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La morte del medico di Provenzano e l’ombra della mafia. I pm: nessuna prova

Il Corriere della Sera, 9 febbraio 2018

La Procura di Roma chiede l’archiviazione per la morte dell’urologo Attilio Manca: «Pentiti non credibili e versioni contrastanti, non è dimostrato che curò Provenzano».

di Giovanni Bianconi

ROMA La famiglia, affiancata da un nutrito gruppo di sostenitori e dall’avvocato ex pm antimafia Antonio Ingroia, continua a chiedere verità su una morte che considera più che sospetta: non una disgrazia né un suicidio bensì un omicidio, commesso da sicari di Cosa nostra e servizi segreti, per proteggere il boss Bernardo Provenzano e i suoi presunti indicibili patti con lo Stato. Domani, in coincidenza col quattordicesimo anniversario, ci sarà una manifestazione a Barcellona Pozzo di Gotto — provincia di Messina, terra d’origine di Attilio Manca, medico urologo trovato cadavere a 34 anni, vittima di un’overdose di eroina, nella sua casa di Viterbo il 12 febbraio 2004 — per denunciare i troppi segreti che ancora pesano su quella fine misteriosa. Rilanciati da cinque pentiti di mafia.

Ma quelle dichiarazioni, sostiene adesso la Procura di Roma al termine di una lunga e articolata e inchiesta, «conducono a piste, presunti autori e modalità del fatto del tutto contrastanti e incompatibili, sostanzialmente prive di riscontri, non consentendo allo stato di risalire agli autori del presunto omicidio di Attilio Manca». Ecco allora una richiesta di archiviazione, conclusione inevitabile per il procuratore Giuseppe Pignatone, l’aggiunto della Direzione distrettuale antimafia Michele Prestino e il sostituto Maria Cristina Palaia. In passato — tra il 2005 e il 2013, prima dei sospetti su Provenzano e Cosa nostra — per tre volte la Procura di Viterbo ha chiesto l’archiviazione. Le prime due il giudice delle indagini preliminari l’ha respinta ordinando nuovi accertamenti, la terza s’è arreso anche lui. Poi Ingroia ha presentato la denuncia a Roma, ipotizzando il coinvolgimento della mafia. Senza arrivare a risultati diversi, almeno per ora.

Il movente sarebbe nelle cure assicurate dall’urologo a Provenzano dopo l’operazione alla prostata subita a Marsiglia nel 2003 dal boss latitante; un omicidio mascherato con una overdose per togliere di mezzo un testimone scomodo. Tra i pentiti che supportano questa ricostruzione c’è il killer di camorra Giuseppe Setola, il quale «con andamento sconnesso e poco chiaro» ha tirato in ballo il capomafia barcellonese Giuseppe Gullotti. Tuttavia l’attendibilità di Setola «non può resistere a alcun vaglio», dicono i pm romani al pari dei colleghi napoletani che indagano sui fatti di camorra. Un altro collaboratore, Giuseppe Campo, va nella stessa direzione chiamando in causa un cugino della vittima, Ugo Manca; mancano però «riscontri esterni», nonché elementi per affermare che il cugino e altri sicari indicati da Campo fossero a Viterbo il giorno della morte dell’urologo.

Un terzo pentito, Cosimo D’Amico, sostiene invece che «i paesani barcellonesi non c’entrano» e riferisce un coinvolgimento di servizi segreti e altri apparati che proteggevano la latitanza di Provenzano. Ipotesi in qualche modo avallata dal calabrese Nino Lo Giudice il quale — come in altre vicende legate alla cosiddetta trattativa Stato-mafia, ma lasciando forti dubbi sulla propria affidabilità — chiama in causa la famosa «faccia da mostro», l’ex poliziotto Giovanni Aiello morto lo scorso anno. Ne ha parlato pure al processo Borsellino quater, offrendo una versione modificata che, concludono i pm romani, «non è suscettibile di alcun credito, nemmeno indiziario». Il palermitano Stefano Lo Verso, quinto pentito ex autista di Provenzano, ha fornito «supposizioni e ipotesi», senza fare il nome di Manca, «che non possono andare a riscontrare neppure altre dichiarazioni».

Conclusione: «Non è possibile provare in alcun modo un effettivo coinvolgimento di Manca nelle cure di Provenzano, da cui far derivare la necessità di eliminarlo, e ancor più contraddittorie sono le risultanze in merito agli ipotetici autori». Né c’è modo di approfondire «la mancata spiegazione di alcuni particolari della complessa vicenda» legata alla fine dell’urologo, già vagliata nelle precedenti inchieste che non hanno sciolto tutti i dubbi. Per la Procura antimafia di Roma il caso è chiuso, ma è presumibile che l’avvocato Ingroia (insieme al collega Fabio Repici) si opporrà chiedendo al giudice nuove indagini. In contrasto col procuratore Pignatone e l’aggiunto Prestipino, come ai tempi di antichi dissidi quando erano tutti pubblici ministeri a Palermo.