questa affermazione da anni, ormai, non sfugge più ad alcuno.

Nel 1972, però, passò quasi inosservato il fatto che quella frase voleva segnalare un vero e proprio salto di qualità: il passaggio dalla concezione culturale – fino ad allora imperante – della “mafia come anti-stato” al paradigma della mafia come “parte del sistema di potere”.

La Relazione “conclusiva” di minoranza del 4.2.1976 (7) – a firma di Pio La Torre, di Cesare Terranova e di altri cinque componenti – non solo approfondiva questa importante acquisizione, ma la arricchiva di alcuni nomi “pesanti” (a cominciare da quelli di Salvo Lima e Vito Ciancimino), giungendo ad affermare per la prima volta che:

La mafia è un fenomeno di classi dirigenti”

Non è costituita solo da soprastanti, campieri e gabelloti”.

Tuttavia, sul fronte giudiziario, l’episodio più emblematico dell’assoluta inadeguatezza del metodo fino ad allora usato – frutto avvelenato dell’ “individualismo” dei giudici di quel tempo – è quello delle dichiarazioni confidenziali al Capitano dei carabinieri Alfio Pettinato dell’importante esponente mafioso di Riesi “Peppe” Di Cristina, che vennero rassegnate in ritardo (con il cosiddetto “rapporto rosso” del 23.8.1978) al giudice istruttore di Palermo, che si stava occupando dell’istruttoria formale per l’omicidio (17.8.1977) del colonnello Giuseppe Russo, per il quale erano in carcere tre pastori corleonesi che la storia futura avrebbe dimostrato del tutto estranei ai fatti (come, invero, la tipologia stessa dell’omicidio avrebbe dovuto fare intuire).

In detto “rapporto rosso” (dal colore della copertina), il capo-mandamento di Riesi – sentendosi prossimo alla vendetta degli avversari (che lo raggiunse, a Palermo ove tentava di nascondersi, il 30.5.1978) – aveva anticipato (more solito, come “confidenze”) la trasformazione che la Cosa nostra stava subendo ad opera dei “corleonesi” di Totò Riina e le linee future della cd. “seconda guerra di mafia”: anche se, per verità, in forma auto-assolutoria non solo per sé ma anche per la fazione dei suoi stretti sodali Stefano Bontate e Tano Badalamenti).

Ma ciò che mi pare rilevante è il fatto che l’importanza di quelle notizie (anche se da sviluppare) sarebbe emersa solo nel 1984 (con Tommaso Buscetta), dopo che la “seconda guerra di mafia” aveva già mietuto circa 700 omicidi (comprese le “lupare bianche”).

Era il metodo, infatti, ad essere del tutto errato, giacché fatti complessi e vicende intimamente legate fra loro (come quelli di Cosa nostra) venivano assegnati sia ai pubblici ministeri che ai giudici istruttori con criteri burocratici e di assoluta casualità, facendo sì che a distanza di una sola porta episodi connessi facessero parte di processi differenti e prendessero strade autonome.

Non può non segnalarsi poi, a mo’ di esempio, la inquietante circostanza che nei rapporti delle Forze di polizia degli Anni Settanta era letteralmente scomparso ogni cenno alla parola “Commissione”, nonostante che in un capo di imputazione (formulato nel lontano 1965) del cosiddetto “processo di Catanzaro” si fosse contestato espressamente ad alcuni imputati:

“… di aver formato una commissione di mafia, che decideva le sorti dei mafiosi”.

Si intende dire che il grave insuccesso riportato da quei pochi (ma significativi) processi o aveva fatto sparire negli organi di polizia la stessa nozione dell’organismo centrale ed essenziale della struttura di Cosa Nostra (termine, quest’ultimo, mai usato in alcun atto giudiziario prima della collaborazione di Tommaso Buscetta) oppure, in alternativa, che vi era stata una tale auto-censura da parte della p.g. da indurla a non dovervi più fare cenno.

La conseguenza diretta di tale degradato stato di cose fu – come osserverà amaramente anni dopo Giovanni Falcone in uno dei suoi scritti – che:

I problemi sono aggravati da inadeguate conoscenze del fenomeno mafioso da parte della magistratura e così, di fronte ad una organizzazione come la mafia, che si avvia a diventare sempre più monolitica ed a struttura verticistica e centralizzata, vi sono ancora pronunce di giudici che fanno riferimento ad una sorta di <<germinazione spontanea>> del fenomeno mafioso, ipotizzando l’esistenza contemporanea di associazioni distinte“.

Ed ancora, in un altro suo scritto:

Io ricordo il periodo in cui, dopo la repressione giudiziaria della mafia avvenuta nei primi Anni Settanta (allora non si parlava di maxi-processi e non destava scandalo la instaurazione di processi contro numerosi imputati), si è operato in Sicilia come se la mafia non esistesse, tanto che per lunghi anni nessuno veniva denunziato per associazione per delinquere.

Ebbene, quando nei primi Anni Ottanta il fenomeno è esploso in fatti di violenza inaudita, e quando tanti magistrati e pubblici funzionari sono caduti, con ritmo incalzante, sotto il piombo mafioso, le conoscenze del fenomeno erano ormai assolutamente inadeguate”.

LA “RIVOLUZIONE”

La nomina di Rocco Chinnici a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo (28.1.1980) cominciò ad invertire la tendenza di quella disastrata realtà giudiziaria, giacché la sua non comune capacità di lettura del problema-mafia e la sua forza di carattere fecero sì che egli cominciasse ad innovare il metodo di lavoro, assumendo su di sé la gran parte delle principali istruttorie sugli omicidi, in un tentativo (che si sarebbe perfezionato inseguito) di visione strategica del fenomeno e di coinvolgimento più diretto di alcuni magistrati di quell’Ufficio, a cominciare da Falcone, Borsellino e Di Lello, cui assegnò complessi processi di mafia riguardanti, in particolare, “fatti ed aree di indagine” omogenei.

L’ottica, però, rimaneva quella di singole assegnazioni a singoli giudici istruttori., essendo lo stesso Chinnici ancora condizionato da una lettura delle norme del cpp e dell’ordinamento giudiziario, che volevano il giudice istruttore come “giudice monocratico” per eccellenza (subito dopo il Pretore).

Sarebbe stato invero il suo successore, Antonino Caponnetto, a perfezionare nel novembre 1983 quella prima intuizione di Chinnici, prospettando una nuova interpretazione dell’art. 17 delle Disp. Reg. del cpp, che gli permise di assegnare “formalmente a se stesso” circa 200 istruttorie di mafia, ma di delegare contestualmente l’esecuzione di singoli atti di indagine ad altri giudici dell’Ufficio, in tal modo realizzando il primo, vero, lavoro in pool.

In ciò, invero, il Consigliere Caponnetto sfruttò al meglio l’esperienza maturata negli Uffici del nord da altri colleghi nei processi di terrorismo, in cui quella “modalità organizzativa” era già stata sperimentata senza provocare eccezioni di nullità.

Ad ogni modo, era stato l’arrivo di Falcone all’ufficio Istruzione (inizio 1980) e, soprattutto, la felice intuizione di Chinnici di assegnargli il processo c/Rosario Spatola + 75 a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo (e dell’Italia).

Infatti, la sua determinata convinzione che bisognasse strategicamente accompagnare ogni istruttoria di mafia con indagini bancarie e societarie, avrebbe fatto toccare con mano a tutti l’impossibilità di gestire processi di quelle dimensioni da parte di un singolo magistrato.

Falcone vi riuscì mirabilmente con il “processo Spatola” (riguardante 76 imputati e 90 capi di imputazione), ma probabilmente non sarebbe stato in grado – da solo – di mettere in piedi e di gestire il cd. maxi-processo.

L’occasione di quella straordinaria indagine bancario-societaria su Spatola & C. gli era stata offerta da un altro paradosso, verificatosi nel periodo precedente.

Era avvenuto, infatti, che sul cadavere di “quel” Giuseppe Di Cristina da Riesi (ucciso, come detto, il 30.5.1978) fossero stati rinvenuti ben 300 milioni di lire in assegni circolari di piccolo taglio, intestati a decine di nominativi diversi (quasi tutti mafiosi).

Orbene, il sistema di assegnazione “non strategico” dei processi aveva fatto sì che il giudice istruttore incaricato di occuparsi della vicenda, accertando che gli stessi erano stati emessi a Napoli, ne disponesse lo stralcio e l’invio per competenza a quell’autorità giudiziaria senza neppure pensare all’utilità di estrarne una fotocopia, da allegare agli atti del processo per l’omicidio Di Cristina, che rimaneva comunque in carico a lui.

Giovanni Falcone, intercettando casualmente qualcuno di quegli assegni circolari nell’istruttoria Spatola, era riuscito faticosamente a recuperare tutti i titoli bancari ed a scoprire, con meraviglia, che si trattava della redistribuzione degli utili di un importantissimo traffico di sigarette e di stupefacenti.

La “santa barbara” così innescata da Falcone, soprattutto sul versante dei rapporti societari che erano venuti alla luce, fece comprendere che quelle indagini – oltre ad essere auto-alimentanti (nel senso che ognuna ne faceva aprire molte altre) – dovevano avere carattere “sistemico” e dovevano essere organizzate con filosofia tutt’affatto diversa.

Falcone, però, al di là di tutto, aveva posto il vero problema dei processi di mafia: ovvero, che il metodo di lavoro scelto e realizzato non è affatto “neutro” rispetto all’obbiettivo che si vuole raggiungere, di talché la stessa scelta organizzativa contiene, già in sé, una opzione di risultato.

Aspetto, questo, che soprattutto le vicende degli anni successivi avrebbero dimostrato essere il vero cuore di una “guerra mai finita”.

Le vicende tragiche di quel periodo, in particolare gli omicidi eccellenti del 1980/82 nonché la sconvolgente uccisione con auto-bomba di Rocco Chinnici (29.7.1983), fecero accendere una nuova attenzione nazionale su Palermo e sui suoi uffici giudiziari.

L’arrivo del consigliere istruttore Caponnetto, nel novembre 1983, portò alla fondamentale svolta organizzativa cui si è fatto innanzi cenno.

In particolare, cambiò a Palermo radicalmente il modo di interpretare il lavoro quotidiano, sulla scorta delle pregevoli e proficue esperienze sempre più divulgate dai colleghi che si occupavano di terrorismo, i quali avevano addirittura creato un network di scambio di informazioni e di atti, che li vedeva incontrarsi periodicamente in varie città italiane per scambiarsi opinioni ed ipotesi investigative.

Il metodo di lavoro in pool comportò, all’ufficio Istruzione di Palermo, che nulla più potesse essere acquisito in indagini di mafia senza che gli originari quattro colleghi del pool non ne fossero informati in tempo reale.

Era l’ “uovo di Colombo”, ma a Palermo le cose più ragionevoli sono le più difficili da realizzare.L’abnegazione ed il carattere dolce (ma allo stesso tempo tenace) di Nino Caponnetto fece il resto.

Nessun giudice istruttore., ancorché non facente parte del pool, poteva più ignorare che non doveva più essere una monade isolata, ma la tessera di un unico mosaico.

La stessa Procura di Palermo, in previsione dell’apprestamento di requisitorie scritte sempre più impegnative, dovette strutturarsi in modo tale da avere dei sostituti, che seguissero a tempo pieno l’andamento dei processi che erano stati “formalizzati”.

Questo modello di lavoro “in pool” contro la criminalità mafiosa si calava nel più vasto dibattito giudiziario sull’organizzazione degli Uffici.

E, a tal riguardo, basti ricordare che lo stesso CSM si rese conto dell’importanza della rivoluzione di Falcone, dedicandovi un apposito incontro di studi (Fiuggi, luglio 1985), nel quale l’allora consigliere superiore Franco Ippolito riconobbe ufficialmente che “l’organizzazione degli uffici e la gestione dei processi di mafia ponevano questioni importanti per l’assetto ed il ruolo della magistratura” e che “il nuovo percorso era iniziato proprio nel 1982, segnando una svolta per la magistratura e per il CSM”.

Tuttavia, questa ricostruzione sarebbe incompleta, se non si facesse cenno all’opera – ora strisciante ora più visibile – di quanti opposero a tale nuovo metodo il richiamo strenuo alla vecchia filosofia, che voleva il giudice istruttore una monade isolata, che, nella sua “turris eburnea”, partoriva le indagini.

In particolare, ciò che veniva contestato – in modo sempre più virulento – era l’interpretazione di Falcone (e del pool), secondo cui al giudice istruttore (ai sensi dell’art. 299 cpp del 1930) incombesse l’obbligo di indagare autonomamente, pur in assenza di un’attività efficace da parte del pm e della polizia giudiziaria:

Il giudice istruttore ha l’obbligo di compiere prontamente tutti gli atti che appaiono necessari per l’accertamento della verità”.

Questo punto – ancora oggi – va messo nel necessario rilievo, perché sono stati “ciclici” i tentativi anche recenti di sottrarre al pm (giacché ormai la figura del giudice istruttore è scomparsa) il potere di iniziativa nella ricerca della notitia criminis.

Dunque, da quel novembre 1983, l’organizzazione del lavoro giudiziario di indagine a Palermo fu imperniata su una “vera specializzazione” e, soprattutto, su un continuo ed approfondito scambio di informazioni fra i giudici istruttori, facendo nascere il cosiddetto “metodo-Falcone”.

Tra l’altro, si instaurò un sistema di confronto costante (con riunioni collegiali) in modo da permettere l’aggiornamento, in “tempo reale”, delle conoscenze di tutto il pool sulle dinamiche di Cosa nostra e sugli sviluppi investigativi.

In questo clima, e solo con questa organizzazione, potè vedere la luce l’ordinanza di rinvio a giudizio dei 474 imputati del primo maxi-processo, in data 8.11.1985, e partì il 10 febbraio 1986 quel dibattimento, che sarebbe arrivato a sentenza (in tempo-record) il 16 dicembre 1987.

IL “METODO FALCONE” E TUTTI I SUOI NEMICI

Tuttavia, la rivoluzione copernicana del “metodo-Falcone” fu immediatamente oggetto di una sorda e sotterranea azione di logoramento, che, in certi momenti, divenne una vera e propria “guerra”.

Sono a tutti noti, ormai, gli attacchi (di qualsiasi natura) portati al pool (frattanto giunto a sei unità e mutato in alcuni dei suoi componenti), che culminarono nello “contestato” episodio della mancata nomina di Giovanni Falcone a consigliere Istruttore di Palermo (19 gennaio 1988).

Non si trattò, infatti, soltanto di una fiera opposizione all’uomo ed al magistrato Falcone, ma della punta più avanzata ed arrogante dell’attacco al “suo metodo di lavoro”: ancor più significativo, perché avvenuta nel momento in cui migliori e storici sembravano essere i risultati ottenuti (la sentenza del maxi-processo era stata pronunciata appena un mese prima, con risultati mai conosciuti nella storia giudiziaria precedente: oltre 2.600 anni di reclusione e ben 19 ergastoli).

Il CSM, con quella scelta del gennaio 1988, consegnò se stesso ad una memoria collettiva non commendevole, come in plenum ebbero a dire chiaramente taluni dei 10 consiglieri superiori, che votarono per Falcone.

Si trattò, invero, non della discussione per la nomina ad un incarico direttivo, ma soprattutto di una chiarissima “scelta di campo”, avente per obbiettivo la “filosofia organizzativa” che lo Stato-giurisdizione si voleva dare nel condurre indagini sulla mafia: indagini che non dovevano più seguire il metodo-Falcone.

Il nuovo “sistema” votato dal CSM (che appare corretto definire “metodo-Meli”) mostrò subito di essere il ritorno ad una sorta di Medioevo organizzativo ed investigativo, con lo smantellamento del pool e con la festosa révanche di quei magistrati palermitani (e non solo), che mai avevano sopportato il “sistema-Falcone” e che avevano sempre osteggiato l’uso dei collaboratori di giustizia (spregiativamente chiamati pentiti)

Le sponde istituzionali e mediatiche, in quegli anni difficili, furono numerose in ogni momento, tanto che il pool dell’ufficio istruzione, dal marzo 1988 in poi, fu di fatto distrutto.

Giovanni Falcone, ad ogni modo, forte delle sue convinzioni (a maggior ragione dopo gli esiti favorevoli del maxi-processo) tentò inutilmente, con il sopraggiungere del nuovo Codice di procedura penale, di esportare quel metodo organizzativo nella procura della Repubblica di Palermo: ma sappiamo tutti cosa accadde.

L’azione oppositiva più velenosa fu sempre “carsica” e “burocraticamente ineccepibile”, ancorché egualmente corrosiva, vischiosa e quotidianamente defatigante.

Per dirla con le parole di un magistrato, testimone attento e diretto di quella stagione, si ebbe cura di usare sempre il “sistema delle carte a posto”.

Ma Falcone, nonostante la sua indomita tempra di combattente, uscì sfibrato da quella “guerra”, iniziata contro di lui sin dalla fine del “processo Spatola” (1981), e – per evitare un invischiamento quotidiano in quel “tritacarne” mediatico – decise di accettare l’invito del Ministro della Giustizia, Claudio Martelli, per andare a capo della Direzione generale degli Affari penali.

A partire dal marzo del 1991, però, da quella innovativa postazione strategica (cosa che nessuno allora comprese), egli continuò con la sua rivoluzionaria “idea organizzativa” sulle indagini di mafia fino a farla divenire legge dello Stato attraverso il D.L. n° 367 del 20 novembre 1991, che istituì le Direzioni Distrettuali Antimafia nelle Procure.

Nella formulazione legislativa delle DDA egli riversò non solo il suo “metodo” ma tutta la sua esperienza giudiziaria, aggiungendovi anche i “prevedibili rimedi” alle infinite trappole, che gli erano state tese nel decennio precedente.

Ecco il perché della sua attenzione spasmodica alla formulazione minuziosa dell’art. 70-bis cpp, sia con il forte riferimento alle “attitudini ed alle esperienze specifiche” per potere far parte della DDA (e non già alla mera anzianità) sia – e soprattutto – con l’uso delle seguenti, meditate, parole:

Il procuratore distrettuale cura, in particolare, che i magistrati addetti ottemperino all’obbligo di assicurare la completezza e la tempestività della reciproca informazione sull’andamento delle indagini”.

Ognuno di quei lemmi era il “distillato” dell’esperienza (spesso negativa) maturata da Falcone nel corso della sua vita professionale, e verrebbe da ipotizzare che dietro a ciascuna parola vi era un volto oppure il ricordo di una nota burocratica o, ancora, di un ostacolo frapposto da qualcuno per impedire o ritardare un’indagine.

In altri termini, Falcone aveva ritenuto – con il suo innato “ottimismo della volontà” – di avere preservato (al massimo livello possibile) quel “metodo di lavoro” dal pericolo di una possibile futura cancellazione, avendolo consegnato alla forza vincolante di una legge dello Stato.

Quella “cancellazione” che egli aveva dovuto sperimentare sulla propria pelle ai tempi del consigliere Meli, allorché dovette assistere impotente (ottobre 1988) allo smembramento – con un freddo ordine di servizio – di importanti filoni di indagine che, con fatica inimmaginabile, egli aveva riunito negli anni precedenti per costruire un efficace mosaico investigativo (ad esempio, quello degli “omicidi politici”, dei Cuntrera e Caruana, degli “omicidi strategici” della seconda guerra di mafia, degli appalti pubblici mafiosi).

Era la prima volta, comunque, che in Italia un “metodo di organizzazione” del lavoro giudiziario veniva stabilito attraverso una legge.

Ma, ucciso Falcone nel maggio 1992, quel “metodo”, pur trasfuso nelle Direzione distrettuale antimafia, trovò egualmente degli ostacoli inattesi.

Si vuole fare riferimento ad una circolare del CSM del febbraio 1993, con cui (in modo improvvido) si posero dei limiti temporali (6 anni) alla permanenza dei sostituti procuratori nelle DDA.

Ciò contrastava frontalmente non solo con la convinta idea di Falcone che le indagini antimafia dovessero essere condotte da magistrati sempre più specializzati, ma soprattutto con la lettera della legge istitutiva delle DDA, che aveva previsto un tetto massimo (8 anni) solo per la funzione apicale del Procuratore nazionale.

Ma in quella circolare del CSM vi era, anche, qualcosa di più, giacché si diceva testualmente:

Appare, infatti, necessario evitare sia la creazione di veri e propri centri di potere … sia una eccessiva personalizzazione di funzioni così delicate”.

Ritornava così, inaspettatamente dopo le stragi del 1992, il réfrain tante volte utilizzato negli Anni Ottanta contro Falcone, secondo cui “fare antimafia” determinava l’accumulazione di “potere” da parte dei “professionisti dell’antimafia”. Ma “potere” verso chi, verso che cosa?

La domanda è sempre rimasta priva di risposta, tuttavia l’accaduto è stato un chiaro indice del fatto che un (apparentemente) “semplice metodo organizzativo” di indagini sulla mafia era interpretato da qualcuno nel Paese (anche a livello di CSM) come un “problema di potere” !

I tentativi degli anni successivi di modificare, su questo punto così qualificante, la circolare sulle DDA sono, purtroppo, andati a vuoto.

Ed inoltre, il tetto temporale dei 6 anni (del tutto incoerente con le ragioni della legge istitutiva del 1991) ha raggiunto la dimostrazione massima della sua incongruenza quando dalle DDA sono dovuti andar via (per tale motivo) proprio i magistrati più esperti e specializzati, per cui questa struttura – che avrebbe dovuto essere strategica nelle indagini di mafia – ha finito oggettivamente non solo col “burocratizzarsi”, ma (cosa più grave) ha perso quello slancio vitale che il pensiero di Falcone aveva pensato di attribuirle.

E così, ancora una volta, la realtà storica ha dimostrato che la scelta del “modello organizzativo” per le indagini nei processi di mafia non è affatto neutro, e non è forse immune da “interferenze esterne” allo stesso ambito giudiziario.

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/