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La mafia ha vinto e sta stravincendo anche per colpa di un popolo imbelle,complice.E’ questo il nostro convincimento guardando in faccia la realtà e vivendola tutti i giorni.Un’interessante analisi di Roberto Galullo sul Sole 24 Ore che noi condividiamo appieno

La mafia ha vinto è il titolo di un libro di Saverio Lodato del 1999.  Un’intervista con Tommaso Buscetta, pentito di Cosa nostra, tra i pochissimi a dare un contributo vero e dall’interno dell’associazione mafiosa per disarticolare la stessa.

Missione compiuta per una minima quota parte, impossibile per il “tutto”, dal momento che non solo le mafie sono in grado di autoriprodursi sempre più forti e immuni agli “antibiotici” di Stato ma sono capaci di evolversi come straordinari Pokemon criminali, inglobando al proprio interno ciò che ci si ostina incredibilmente a considerare ancora come “concorso esterno”.

Basterebbe già osservare la realtà – dunque – per giungere alla conclusione che non solo la mafia (rectius: le mafie) ha vinto ma, contravvenendo il principio che bisogna accontentarsi di vincere e mai di stravincere per non umiliare l’avversario, le mafie stanno stravincendo.

Il motivo è semplice: a differenza del principio – che vale nello sport – le mafie nella vita di tutti i giorni non hanno un avversario (lo Stato, il Legislatore, la Politica, tutti come fossero un sol Uomo) ma solo singoli Servitori o singoli protagonisti della politica e/o della cosiddetta società civile, che si battono, arrogandosi o accollandosi oneri impropri, in nome e per conto dello Stato quasi sempre assente.

L’avversario univoco – sulla carta lo Stato nelle sue articolazioni – è e rimane, purtroppo, solo sulla carta. Sul campo sopravvivono a stento quei singoli Servitori dello Stato che nulla possono per fermare la marea montante dell’illegalità o, meglio, possono solo erigere fragili argini che tendono, perlopiù, a emarginare, isolare e dunque delegittimare ed esporre al pubblico ludibrio non chi dovrebbe essere fermato nel nome della legge ma chi quegli argini di Stato ha eretto.

Queste riflessioni – che, come sempre, metto sul piatto della condivisione intellettuale senza alcuna pretesa di convincere alcuno – vi offro nel momento in cui la Sicilia ma prima ancora la Calabria e per versi non meno inquietanti la Campania e la Puglia, spargono sulla coscienza pubblica gli ultimi frutti avvelenati della presunta lotta alla mafia e a tutto ciò che è illegalità, malaffare e immoralità.

Traggo dunque spunto dalla viva attualità per giungere, ancora più rafforzato, nella mia convinzione che le mafie hanno vinto e che non c’è alcuna speranza di vedere in vita (almeno la mia) avverarsi l’auspicio di Giovani Falcone (al quale non ho mai, purtroppo, creduto) che, essendo un fenomeno umano, come tale, è destinato a finire e spegnersi.

Oramai le mafie sono un fenomeno sovrumano, nella misura in cui trascendono la volontà cattiva del singolo e diventano identità di massa, stile di vita comune, cifra stabile di una collettività, eredità da trasmettere, mutazione genetica sociale deteriore, di fronte al drammatico vuoto di potere statale, istituzionale e democratico,

Ma soprattutto comportamento omologato e omologante. Scrivono i magistrati della Dnaa Francesco Curcio, Maria Vittoria De Simone, Luigi Spiezia e Francesco Mandoi: «La strada che stiamo percorrendo ci condurrà a sistemi economici e sociali nei quali, progressivamente, i beni e i servizi che acquisteremo, i supermercati dove andremo quotidianamente, i ristoranti e gli alberghi in cui ci recheremo con le famiglie, il lavoro che avremo, ci saranno, in larga parte, forniti dalla emanazione di associazioni criminali. In questa prospettiva, inoltre, per una qualsiasi persona onesta, mettersi sul mercato ed iniziare una qualsiasi attività economica sarà come partecipare a una gara truccata, perché i concorrenti potranno lavorare in perdita, disponendo di liquidità gratuita e quasi illimitata».

Ebbene le più o meno recenti vicende che in Calabria hanno toccato alcune icone antimafia (vere o presunte? A voi il giudizio morale) come Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto (Crotone), Rosi Canale, fondatrice di “Donne di San Luca”, Claudio La Camera, ex presidente del Museo della ‘ndrangheta, in Sicilia Ivan Lo Bello e Antonello Montante, a capo della rivolta degli industriali contro pizzo e mafia, Pino Maniaci, direttore schierato di Telejato, in Campania Lorenzo Diana,  politico celebrato perfino da Roberto Saviano per il suo impegno anticamorra, Monica Paolino, presidente della commissione regionale speciale “Anticamorra e beni confiscati”, il pm Donato Ceglie, una vita spesa sul campo della lotta ai traffici illeciti dei rifiuti o addirittura l’integrità morale di Libera (lasciatemi confermare il mio sentimento di gratitudine per don Luigi Ciotti), testimoniano plasticamente che la lotta alla mafie è persa. Per sempre.

Sono alcuni esempi – fra i tanti – e mi limito agli ultimi tempi.

E non – si badi bene – la mafia ha vinto perché le persone che ho citato siano colpevoli, ergo siano state condannate in via definitiva per reati di maggiore o minore gravità. No. Molti di loro sono solo indagati (e neppure rinviati al momento in cui scrivo a giudizio, come nel caso di MontanteLo Bello e La Camera) o neppure indagati (Libera, ancora e sempre ad esempio, viene da anni travolta più o meno pesantemente da polemiche dialettiche più o meno motivate) e altri ancora addirittura assolti perché il fatto non sussiste (Girasole, per quanto la Procura di Catanzaro abbia proposto ricorso in appello) o condannati solo in primo grado e dunque con una sempre valida costituzionalmente presunzione di innocenza (lo dimentichiamo spesso questo principio dei padri costituenti, come Canale).

Nossignori, le mafie non hanno vinto perché costoro (ne ho citati alcuni potrei citarne tante/i altre/i e altre/i ancora lacereranno le coscienze nei prossimi mesi o anni) sono stati travolti da vicende giudiziarie sulle quali solo i giudici saranno deputati a emettere sentenze (a noi resta il giudizio etico e morale) ma perché quel che vince in Calabria, in Sicilia, in Campania, in Puglia e su per li rami per l’Italia e oltre i nostri miseri confini geografici è la cultura mafiosa contro la cultura antimafia.

La cultura mafiosa – di fronte a tutti questi casi riassunti in un unico proscenio – presenta concretamente il conto e urla: non esiste altro dio pagano al di fuori della mafia. Il resto – l’antimafia vera o presunta – prima o poi deve presentarsi direttamente o indirettamente al nostro cospetto e regolare con noi i conti. Che siate portati di cultura antimafia, vera o presunta, prima o poi cadrete. Non esiste altra cultura al di fuori della nostra.

“Cosa nostra” diventa – per un tragico e mortale scherzo della vita – “Casa vostra”, “Casa Nostra”.

Vano sforzo, sforzo vano – è la cultura mafiosa a gridarlo – è quello di erigervi a paladini sì singoli ma portatori di un interesse comune collettivo: vuoi della partecipazione attiva delle donne (Canale), vuoi dell’amministrazione sana (Girasole), vuoi dell’etica di impresa (Montante), vuoi della buona politica (Diana), vuoi del giornalismo di denuncia (Maniaci). Che siano innocenti, “mascariati” o colpevoli, alla cultura mafiosa non interessa: quel che conta, per le mafie e quel che le fa gridare vittoria, è che, prima o poi giungeranno al capolinea, dimostrando l’insostenibilità di una cultura collettiva antimafia a fronte di una cultura impermeabile mafiosa. Aprite pure i vostri ombrelli antimafia – è la sfida della cultura mafiosa –  ma sappiate che vi bagnerete comunque e immergerete, prima o poi, volenti o nolenti, le vostre idee in una lavatrice contaminante e contaminatrice. Abbiamo mandato – è il grido della maledetta cultura mafiosa – alla gogna eroi come Don Peppe Diana (mascariato in vita dalle sponde sociali dei Casalesi) e abbiamo goduto della messa alla berlina di Giovanni Falcone (mascariato e screditato in vita dallo stesso Stato), volete forse che ci preoccupiamo dei miseri professionisti dell’antimafia?

La mafia ha vinto, inutile girarci intorno. La cultura mafiosa sta stravincendo, inutili tanti giri di parole.

E ha vinto anche perché non doveva essere e non deve e non può essere una donna o un imprenditore o un giornalista o un prete o un’associazione a diventare il paladino della Giustizia ma deve essere lo Stato con la coralità delle sue Istituzioni. Quando questo non accade ecco che il singolo, magari in cerca d’autore o credendo di avere un esercito alle spalle, si sostituisce allo Stato e alla sua idea nobile di Giustizia e, per questo, viene facilmente azzerato e cancellato dalla cultura mafiosa e dall’antiStato che corre all’interno dello Stato.

Per questo e altro ancora – anche se morirò nella consapevolezza che le mafie hanno vinto – mi accontenterei di sentir dire che la mafia fa schifo (dal titolo del libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso) o che è una montagna di merda (dalla citazione di Peppino Impastato) e che per questo i suoi disvalori vanno combattuti da tutti e quotidianamente.

Non voglio sentirmi rappresentato “dar valoroso popolo antimafia organizzato” (non può esistere in natura) ma voglio che a erigersi contro la cultura mafiosa siano i comportamenti di ciascuno di noi, di ogni singolo essere, l’unico autorizzato ad essere consapevolmente strumento di opposizione etico e morale al tracimare della mafie. L’unico “valoroso popolo antimafia” in cui mi riconosco è in realtà un nocciolo duro: la Famiglia. Per me così è stato e per i miei figli e i miei nipoti così sarà.

Al resto deve (dovrebbe) pensare lo Stato (prevenzione e repressione), la Scuola (cultura e prevenzione), appunto il nucleo familiare e le Religioni (valori e principi di vita). Affinché Cosa nostra, le mafie e si sistemi criminali integrati non si trasformino – come sta avvenendo – in “Casa nostra”.

Per ora mi fermo ma a breve continuo a riflettere “sur valoroso popolo” antimafia (cit. Altan)

r.galullo@ilsole24ore.com