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LA MAFIA PERDE SUL SUO TERRENO

Il Manifesto, Sabato 8 Ottobre 2016

LA MAFIA PERDE SUL SUO TERRENO

di Angelo Mastrandrea

ANGELO MASTRANDREA

Se dovessimo scegliere un bene simbolo tra quelli sottratti alla mafia e riconvertiti a un uso sociale, avremmo pochi dubbi nell’indicare il palazzo Versace a Polistena. Si trova nel cuore del rione Catena, lungo la strada dove abita il gotha delle famiglie malavitose della cittadina affacciata sulla piana di Gioia Tauro. Fino agli inizi degli anni ’90, i proprietari erano i più alti in grado nella gerarchia della ’ndrangheta, al punto da costruire il loro quartier generale nel luogo più in vista del paese, di fronte alla piazza denominata 2001 dal locale da loro aperto al pianterreno, e in modo da dominare con lo sguardo la piana sottostante. Ma le mire espansionistiche del clan non piacquero alle cosche che si spartivano i terreni della pianura e gli affari del porto. Così, la sera del 17 settembre 1991 un commando di sedici persone, a bordo di quattro auto, bloccò la strada davanti al palazzo da entrambi i lati e puntò dritto all’obiettivo: sterminare la famiglia Versace. Fecero fuoco all’impazzata, uccidendo i fratelli Antonio e Michele, mentre un terzo, Biagio, riuscì a salvarsi buttandosi sotto un’auto e fìngendosi morto. Altri due esponenti della cosca rimasero gravemente feriti. A terra furono ritrovati 780 bossoli di proiettili.

Oggi il palazzo Versace, completamente rinnovato, ospita un centro di ritrovo, un laboratorio musicale, una sala computer e un poliambulatorio di Emergency con due medici, quattro mediatori culturali, due infermieri più un terzo sul bus che va a raccogliere gli immigrati nella baraccopoli di San Ferdinando e nelle campagne.

Poco lontano, nei terreni confiscati ai Piromalli e ai Belloc-co, cognomi pesanti nella geografia di ‘ndrangheta tra Gioia Tauro e Rosamo, così come nell’uliveto sottratto ai Mam-moliti a Castellace, sotto l’Aspromonte, i soci-lavoratori della cooperativa Valle del Marro devono fare i conti con intimidazioni a bassa intensità, finalizzate a colpirli sul piano economico senza attirare l’attenzione mediatica: alberi tagliati, frutti rubati, ulivi secolari bruciati, macchinari distrutti, quella che definiscono come «una vera e propria guerra psicologica». Lo stesso accade a Lamezia Terme, un centinaio di chilometri più a nord, dove da anni le cooperative legate al Progetto Sud di don Giacomo Panizza denunciano attentati a colpi di pistola, incendi e minacce di vario genere. L’ultima il 4 luglio scorso, quando un incendio doloso ha devastato i terreni sottratti ai clan e coltivati da donne in difficoltà, calabresi e rom.

lo stesso giorno, a Sessa Au-runca, andava a fuoco il Giardino della memoria creato lungo le mangiatoie dei cavalli per le corse clandestine sequestrate al clan Moccia. Il percorso dei «cento passi», ispirato a Peppi-no Impastato, si apriva con la storia di Alberto Varone, un distributore di giornali freddato all’alba del 24 luglio 1991 mentre consegnava con il suo furgoncino i quotidiani alle edicole. Seguivano don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe trucidato nella sua chiesa il 19 marzo del 1994 per essersi rifiutato di celebrare il funerale di un camorrista ucciso, e il sindacalista degli ambulanti Federico del Prete, ammazzato nel 2002 a Casal di Principe per aver denunciato il racket dei sacchetti di plastica nei mercati.

Nei giorni scorsi, un nuovo fronte, questa volta istituzionale, si è aperto a Battipaglia, nel salernitano: la sindaca della città d’Italia con il più alto numero di «impresentabili» nella lista nera della Commissione parlamentare antimafia alle elezioni comunali della scorsa primavera, Cecilia Francese, ha annunciato di voler revocare a Legambiente l’assegnazione dei terreni di Taverna Mara-tea, assegnati all’associazione ambientalista dal commissario straordinario che l’aveva preceduta. Motivo: una parte dei terreni assegnati non sarebbero stati confiscati. Se la spunterà, gli orti sociali creati dovranno lasciar spazio ad aree edificabili.

quando si parla di beni confiscati alle mafie, non ci si può riferire più ai soli terreni, a palazzi come quello dei Versace o a ville come quella appartenuta a Pupetta Maresca, la «pasionaria» della camorra, e assegnata alla cooperativa La casa di Alice che tra le sue stanze ha messo in piedi una sartoria etnica «made in Castelvoltumo» che vede impiegate donne africane e italiane.
«I malavitosi sono menti raffinate, che si informano su come investire i proventi dei loro traffici criminali», ha spiegato a Radio1 il prefetto Umberto Postiglione, direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità. L’ultimo esempio sono i due quadri da cento milioni di dollari firmati Vincent Van Gogh spariti nel 2002 da un museo di Amsterdam e ritrovati in un «anonimo locale» di Castellammare di Stabia che farebbe capo al narcotrafficante latitante Raffaele Imperiale. Ma il caso più eclatante è quello    del «re dei videogiochi» di Reggio Calabria, Raffaele Campolo, al quale sono state confiscate ben 104 opere d’arte. Valore: tre milioni di euro. Al Museo della Magna Grecia della città calabrese ci hanno organizzato la prima esposizione al mondo di arte recuperata alla ‘ndrangheta: si comincia da quindici opere che vanno dal XVI al XIX secolo, si prosegue con i dipinti di Aligi Sassu, Pietro Cascella, Pietro Annigoni, Giuseppe Migneco, Antonio Liigabue, Guido Guidi, Bruno Caruso, Remo Brindisi, Domenico Purificato e Bruno Cassina-ri, fino ad arrivare a quattordici capolavori del ’900, firmati da Lucio Fontana, Carlo Carrà e Mario Sironi. A chiudere la mostra, un piccolo gruppo di opere di Renato Guttuso, Mario Schifano e Mario Fiumi, nonché un Volto di donna di Pablo Picasso dalla non certa autenticità. Mostre a parte, dove finiscono le opere d’arte confiscate? «Se sono di grande valore, le destiniamo al ministero dei Beni culturali, che poi provvede a indirizzarle al circuito museale», spiega ancora Postiglione. Se invece non hanno un valore eccelso, vengono messe in vendita, mentre i falsi vengono distrutti.

per quanto riguarda terreni e abitazioni, invece, la questione è più complicata. Una ricerca dell’associazione Libera ha contato 525 soggetti del terzo settore che hanno recuperato beni confiscati, il 49 per cento dei quali si trova in Sicilia. La relazione semestrale del ministero della Giustizia guidato da Andrea Orlando, presentata qualche giorno fa alla Camera dal ministro per i rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, parla di un aumento dei procedimenti di sequestro e confisca. Tra le città con più beni sequestrati, Roma è balzata al terzo posto dietro Palermo e Napoli, grazie alle inchieste di Mafia capitale. Eppure, dei 153 mila beni confiscati in tutta Italia appena il 4 per cento risulta assegnato a coop o associazioni. La Fondazione con il Sud, in un altro rapporto, ha rincarato la dose: su 3.585 aziende sottratte definitivamente ai clan, «sono meno di dieci quelle date in gestione a cooperative di dipendenti», mentre «non esistono dati sui beni mobili, registrati e non». Nel mirino c’è proprio l’Agenzia nazionale, che la Fondazione con il Sud propone di sostituire con un ente pubblico economico composto da manager con esperienze industriali, immobiliari e finanziarie, un rappresentante dell’Anci (l’associazione nazionale dei comuni) e un altro delle associazioni antimafia. In audizione davanti alla Commissione antimafia, il prefetto Postiglione ha ribattuto: «Negli ultimi due anni abbiamo assegnato 5.300 beni» e questo è stato un segno di «legalità percepibile». L’Agenzia per la coesione territoriale ha replicato: non sempre la consegna dei beni vuol dire che essi saranno effettivamente utilizzati, le assegnazioni non sono trasparenti, non garantiscono pubblicità e parità di trattamento, manca qualsiasi programmazione e i Comuni vengono lasciati soli.

in questo bailamme, ogni amministrazione decide da sé e non è detto che faccia male: a Radda in Chianti, nel senese, alcuni immobili confiscati sono stati messi a disposizione dei cittadini di Accumoli rimasti senza casa per il terremoto, a Trezzano e Buccinasco in Lombardia sono nate delle case famiglia per minori non accompagnati e a Riccione le 284 camere dell’ex hotel Smart potrebbero essere presto destinate a rifugiati e famiglie bisognose. Il problema, per il presidente della cooperativa Valle del Marro Domenico Fazzari, sono semmai «i tempi lunghi per l’assegnazione e l’esasperante lentezza della burocrazia»: tra il sequestro, la confisca e l’assegnazione possono passare pure vent’anni. Loro hanno dovuto ripiantare tutto, investendo fior di quattrini. La soluzione, a suo dire, sarebbe semplice: snellire le procedure, garantendo la continuità produttiva. Invece, i tempi lunghi fanno il gioco dei mafiosi, che puntano a svalutare il bene sequestrato per poi provare a rientrarne in possesso.