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La morte senza giustizia di Panepinto

La morte senza giustizia di Panepinto

di Dino Paternostro

Non si può dire che fu la giustizia a trionfare quel 7 aprile 1914, nell’aula del Tribunale di Catania, dove si era riunita la Corte d’Assise per l’udienza conclusiva del processo contro gli assassini di Lorenzo Panepinto. Infatti, dopo un dibattimento durato appena 11 giorni, venne letta una sentenza, che lasciò con l’amaro in bocca i contadini di S. Stefano Quisquina.

«Avendo i giurati dato risposta negativa alle domande se l’imputato abbia ucciso Lorenzo Panepinto ed abbia tentato di uccidere Antonio Picone e Ignazio Reina – disse il presidente, cavalier Sgroi – l’imputato Giuseppe Anzalone deve essere dichiarato assolto per non aver commesso i fatti a lui attribuiti e pertanto si ordina la di lui scarcerazione».

Una sentenza “scandalosa”, che lasciò impunito l’assassinio di uno dei più amati dirigenti socialisti del movimento contadino isolano. Ma, per certi versi, una sentenza obbligata. Il vero scandalo, infatti, era accaduto qualche ora prima, quando la parte civile si era ritirata inaspettatamente dal processo. A darne comunicazione era stato l’avv. Luigi Macchi. «Non è esclusa la possibilità di un equivoco di identificazione: onde, coerentemente alle nostre costanti dichiarazioni, per mandato delle nostre costituenti, ci ritiriamo dalla causa», disse il legale, che era un noto esponente del socialismo catanese.

Con lui, si erano ritirati anche gli altri avvocati di parte civile, Gaspare Nicotri e Francesco Alessi, componenti della direzione regionale del Partito Socialista, e l’avv. Antonino Vinci Juvara. Incredibilmente, la motivazione del ritiro stava tutta in quella «possibilità di equivoco di identificazione», esclusa con fermezza dalla teste Provvidenza Rumore, che aveva visto in faccia l’assassino e che, coraggiosamente, aveva confermato la circostanza davanti alla Corte. Tra l’altro, nemmeno gli avvocati difensori erano riusciti a smontarne la testimonianza con circostanze oggettive. Essi, infatti, poterono solamente fare delle insinuazioni sulla condotta morale della teste, che lo stesso codice di procedura penale dell’epoca vietava.

Le udienze processuali si erano aperte il 28 marzo 1914, con la lettura dei capi d’accusa contro Giuseppe Anzalone, 26 anni, originario di Lercara Friddi, campiere dell’ex feudo “Melia” di cui erano gabelloti i fratelli Petta. Grazie alla coraggiosa testimonianza della Rumore e di tanti contadini stefanesi, tutto lasciava precedere che si potesse arrivare almeno alla condanna di uno degli esecutori materiali del delitto.

Allora perché quella scelta di ritirarsi, avallata dalla moglie e dai figli del Panepinto? E lecito pensare che intervennero fatti nuovi. Probabilmente, pressioni e minacce talmente forti, da indurre i familiari della vittima e i loro avvocati a ritirarsi. Il processo, infatti, si era svolto a Catania per legittima suspicione chiesta dagli avvocati di parte civile per ben due volte. E fu concessa con la motivazione che l’Anzalone era “figlioccio” del Ministro di Grazia e Giustizia on. Camillo Finocchiaro Aprile, anche lui di Lercara Friddi.

Ma dietro il killer dovevano esserci sicuramente i mandanti. Alcuni di essi erano stati individuati e denunciati dalla polizia e dai carabinieri di S. Stefano Quisquina, tanto che il 2 giugno 1911 il prefetto di Agrigento aveva scritto al Ministero degli interni, comunicandone i nomi: Rosario Ferlita, Domenico Ferlita, Giuseppe Ferlita, Ignazio Scolaro e Giovanni Battista Scolaro, tutti grossi gabelloti degli ex feudi di S. Stefano Quisquina.

Ma, tre anni dopo, il processo venne istruito solo a carico dell’Anzalone, perché tutti gli individui denunciati come mandanti furono prosciolti in sede istruttoria, in quanto gli indizi raccolti nei loro confronti furono ritenuti insufficienti o privi di qualsiasi fondamento. Il delitto Panepinto rimase, dunque, senza colpevoli. Il coraggioso maestro elementare di questo paese dell’agrigentino, uno dei più noti dirigenti contadini fin dal tempo dei Fasci, era stato assassinato la sera del 16 maggio 1911, con due colpi di fucile al petto. Gli spararono davanti la porta della sua abitazione, in via Madre Chiesa n. 21, vicino alla centralissima piazza principale, a quell’ora frequentata da molta gente, mentre stava conversando con le signorine Cannella. Era accompagnato da due amici – il cav. Picone e il signor Ignazio Reina – che rimasero feriti nell’agguato. Panepinto lasciò nella più completa povertà la moglie Maria Sala e i tre figli ancora piccoli: Angela, Libero Federico e Laura.

La notizia dell’assassinio di Lorenzo Panepinto ebbe una vasta eco su tutti i giornali siciliani e su alcuni quotidiani nazionali. Il giorno dopo, si svolsero i funerali, ai quali partecipò una folla enorme di oltre 4.000 persone, che portò in corteo la bara scoperta. C’erano molte donne che piangevano, i rappresentanti di diverse leghe contadine e persino una bandiera anarchica. La commemorazione ufficiale fu fatta in piazza Castello, dove, tra gli altri, parlò l’on. Alessandro Tasca, che disse: «E’ tempo di decidersi: dopo le fucilate incruente contro Bernardino Verro (il leader dei contadini di Corleone aveva subito un attentato la sera del 6 novembre 1910 – nda), dopo quelle che hanno squarciato il petto a Lorenzo Panepinto, una lotta senza quartiere è stata apertamente dichiarata agli organizzatori del proletariato agricolo. È il duello mortale ripreso contro i nostri contadini a distanza di venti anni circa dai Fasci. Onde noi diciamo in nome del proletariato siciliano al governo: O con la maffia padronale o con l’evoluzione economica e civile dei lavoratori siciliani».

«Bernardino Verro telegrafava dalle Calabrie, dove era riparato dopo l’attentato subito (…). Comizi di protesta si svolsero a Lucca Sicula. Bivona, Campobello di Licata. Nicola Barbato organizzava per l’11 giugno a S. Stefano un imponente comizio cui parteciparono le forti rappresentanze delle Leghe contadine di Piana dei Greci, Corleone, Palazzo Adriano, Castronovo, Lucca Sicula, Burgio, Bivona ed altre, le quali deliberarono di rispondere con lo sciopero generale ad ogni atto di sopraffazione e di servirsi, come rma di difesa contro la delinquenza, degli stessi mezzi usati contro la classe lavoratrice stessa. Un apparato di 400 soldati erano pronti a caricare la folla in caso di disordini».

«L’agguato mortale del 16 maggio 1911 uccideva Lorenzo Panepinto proprio nella delicata fase costituente della Cassa agraria di S. Stefano, ed è direttamente collegato alla brutale reazione dei gabelloti locali, volta a bloccare lo sviluppo delle cooperative di credito e delle affittanze collettive che minacciava di togliere loro il controllo della terra, dell’usura e del mercato del lavoro. I contadini rifiutavano il subaffitto e la “metateria”, chiedevano di diventare soci delle cooperative, che eliminavano la mediazione parassitaria dei grandi affittuari “arbitrianti” e garantivano migliore assistenza tecnica e finanziaria, riducendo inoltre il ricorso alle pratiche usuraie.

Non a caso, le indagini furono lente e farraginose e gli esiti processuali quelli che abbiamo riportato sopra. Lorenzo Panepinto, che nel 1893 aveva fondato il Fascio contadino di S. Stefano Quisquina, su sollecitazione dei dirigenti socialisti della vicina Prizzi, in provincia di Palermo, agli inizi del nuovo secolo aveva dato vita alle “affittanze collettive”. «In quel momento – dice Salvatore Lupo – Panepinto riusciva a riprendere in pieno il filo interrotto dalla repressione dei fasci. Riusciva ad incidere finalmente, ma in quello stesso momento decideva della propria sorte, come accadeva anche a Bernardino Verro.

Dinanzi alla novità rappresentata dalle affittanze, la mafia del feudo mutava la sua strategia ed addirittura trovava nuovi canali di arricchimento e di controllo sociale, andando anche ad uno svuotamento e ad una conquista dall’interno delle cooperative. Se le cosche mafiose incontravano sulla loro strada dirigenti prestigiosi e capaci, oltre che onesti, come Panepinto e Verro, sceglievano il terrorismo politico come arma più efficace». E aggiunge: «Quelle delle affittanze collettive fu un’esperienza originale del socialismo isolano, diffusasi nelle aree di latifondo nei primi anni del nuovo secolo. Si trattava di affittanze “divise”, che cioè non precedevano forme di collaborazione tra i contadini dopo la suddivisione dei terreni, e che quindi non mutavano i modi fondamentali di accesso dell’uomo alla terra, non suscitavano se non limitati processi di intensificazione colturale; tanto che i contemporanei le chiamavano “gabellotto collettivo”». Era il modo, però, con cui i contadini ottenevano direttamente dai proprietari terrieri la gestione degli ex feudi, “saltando” l’intermediazione parassitaria dei gabelloti mafiosi, che si videro colpiti nei loro interessi. Da qui la loro feroce reazione.

Tra l’altro, a S. Stefano Quisquina Lorenzo Panepinto era riuscito già nel 1910 ad ottenere l’affittanza collettiva dell’ex feudo “Mailla”. E il 6 gennaio 1911 aveva costituito la Cassa Agraria Sociale Cooperativa, che poteva esercitare il credito agrario ai contadini, assumere in affitto le terre, fare prestiti fruttiferi, acquistare sementi, concimi, sostanze anticrittogamiche, bestiame, macchine e attrezzi da distribuire ai contadini, e vendere collettivamente prodotti agricoli.

Fino ad allora a S. Stefano era la Cassa Rurale Cattolica, presieduta da Felice Leto, che aveva l’assoluto dominio dell’economia e della politica. E Leto era cognato di Rosario Ferlita, denunciato come uno dei mandanti dell’assassinio Panepinto. «A queste graduali, ma incessanti conquiste, ebbe occasione di accennare il Panepinto nell’ultimo comizio del 1° maggio, che riuscì imponentissimo – scrisse il giornalista de l’Avanti! Gaspare Nicotri – (…). L’apostolo ebbe inoltre occasione di ricordare che il proletariato di S. Stefano si avanza sulla via del riscatto della servitù economica, sia per mezzo del credito agrario, sia per mezzo della cooperazione». In effetti, sottolinea lo storico Lupo, «la morte di Panepinto si colloca sì nel quadro della “sollevazione della mafia gabellotta”, ma anche all’interno del contrasto con la cassa rurale cattolica con cui a quanto pare i mafiosi si trovavano in più amichevoli rapporti». Con le “affittanze collettive” e la Cassa Agraria Sociale Panepinto stava davvero disturbando la grande proprietà terriera e i gabelloti mafiosi, che decisero allora di chiudere per sempre la partita con due colpi di fucile.

Lorenzo Panepinto era nato a S. Stefano Quisquina il 4 gennaio 1865, da Federico ed Angela Susinno. Fu maestro elementare e si dilettò pure di pittura. La sua vera passione era, però, la politica, che cominciò a praticare dal 1889, quando fu eletto consigliere comunale nel gruppo dei democratici mazziniani, che mise in minoranza il gruppo dei liberal-moderati fino ad allora al potere. La vecchia maggioranza reagì rabbiosamente, riuscendo a far sciogliere il consiglio comunale ed insediando il regio commissario Roncourt, la cui condotta partigiana non riuscì ad impedire una seconda sconfitta dei conservatori nelle elezioni dell’agosto 1890.

Il governo del marchese Di Rudinì commissariò nuovamente il comune e Panepinto si dimise per protesta, dedicandosi all’insegnamento e alla pittura. Poi si sposò e partì per Napoli, ma al ritorno, nel 1893, la Sicilia era in subbuglio per il movimento dei Fasci. Fondò, quindi, il Fascio di S. Stefano, che pochi mesi dopo venne sciolto dal governo Crispi, come tutti gli altri Fasci dell’isola. Per rappresaglia politica fu licenziato dal comune dal posto di maestro elementare, ma non si scoraggiò e continuò i suoi studi pedagogici e di metologia didattica, pubblicando due interessanti volumi nel 1897.

Nei primi del ‘900, alla ripresa degli scioperi agricoli, Panepinto fu di nuovo in prima linea, al fianco di dirigenti come il corleonese Bernardino Verro e il prizzese Nicolò Alongi, insieme ai quali avrebbe messo a punto un cambiamento di strategia politica, puntando a dare ai contadini gli strumenti delle cooperative agricole e delle Casse Agrarie, per emarginare i gabelloti dei feudi. Dall’autunno del 1907 alla primavera del 1908 fu negli Stati Uniti d’America, ma ritornò nuovamente al suo paese, dove riprese la sua attività tra i contadini.

A circa 10 anni dalla morte di Panepinto, nell’ottobre 1920, i socialisti di S. Stefano riuscirono a conquistare il municipio, eleggendo sindaco il mitico Peppe Cammarata, suo amico e collaboratore, dopo le epiche lotte per l’occupazione delle terre e per l’acquisto collettivo del latifondo “Mailla”. Cammarata non dimenticherà mai il suo maestro, continuandone la battaglia.

 

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/