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.La mafia in Emilia.Dalle infiltrazioni al radicamento.Le grandi responsabilità della politica

   

Lotta alla mafia: da 20 anni a Modena un’occasione mancata

Data:06 Maggio 2017 – 00:43 / Categoria: Il Punto
Autore: 
Redazione La Pressa

Nel 1999 in consiglio comunale i rapporti confermavano il passaggio dall’infiltrazione al radicamento


Lotta alla mafia: da 20 anni a Modena un'occasione mancata

Negli ultimi 20 anni la mafia, intesa come ‘sistema mafioso’, che al nord ed in Emilia, ha assunto i volti e gli stampi della Camorra e dell‘Ndrangheta, si è diffusa come un tumore esploso in metastasi nel tessuto economico e sociale, anche modenese. E’ un dato di fatto confermato dai dati e dalle inchieste di oggi ma soprattutto, ed in modo preoccupante, da quelle di ieri. Fatti, denunce, allarmi, che troppo spesso, complice anche la velocità e l’overdose delle informazioni, si tende sempre più frequentemente a dimenticare.

La presenza di mafiosi in soggiorno obbligato che qui o da qui intrecciavano relazioni, già forte negli anni ’90, si è trasformata, negli anni 2000, in infiltrazione prima ed in radicamento poi di succursali e di veri e propri avamposti per le attività delle criminalità organizzata. Per anni, come giornalisti, abbiamo letto rapporti e ricerche, seguito conferenze, partecipato a decine di forum, consigli comunali e provinciali tematici e tavoli di confronto istituzionali. Li si intrecciavano maree di dati e di analisi che con diverse sfumature tracciavano un’unica fotografia: quella che rappresentava una criminalità organizzata di stampo mafioso sempre più forte, di anno in anno, sempre più capace, con i suoi metodi subdoli e silenziosi perché tarati sulla ricca economia da colletti bianchi della realtà emiliana, di inserirsi con grandi capitali da riciclare, nelle principali e più ricche realtà imprenditoriali del territorio. Dall’edilizia al commercio, ampliando via via a nuovi settori dell’economia l’attività criminale svolta negli anni precedenti nei settori ‘più tradizionali’ dello spaccio di droga e del gioco d’azzardo.
Dagli anni ‘90, e purtroppo fino ad oggi, abbiamo assistito al costante ripetersi, di anno in anno, di fotografie statiche, di analisi dettagliate, ma pur sempre cristallizzate ed ingessate della realtà e della presenza criminale sul territorio. Alla dinamicità dell’azione di una mafia mutante e sempre più penetrante, si è risposto per anni fermandosi all’analisi, pur dettagliata, della situazione in essere, non andando mai al di là della fotografia del presente. Decine di rapporti e ricerche che, alla luce della drammatica situazione attuale, non sono mai diventati strumento di conoscenza attiva sul quale strutturare azioni per arginare, contrastare e prevenire l’ulteriore diffusione del fenomeno. Oggi possiamo dire, a ragione, che da quei dati, da quelle valutazioni, da quei tavoli di emergenza, convocati di anno in anno, e dagli allarmi che ne conseguivano, non è mai seguito un impegno forte capace di garantire risposte strutturate, adeguate e quindi efficaci ed evidenti alla sfida lanciata ed all’azione messa in campo dalla criminalità organizzata.

La volontà, forte anche sul piano politico, di non offuscare e scalfire l’immagine di isola felice ed immune dalla mafia, che era stata ritagliata su Modena negli anni ’80 e ’90, ha giocato un ruolo importante, se non determinante, nell’abbassare le difese immunitarie rispetto alla diffusione di una malattia tanto pericolosa quanto mutante.

Un atteggiamento, quest’ultimo, richiamato anche da anche Enzo Ciconte, docente di storia della criminalità ed autore di numerosi rapporti sulla sicurezza in Emilia Romagna, durante il suo intervento, in Consiglio Comunale a Modena, nel marzo del 1999. A giudizio di Ciconte l’ipotesi della ‘terra immune da presenza organizzate delle varie organizzazioni mafiose ha rischiato di depotenziare anticopri sociali ed ha contribuito ad abbassare la guardia. La stessa magistratura non è stata estranea a questa cultura’. Parole pregne di significato, per non dire pesanti.

Fu in quell’anno, più che in altri, che la forza del fenomeno mafioso ed il suo livello di infiltrazione nel territorio modenese emerse, e fu rappresentata, in tutta la sua drammaticità. Tra febbraio e marzo di quell’anno la città e la sua massima rappresentanza istituzionale, il Consiglio Comunale, furono infatti attraversati da una serie di eventi drammatici che lasciarono il segno e che misero la città di fronte ad un bivio: continuare ad agire nei confronti della presenza sempre più endemica ed evidente della criminalità organizzata con gli strumenti di sempre, o assumere misure straordinarie, rafforzando quella rete di cosiddetti anticorpi, capace di prevenirne l’ulteriori diffondersi? I fatti e la realtà di oggi danno già di per sé la misura della qualità e del livello di debolezza della risposta che a livello istituzionale, di fronte a questa scelta, venne data.

Tornando a quei giorni del 1999 successe che il 4 gennaio tre pizzerie furono incendiate a Modena. L’ipotesi fu subito quella di attentati dolosi legati al racket. In una sua dichiarazione di condanna sull’accaduto l’allora senatore modenese DS-Ulivo Luciano Guerzoni diede esattamente l’idea dell’atteggiamento, insito nella politica di allora, teso tutelare l’immagine di Modena isola felice: “E’ sempre desiderabile considerare che nel nostro territorio non sia presente la criminalità organizzata….però i fatti sembrano smentirlo”.
Lo stesso giorno l’allora segretario provinciale DS Massimo Mezzetti , pur senza fare nomi, accusava ufficialmente con una nota stampa “coloro che in questi mesi hanno minimizzato e talvolta irriso i nostri allarmi…si assumono oggi una responsabilità di cui dovranno rendere conto”.

Il 15 febbraio l’allora Ministro dell’Interno Rosa Russo Jervolino fa visita alle istituzioni cittadine senza lasciare una grande traccia nella memoria collettività. Il suo intervento non andò al di la delle frasi di rito ed il rigido protocollo istituzionale sul quale era organizzata la visita non consentì di fatto, nemmeno un dibattito di merito in Consiglio Comunale. Tra le richieste avanzate al Ministro dall’allora Sindaco Barbolini spiccò però quella relativa all’istituzione di una centrale operativa unica (mai realizzata), e ‘all’intensificazione dell’attività investigativa al fine di difendere il tessuto sociale ed economico della città da infiltrazioni mafiose’

L’11 marzo Enzo Ciconte, nello stesso Consiglio Comunale di Modena, con dati e toni piuttosto preoccupati e preoccupanti, relazionò sul triangolo mafioso Modena-Reggio Emilia e Sassuolo e sulle attività illecite della criminalità organizzata legate a spaccio, riciclaggio, truffe e ad un numero anomalo di fallimenti; attività nelle quali il livello di infiltrazione (siamo a 16 anni fa), aveva già ormai ceduto il passo a quello del radicamento. Illustrando la ricerca, Ciconte non risparmiò il riferimento ad una sottovalutazione del problema che negli anni avrebbe interessato anche il piano istituzionale.

Il 24 marzo l’allarme e la preoccupazione si amplifica: Nella notte, la pizzeria pub Wellington, nel quartiere S.Agnese, a Modena, viene distrutta da un rogo doloso che rischia di provocare danni anche alle residenze limitrofe. La matrice sembra essere la stessa. L’allora Presidente del Consiglio Comunale Ermanno Barbieri, con una nota ufficiale, ribadì la necessità di “intensificare l’attività investigativa, e la proposta di una centrale operativa unica al fine di difendere il tessuto economico e sociale cittadino da infiltrazioni mafiose che una volta radicate sul territorio possano facilitarne se non l’occupazione, quantomeno il parziale controllo”. E ritorna il concetto del radicamento, insieme alla richiesta di una centrale operativa unica come detto mai realizzata. E siamo a 16 anni fa.

Fu forse e proprio in quegli anni, di fronte a quei segnali inequivocabili ed evidenti anche per l’opinione pubblica, del salto di qualità dell’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso, già fortemente radicata sul territorio in definiti settori dell’economia, che fu persa l’occasione per sviluppare quegli anticorpi veramente forti e strutturati di cui c’era bisogno per evitare l’infiltrazione ed il radicamento ulteriore in altri strategici settori dell’economia come quello dell’edilizia e della finanza. Negli anni successivi, e fino ad oggi, i rapporti, le indagini, i fatti di cronaca, le inchieste giornalistiche, e gli arresti, non hanno fatto altro che confermare quattro fondamentali elementi:

1) La continua e sempre più capillare diffusione delle organizzazioni criminali sul territorio modenese
2) Il passaggio dalla fase di infiltrazione a quella di radicamento
3) Il passaggio dalla gestione di attività illegali (spaccio, truffe, gioco d’azzardo, estorsioni) a quella di attività imprenditoriali fino a qualche anno prima ritenute sane, nel campo dell’edilizia della finanza e del commercio.
4) Il tentativo di infiltrazione in ambito politico ed istituzionale

Sinceramente non sembra che a fronte di questa progressione quantitativa e qualitativa dell’azione della criminalità organizzata, puntualmente documentata da dossier, ricerche ed inchieste, e denunce anche rispetto ai sospetti di tentativo della criminalità di scalare, a suon di tessere, partiti politici ed incarichi elettivi, ci sia stata, negli ultimi anni, una parallela, adeguata e strutturata risposta sul piano istituzionale, capace di andare al di là delle stantie fotografie dell’esistente. Quasi sempre datate e superate rispetto alla realtà.

Perché, ci chiediamo, gli allarmi e le evidenze, già chiare non ieri ma 15, 20 anni fa, non hanno ricevuto una risposta forte efficace e di sistema? Perché i protocolli, stipulati per esempio nel campo nell’edilizia già abbozzati nel 98 e ritarati nel 2007, non hanno funzionato a dovere? Perchè, nel territorio delle white list e dei protocolli antimafia nel campo dell’edilizia continuano a proliferare, anche nel capoluogo, cantieri avviati ed abbandonati, trasformati in ecomostri? Qualcuno si è mai chiesto quali dinamiche avevano contaminato il comune di Brescello, il primo in Emilia Romagna ad essere sciolto per mafia?

Dubbi e domande che non tolgono certo valore, anzi ne riconoscono, allo sforzo della magistratura e delle forze dell’ordine che hanno portato anche recentemente all’importante operazione Aemilia, condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna sfociata in 117 arresti che hanno colpito il clan Grande Aracri ed i suoi contatti con la politica e l’imprenditoria, ma che va di pari passo con la sensazione che si stia chiudendo la stalla quando i buoi sono già scappati.

E’ difficile, molto difficile, recuperare con un seppur intensa e lodevole attività repressiva ciò che non si è fatto per tanti anni sul fronte della prevenzione. Ed è difficile credere che gli stessi politici che c’erano e governavano ieri e che ieri, pur rappresentando la nostra comunità, non sono stati in grado di ottenere per essa dagli organismi preposti quel salto di qualità nell’efficacia dell’azione di contrasto sul nostro territorio, possano ottenerlo oggi. Ce lo auguriamo ma per fondare la speranza dovremmo avere almeno un segnale. Un segnale di umiltà che parta dall’ammissione di non avere fatto abbastanza e di non averlo fatto quando sarebbe stato più efficace farlo. Un segnale che purtroppo si fa fatica a vedere o che non riusciamo a vedere, nemmeno tra le righe degli slogan dei cortei antimafia e tantomeno nella distribuzione a pioggia di cittadinanze onorarie ai veri, o ritenuti solo tali, eroi della legalità.

Gianni Galeotti