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LA MAFIA COME METODO E MODELLO

LA MAFIA COME METODO E MODELLO

Mafia, camorra e ’ndrangheta nascono insieme, due secoli fa. Il riferimento alla massoneria. L’importanza del carcere come luogo di diffusione. Il valore delle regole. Una criminalità che continua a scimmiottare le classi dirigenti. Regionalità e uniformità.

19/11/2014

di Isaia Sales

1. Mafia e Sicilia sono due nomi indissolubilmente legati. In questa identificazione balena a volte, tra gli storici e gli studiosi del fenomeno, una convinzione di unicità, di specificità, quasi a dire che ciò che si è condensato nel significato di mafia sarebbe incomprensibile senza la Sicilia e la sua storia, che non ci sarebbe stata, e non ci sarebbe, mafia senza la Sicilia, senza i siciliani e senza ciò che lì è avvenuto tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento. Stanno proprio così le cose?

La mafia siciliana non è l’unico fenomeno di tipo mafioso prodottosi nella storia italiana e meridionale. È sicuramente quello più conosciuto e studiato. Ma contemporaneamente alla nascita e allo sviluppo della mafia in Sicilia, in altre due regioni meridionali, anch’esse governate prima dell’Unità d’Italia dallo stesso regime politico e istituzionale, si sviluppavano fenomeni similari che hanno conosciuto poi la stessa lunga durata storica. Tre fenomeni con le stesse caratteristiche e nello stesso frangente storico si sviluppano in tre aree diverse dell’Italia meridionale. E un quarto, la Sacra Corona Unita, alla fine degli anni Settanta del Novecento in Puglia.

Se tre fenomeni criminali sono coevi, nascono e si consolidano sotto lo stesso regime politico preunitario, e si affermano oltre ogni previsione a partire dall’Unità d’Italia in poi, forse è il caso di guardare all’insieme delle comuni circostanze storiche alla base della loro origine e del loro successo. L’impressione è che si tratti di un comune modello vincente, che definiamo appunto «modello mafioso», più interessante da analizzare delle specifiche e indubbie differenze tra le tre mafie.Certo, ogni organizzazione criminale ha una sua singolarità, un nome proprio, un’identità ben precisa, un autonomo svolgimento: nasce e prospera in un determinato ambiente storico, economico, sociale, culturale e politico. Tuttavia è facile notare come tra i diversi agglomerati criminali molti sono i punti di contatto, i nessi, le interconnessioni, le similitudini. Le cose che le accomunano sono altrettanto evidenti di quelle che le differenziano. Lo specifico siciliano non consiste nell’aver prodotto un fatto storico unico, la mafia appunto, ma nell’aver plasmato in maniera originale un fenomeno che si produceva anche altrove nello stesso periodo. È la specificità che va analizzata, non l’unicità.

Ammesso che siano fenomeni criminali radicalmente diversi, resta un problema storico spiegare perché tali organizzazioni così invasive si siano manifestate in tre realtà meridionali, nello stesso periodo storico e sotto la stessa dominazione. E ancora: ammesso che siano modalità differenti di criminalità e che si siano formate in epoche diverse, perché mai hanno avuto lo stesso successo nel tempo, pur attraversando successivi periodi storici, molteplici regimi politici e registrando così marcate differenziazioni tra di loro? Il comune successo non è motivo di approfondita riflessione rispetto a tutte le (vere o ipotetiche) differenze?

Spesso ci si è confrontati in ambito accademico su quale delle mafie fosse la più importante ed esclusiva, trattando le «mafie altrui» con sufficienza. A volte anche gli studi sulle mafie si facevano condizionare dagli allarmi che efferati delitti determinavano nella vita politica e sociale italiana. E ciò non è stato un bene. Anzi, è stato un limite forte della storiografia sulla mafia. Si è raccontata come storia regionale una storia unitaria. Insomma, studiare separatamente le mafie italiane crea più problemi storici di quanti si intendano risolvere.

La camorra si chiamerà da subito camorra, la mafia acquisirà ufficialmente questo nome solo nel 1863 (ma già avevano avuto corso fenomeni di tipo mafioso fin dalla prima parte dell’Ottocento con il nome di Fratellanze o altri fantasiosi appellativi, con modalità d’azione e di organizzazione molto simili fra loro), mentre la ’ndrangheta si chiamerà così solo nel secondo dopoguerra, anche se il nome compare per la prima volta in un processo del 1908, mentre prima aveva avuto diversi nomi, come Onorata Società, Famiglia Montalbano, Picciotteria, Camorra, Fibbia.

Dunque, tutte e tre le organizzazioni criminali nascono nello stesso periodo storico, all’inizio dell’Ottocento, a ridosso della fine del feudalesimo (nel 1806 a Napoli e nelle province continentali, nel 1812 in Sicilia), a imitazione delle associazioni politiche segrete in cui gli oppositori al regime assolutistico borbonico si erano organizzati. Il loro luogo di aggregazione sono le carceri e l’esercito. Non è corretto però affermare che le tre organizzazioni di sicuro nascano nelle carceri; più realisticamente si può affermare che il carcere è il principale luogo di diffusione e di socializzazione delle regole delle tre mafie.

Il carcere, infatti, era per antonomasia luogo di potere della camorra, come testimonia il suo primo studioso, Marc Monnier. Il comandante militare dell’isola di Ponza, luogo storico di detenzione di camorristi, scriveva al questore di Napoli nel 1863 facendogli presente che «alcuni camorristi, appena arrivati, avevano preteso il contributo da ogni altro recluso e che per ottenere il loro scopo non avevano esitato a picchiarli a sangue».

Da considerare che il controllo sulle carceri continuerà a essere nel tempo una delle costanti del potere mafioso e camorristico fino all’introduzione del 41 bis (il carcere duro). L’Ucciardone era dominato dai mafiosi siciliani e Cutolo aveva il controllo fisico di diverse prigioni, a partire da quella di Ascoli Piceno dove si svolsero le trattative per la liberazione dell’assessore democristiano della Campania, Ciro Cirillo, nel 1981. Cutolo è stato l’unico capo mafioso a costruire un’organizzazione criminale potentissima stando quasi tutta la vita in carcere e reclutando da lì il suo esercito di giovani criminali, cui forniva, con il ricavato delle estorsioni, vestiti, assistenza legale e sostegno per le famiglie. Non c’è in tutta la storia del crimine un caso analogo. Era nelle isole di confino e nelle carceri che i delinquenti e i violenti provenienti dalla Sicilia, dalla Calabria, da Napoli città e dalle zone circostanti incontravano gli oppositori borbonici incarcerati per cospirazione, per la maggior parte aderenti a sètte politiche segrete. Senza questo incontro non ci sarebbero stati gli statuti, i rituali, i vari gradi di affiliazione, che sono copiati in gran parte dagli statuti delle società segrete massoniche e carbonare.

Le associazioni criminali, che poi chiameremo mafie, si organizzano sul modello politico delle sètte segrete dei ceti aristocratici e borghesi. È questa la principale novità rispetto a tutte le altre forme organizzate violente che hanno preceduto le mafie, dai pirati ai banditi, dai briganti ai grassatori. Nello statuto della camorra, al primo articolo, è scritto che «La Società dell’Umiltà o Bella Società Riformata ha per scopo di riunire tutti quei compagni che hanno cuore, allo scopo di potersi, in circostanze speciali, aiutare sia moralmente che materialmente».

Sembra una delle regole principali della massoneria. Sempre nello statuto della camorra c’è la divisione tra Società Maggiore e Società Minore, così come nella massoneria. La camorra si presenta, insomma, come una massoneria violenta della plebe. Ma anche la mafia siciliana può essere paragonata alla massoneria, secondo il parere di due mafiosi, Nick Gentile e Tommaso Buscetta. Anche la ’ndrangheta prevede una differenziazione tra Società Maggiore e Minore e nel corso della sua storia, oltre a copiarne le modalità organizzative, stabilirà rapporti permanenti con molte organizzazioni massoniche.

Della camorra, cioè dell’organizzazione segreta criminale i cui membri sono chiamati camorristi, si hanno notizie fin dal 1820, e gli atti della polizia e la letteratura ne registreranno l’attività e la presenza già molto prima dell’Unità d’Italia, soprattutto attraverso i romanzi a puntate di Francesco Mastriani. Sarà la camorra la prima organizzazione di tipo mafioso, anticipando di qualche decennio la nascita della mafia siciliana.

La parola «camorra» intesa come casa da gioco o come gioco d’azzardo era già presente nel Settecento. In una prammatica del 1735 vengono autorizzate dal re otto nuove case da gioco, una delle quali si chiama «camorra avanti palazzo». Il termine mafia, invece, compare dopo che la «cosa», cioè l’attività mafiosa sotto altri nomi, era già attiva prima del 1860, com’è testimoniato da una lettera del 1838 del procuratore di Trapani Pietro Ulloa al re delle Due Sicilie e dai rapporti dei procuratori generali delle Corti criminali di Messina, Girgenti e Palermo tra il 1830 e il 1840. Già nel 1828 il procuratore generale di Girgenti (Agrigento) parlava di un’organizzazione «di oltre 100 membri di diverso rango i quali riuniti in fermo giuramento di non rivelare mai menoma circostanza delle loro operazioni, a costo della vita e conservano a difesa comune una somma considerevole di denaro in cassa». Stessa cosa per la ’ndrangheta: quando l’attività di mafiosi calabresi verrà conosciuta sotto la dizione di ’ndrangheta, essa sotto altri nomi era già operante dall’inizio dell’Ottocento.

Insomma, è differente il momento in cui le tre organizzazioni di tipo mafioso verranno conosciute con il nome con cui sono note oggi, ma le attività di tutte e tre sono attestate (anche se con nomi diversi) nello stesso periodo storico, cioè all’inizio dell’Ottocento, sotto il regime dei Borbone, alla fine del feudalesimo. Sono, dunque, organizzazioni coeve, che si presentano sulla scena della storia sotto lo stesso regime politico e in una fase di grande trasformazione economica e sociale. Lo sfalsamento storico è dovuto al fatto che esse non erano conosciute e denominate ancora con il nome che successivamente le renderà famose, non che non fossero già operanti prima del 1861. Da notare che in altre tre nazioni, che si sono liberate del feudalesimo molto più tardi rispetto a diversi paesi europei, cioè la Cina, il Giappone e la Russia, sono presenti forme criminali molto simili a ciò che si intende per mafia. Il rapporto tra fine ritardata del feudalesimo e mafie ha una sua fortissima suggestione storica.

2. Si ritiene, in genere, che la ’ndrangheta non abbia la stessa lunga presenza storica di mafia e camorra, ma ciò è frutto di un’incredibile sottovalutazione della mafia calabrese. La ’ndrangheta ha conosciuto un cono d’ombra lunghissimo dovuto alla perifericità della Calabria nella storia italiana, prima e dopo l’Unità. Inoltre i numerosi episodi di sangue avvenivano in piccolissimi Comuni e non avevano dunque la stessa risonanza dei delitti di grandi città come Napoli e Palermo. Quella che noi oggi chiamiamo ’ndrangheta esisteva sotto altro nome ben prima dell’Unità d’Italia, nel Reggino almeno dagli anni Trenta dell’Ottocento. Il primo annullamento di un’elezione comunale per «un’utilizzazione politica di elementi mafiosi nella lotta amministrativa» avviene proprio a Reggio Calabria già nel 1869. Non dimentichiamo inoltre che un ruolo importante la ’ndrangheta lo svolse già nella costruzione della ferrovia tirrenica negli anni Ottanta dell’Ottocento.

Perché questa sottovalutazione della ’ndrangheta sia durata fino ai giorni nostri è questione non ancora risolta. Tra il 1970 e il 1988, la ’ndrangheta ha effettuato ben 207 sequestri di persona, di cui 121 in Calabria e gli altri nel Nord Italia, accumulando risorse tali da consentirle di partecipare da protagonista ai lavori per la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro e dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, per poi ritagliarsi un ruolo centrale nel traffico internazionale di stupefacenti. Eppure l’attenzione su di essa non superava fino a poco tempo fa qualche riferimento folcloristico sui rifugi dell’Aspromonte e qualche similitudine con il banditismo sardo. Si è trattato di un’imperdonabile leggerezza degli apparati di sicurezza del nostro paese. Stessa sottovalutazione ha accompagnato le camorre napoletane e campane nel secondo dopoguerra.

Incredibile il vantaggio dato dagli inquirenti nel considerare il contrabbando di sigarette un’attività tutto sommato assimilabile all’arte del sopravvivere, piuttosto che a una vera e propria impresa criminale. È con il contrabbando di sigarette che le camorre assumono un loro ruolo nello scacchiere nazionale e internazionale del crimine, si introducono anch’esse nel business della droga e si ritrovano con una notevole disponibilità di capitali a ridosso del terremoto che colpì la Campania nel 1980, così da poter svolgere un ruolo centrale nella ricostruzione.

Dunque, quando la mafia siciliana occupa la scena criminale e monopolizza l’attenzione della pubblica opinione, della politica e degli apparati di sicurezza, a partire dalla metà degli anni Sessanta del Novecento camorre e ’ndrangheta non erano «silenti»; solo che su di esse non c’era l’attenzione degli investigatori dello Stato. Nessuna criminalità diventa da un giorno all’altro così potente se non ha un lungo retroterra storico, un lungo «apprendimento», una lunga sedimentazione alle spalle (e una lunga disattenzione delle forze di sicurezza).

Invece è più difficile trovare notizie storiche di una «cosa» mafiosa in Puglia prima degli anni Settanta del Novecento, cioè prima che si manifestasse con il nome di Sacra Corona Unita. Enzo Ciconte ci parla di due processi di fine Ottocento, uno a Bari nel 1891 con 179 imputati e uno a Taranto nel 1893 con 103 imputati, che riguardavano un’organizzazione composta da delinquenti pugliesi che copia i riti, i codici e i comportamenti della camorra napoletana. Negli atti del primo processo si parla di un’affiliazione alla consorteria già nel 1870, che quindi consente di far risalire almeno a tale data l’inizio della sua presenza a Bari e provincia.

Non sappiamo se in Puglia operassero organizzazioni malavitose ben strutturate e coese prima dell’Unità d’Italia, anche se contraddistinte da un nome diverso. In ogni caso non si può parlare con sicurezza di una quarta organizzazione mafiosa coeva alle altre tre. Se l’origine delle mafie italiane è da collocare indubbiamente sotto il regime borbonico, non si capisce perché si sia voluto infierire solo sulle responsabilità politiche e istituzionali precedenti l’Unità d’Italia, quando sul piano storico è del tutto evidente che è nel nuovo Stato unitario che le mafie «borboniche» prendono il volo e si affermano come coprotagoniste della storia nazionale. Possiamo, dunque, considerare il periodo post-unitario come quello dell’ingresso ufficiale delle mafie nella nostra storia nazionale, non come il periodo della loro nascita.

3. Durante tutta la loro storia, Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra hanno comunicato e imparato le une dalle altre. Le tracce di questa storia comune sono visibili nel linguaggio che le unisce. Ci sono, infatti, diversi elementi che confermano l’ipotesi di una nascita coeva delle tre organizzazioni mafiose meridionali e un loro reciproco influenzarsi e copiarsi fin dalle origini.

Della camorra e della ’ndrangheta ci sono arrivati degli statuti scritti (quello della camorra è addirittura del 1842), mentre la mafia siciliana ha trasmesso oral­mente le proprie regole fin quasi ai nostri giorni; solo recentemente sono stati trovati i «dieci comandamenti» mafiosi scritti per mano del boss Salvatore Piccolo, che somigliano molto ai dieci comandamenti della ’ndrangheta che Gratteri e Nicaso hanno dettagliatamente ricostruito. Così come sono simili alle regole che la camorra napoletana si era data nel «frieno», il suo statuto del 1842.

Tra le tre, la mafia siciliana è quella che meno si è fidata di una trasmissione delle regole attraverso la scrittura. Ma all’inizio anche la mafia siciliana era dotata di statuti scritti, di cui abbiamo traccia fino al 1877 (lo statuto degli Stoppaglieri di Monreale). Poi, dopo i processi di fine Ottocento, tali documenti vennero eliminati per non danneggiare l’organizzazione. Negli statuti e nei codici scritti della ’ndrangheta si usa un linguaggio simbolico, magniloquente, esoterico, che serve a rafforzare legami di appartenenza e di fedeltà, ma si capisce facilmente che la stesura è fatta da persone illetterate.

È difficile spiegare perché la più chiusa delle organizzazioni mafiose, cioè la ’ndrangheta, abbia potuto fare arrivare fino a noi numerosi codici rinvenuti in varie parti della Calabria, in alcune regioni del Nord e anche all’estero. Può essere capitato che difettando la memoria a persone che protraevano il loro potere fino alla tarda età (alcuni testi sono fatti di molte pagine fitte e di tantissime frasi da pronunciare) si sia sentito il bisogno di scrivere i testi per paura di dimenticarli.

Le analogie tra camorra e ’ndrangheta sono impressionanti. All’inizio della loro lunga ascesa i camorristi e gli ’ndranghetisti si riconoscevano per i numerosi tatuaggi, per l’incedere pomposo, per l’abbigliamento sempre oltre le righe, per il taglio dei capelli e per altri vistosi particolari del loro mostrarsi in pubblico. Sono i modi di camminare e di parlare resi celebri da Totò nel film Totò le Mokò.

Se si analizzano i vari rituali arrivati fino a noi, la ’ndrangheta sembra essere la succursale calabrese della camorra, pur essendo la consorteria calabrese totalmente autonoma dalla consorella napoletana. E allora come spiegarsi queste similitudini, questo uso dello stesso linguaggio e delle stesse parole nei riti d’ingresso e nella definizione dei vari gradi di appartenenza? È evidente la grande influenza iniziale della camorra, che aveva il controllo delle carceri borboniche.

Negli anni Settanta del Novecento Raffaele Cutolo ripristinerà i riti e i giuramenti per l’adesione alla sua consorteria che chiamerà Nuova camorra organizzata e li copierà dalla ’ndrangheta calabrese senza difficoltà perché essi erano simili ai rituali della camorra ottocentesca a cui Cutolo voleva richiamarsi. Il termine «camorrista » come uno dei supremi gradi della ’ndrangheta è ancora oggi usato, come hanno dimostrato le inchieste della magistratura. Nel 2013 un collaboratore di giustizia di Lamezia Terme ha dichiarato al magistrato: «Attualmente posseggo la dote di camorra, che sarebbe la seconda della Società Minore».

4. Le mafie fin dall’inizio copiano il modello organizzativo delle classi dominanti dell’epoca. Si può parlare quasi di mafia «scimmia» delle classi dominanti. All’inizio dell’Ottocento le classi dirigenti si organizzano in sètte segrete per contare di più all’interno dei regimi politici dominanti o per opporsi politicamente ai governi assolutistici, e le classi popolari si organizzano anch’esse in sètte segrete per contare di più e per stringere relazioni. È una novità assoluta nelle forme di partecipazione alla vita politica e sociale.

Nello statuto della camorra e nei rituali della ’ndrangheta si usa spesso la parola «compagno» così come il compagno libero muratore era il secondo grado massonico tra quello di apprendista e quello di maestro. I massoni definiscono la loro struttura «famiglia massonica», e «famiglia » viene chiamata dai mafiosi siciliani la loro struttura territoriale. I massoni si chiamano fratelli fra di loro, così come gli ’ndranghetisti.

Ancora: nelle varie versioni della cerimonia di ammissione alla ’ndrangheta una cosa è rimasta inalterata nel tempo: lo scambio di domande e risposte tra uno dei vecchi appartenenti e il nuovo adepto, per verificare la consapevolezza del nuovo entrato della tradizione ’ndranghetista. Il rito di iniziazione basato su domande e risposte è tipico della massoneria. Non è un caso che lungo la loro autonoma storia, mafie e massoneria si intrecceranno più volte, fino ad arrivare alla fine del Novecento da parte della ’ndrangheta alla costituzione di un grado di appartenenza detto «la Santa», dove confluiranno i vertici dell’organizzazione e diversi massoni.

Insomma, da questo punto di vista sono più che provati i rapporti tra mafie e massoneria: all’inizio è la massoneria a influenzare con i suoi riti segreti e con i suoi codici gli statuti orali e scritti delle mafie; in un secondo momento sarà una parte della massoneria a stringere rapporti con le mafie, in particolare con la mafia siciliana e poi con la ’ndrangheta.

In definitiva, i rituali accompagnano nella storia le tre mafie italiane; all’inizio è la camorra a usarli, almeno fino al primo Novecento, per poi abbandonarli per più di un cinquantennio fino alla loro reintroduzione ad opera di Raffaele Cutolo. Oggi non ci sono prove di un uso di rituali nell’affiliazione camorristica. Nella mafia siciliana le modalità di affiliazione si sono mantenute sostanzialmente inalterate per più di un secolo e mezzo. I riti di iniziazione, anche con ripetuti riferimenti alla religione, sembrano essere una delle caratteristiche della criminalità di tipo mafioso nel mondo.

Infatti, sono in uso anche nelle triadi cinesi, nella yakuza giapponese e nella mafia russa. Essi creano un senso di appartenenza forte, danno la convinzione di appartenere a un’élite criminale, di non essere confusi con la delinquenza comune, ma soprattutto servono a nobilitare la violenza, a darle un valore sociale. Perciò i riti di affiliazione sono sconosciuti nelle criminalità organizzate di tipo non mafioso. Ed è la ’ndrangheta a sorprendere in questo meticoloso richiamo ai riti del passato.

C’è, dunque, un’evidente filiazione delle società mafiose dal modello della massoneria e dalle società segrete risorgimentali. La dimensione simbolica-rituale viene da lì. I riti e la segretezza erano finalizzati al passaggio del concetto di onore verso gli strati non aristocratici o possidenti della società. La «fratellanza di sangue » è tipica delle società che non accettano più il potere derivante dall’ereditarietà ma dal sangue, cioè dal proprio valore. Il valore è dato dalla propria personalità, dalle proprie «qualità», non dalla condizione sociale ereditata. E la violenza con il rito si libera dalla sua animalità e diventa valore sociale e culturale. Dai nobili i mafiosi copiano soprattutto il modello di erogare violenza e sfuggire alla punizione.

Anche il concetto di «onore» è di derivazione aristocratica, sia nel senso spagnolesco di chi non è obbligato alla fatica fisica per procurarsi ricchezza, sia nel senso di farsi obbedire. Infatti nel sistema feudale l’onore era abbinato all’obbedienza, non aveva a che fare con la morale o con la dignità. Con le mafie la concezione dell’onore non è più esclusivo appannaggio del ceto nobiliare. Perciò l’uccisione in agguati, il tradimento e la brutalità sono compatibili nelle mafie con il concetto di onore: chi tradisce merita la punizione violenta perché non ha rispettato l’onore del tradito (cioè l’obbedienza). Il traditore è un infame, è un «mezzo uomo», non degno del rispetto per la sua vita.

L’ideologia mafiosa è razzista in un senso del tutto originale, perché non è legata al colore della pelle o al luogo di nascita o al ceto di provenienza; si lega unicamente al concetto di onore e dunque di obbedienza: chi non rispetta questa regola perde lo statuto umano e diventa un hostis, un esterno alla categoria degli «uomini». E verso gli hostes, gli infami, i non rispettosi dell’onore, qualsiasi violenza è del tutto giustificata.

5. La spiegazione del fenomeno mafioso è stata a lungo ostacolata dall’idea dominante tra gli specialisti della materia (fin dagli inizi ottocenteschi degli studi statistici sull’argomento) che in fondo ogni forma o attività delinquenziale ha a che fare con la povertà, o che la povertà sia la più rilevante tra le cause della criminalità, quanto meno dei reati contro il patrimonio. Le scienze criminali si affermarono, infatti, quando alcune società europee cominciarono a fare un bilancio delle conseguenze dell’industrializzazione e della massiccia urbanizzazione che l’aveva accompagnata.

La grande letteratura francese e inglese della prima metà dell’Ottocento (e quella immediatamente successiva) ha fotografato una criminalità vivace e aggressiva all’interno di città senza mezzi e possibilità per tutti e con condizioni miserevoli anche per chi viveva del lavoro industriale. La criminalità si era spostata dalle campagne in città, ed era già a metà Ottocento un problema dei grandi agglomerati urbani europei.

È interessante cogliere la differenza tra la criminalità urbana di città come Londra e Parigi, e quella presente a Napoli. La principale consiste in questo: la camorra napoletana si organizzerà in setta, sul modello delle organizzazioni politiche coeve della nobiltà e della nascente borghesia. Sarà una criminalità organizzata, con una struttura capillare che dominerà su tutta la città e su tutte le numerose attività illegali che vi si svolgevano.

Invece, a Parigi e Londra, pur essendoci forme organizzate di ladrocinio, non esistevano vere e proprie sètte di delinquenti, riti di iniziazione e giuramenti. Insomma l’organizzazione nelle altre due metropoli europee era limitata ai mendicanti e ai ladri, settori della società non in grado di ergersi a potere autonomo e di influenzare la politica e la società. Erano associazioni di tagliaborse e di mendicanti che non si trasformarono in mafiosi.

Il riassorbimento del sovraffollamento plebeo e la limitazione della criminalità urbana da accattonaggio sono alcune delle particolarità della formazione della Parigi e della Londra moderne all’interno delle loro funzioni di capitali di nazioni industrializzate e di vasti imperi coloniali. A Napoli ciò non è avvenuto, il riassorbimento non c’è stato; così essa resta l’unica metropoli tra quelle che hanno contribuito a formare la storia e la cultura europee a trascinarsi dietro il peso di una criminalità urbana da sottoproletariato che con diversa intensità, ruolo e pericolosità ha accompagnato stabilmente le varie tappe della sua trasformazione urbana e sociale.

Invece nel resto del territorio italiano, sia prima che dopo l’Unità, la criminalità si presentava come un problema delle campagne, dei contadini e dei pastori. Manterrà questa caratteristica anche dopo l’avvio in ritardo della nostra industrializzazione, a fine Ottocento.

Ma la differenza non era (come si riterrà in seguito) tra mafia rurale e mafia urbana, bensì tra criminalità occasionale e criminalità strategica. Infatti ciò che caratterizzerà i fenomeni mafiosi in Italia non sarà il loro restringersi in campagna o nel latifondo, ma la capacità di esportare il metodo mafioso (arricchirsi con la violenza, integrandosi nella società) in tutte le attività economiche, legali o illegali che fossero. Non ci sono la mafia rurale e quella urbana una contrapposta all’altra o in successione (un prima e un dopo). Non sono fenomeni distinti: lo prova il fatto che si affermano contemporaneamente la mafia siciliana e la camorra napoletana, una a partire dal latifondo, l’altra nella capitale del regno borbonico.

Ma anche in Sicilia questa differenza era quasi inesistente. L’agricoltura in Sicilia era la base dell’economia e chi vi attendeva (nel ruolo che svolsero i mafiosi) aveva stabili relazioni con le città, in particolare con Palermo. In questo senso le differenze tra mafie rurali e urbane, tra mafie del latifondo e dei giardini, e successivamente tra mafie dell’edilizia e mafie della droga sono solo indicazioni dei settori diversi su cui si applicava e si applicherà lo stesso metodo violento. Se le campagne erano il luogo della produzione, le città erano il luogo della distribuzione, del consumo e dell’avvio delle merci ai mercati esteri, tutte attività che necessitavano di relazioni e di mediazioni.

6. Cercare le origini della mafia in una sola attività, in un solo settore economico o in una sola classe è un errore. Mafia è innanzitutto un metodo, una modalità di arricchimento. Coloro che hanno appreso questo metodo danno vita a un’organizzazione con lo scopo di arricchire i sodali. E l’applicazione di questo metodo può attagliarsi a diversi periodi storici, a diverse attività, a diverse classi.

Non è dunque il latifondo che caratterizza la mafia siciliana, ma è la mafia tutt’al più a caratterizzare il latifondo. Quindi non ci sono tante mafie a seconda del settore, del periodo storico o delle diverse classi sociali che le caratterizzano. Allo stesso modo non ci sarà contrapposizione tra mafia imprenditrice e mafia predatoria e parassitaria, tra mafiosi plebei e contadini e mafiosi dei quartieri alti, o tra bassa e alta camorra. È semplicemente il comune metodo mafioso che si adatta al variare del contesto storico e delle opportunità di arricchimento.

Le organizzazioni mafiose si genereranno senza avere una causa diretta e immediata con la povertà, anche se i suoi primi seguaci verranno dalle classi povere della società dell’epoca, cioè dalla classe dei contadini e dei pastori, e a Napoli città dalla plebe dei bassifondi. Le mafie fin da subito si presentano come forme di ascesa sociale tramite la violenza. Ed è questa la novità e l’originalità, perché la violenza come forma di realizzazione di potere e benessere era stata usata solo dalle classi superiori e mai da quelle inferiori della scala sociale. Con le mafie la violenza si dirozza, con essa i mafiosi raggiungono un potere e un benessere che nessuna forma criminale popolare prima di loro era riuscita a ottenere.

La criminalità di tipo mafioso è l’unica forma di violenza popolare che ha avuto successo pur non derivando dai ceti possidenti, dalla ricchezza già posseduta. Questa la differenza fondamentale. I mafiosi non sono, come gli altri criminali, una classe di individui violenti separata dal resto della società, un corpo estraneo non assimilabile e integrabile. Essi non sono accompagnati da riprovazione sociale, ma da elogi e riconoscimenti anche da parte di figure istituzionali. I mafiosi non sono persone da evitare, da tenere a distanza, anzi è meglio e utile averci a che fare. A quali violenti appartenenti agli strati popolari era stato mai concesso tanto nella storia?

L’altra originalità delle mafie, rispetto alle criminalità che le avevano precedute, consiste nel rapporto con i ceti proprietari e con quelli dominanti. Mentre gli altri violenti che venivano dal popolo avevano un rapporto predatorio con essi (provavano a togliere loro un po’ di ricchezza con le estorsioni, i sequestri, il furto di animali) o stavano al loro servizio per difesa personale e per intimidirne gli avversari, i mafiosi – pur difendendo gli interessi dei ceti proprietari – stabiliscono rapporti paritari, non più subalterni con i potenti.

La violenza popolare con le mafie si autonomizza dai ceti alti e contemporaneamente si allea con essi. Quello mafioso è un potere che non avrebbe potuto consolidarsi se avesse goduto solo del consenso popolare, perché nessuna violenza privata nel corso della storia ha avuto successo godendo solo del consenso dei propri simili.

I mafiosi, oltre che a organizzazioni criminali, danno vita a delle originali e vincenti «istituzioni criminali». Più che mettersi fuori dalla legge, propongono una loro legge, producendo un soggetto criminale, economico, politico e sociale che, a seconda delle circostanze, interloquisce o confligge con i poteri legali dello Stato, senza mai contrapporsi frontalmente ad essi. E lo Stato, nel corso degli anni, si è rapportato ai fenomeni mafiosi allo stesso modo, reagendo quando sembravano porsi in posizione di contrasto e ripiombando nell’inerzia quando usavano il «rispetto dovuto» alle istituzioni pubbliche e con esse collaboravano.

Anche un’istituzione nel campo morale e del costume come la Chiesa cattolica si è comportata nel tempo allo stesso modo nei confronti delle mafie, non combattendole come antitetiche al messaggio cristiano, ma riconoscendole e legittimandole come poteri con cui confrontarsi.

Dunque le mafie, più che società di malfattori, più che semplici associazioni criminali o generiche criminalità organizzate, sono anche delle «istituzioni» criminali tra istituzioni legali «che convivono assieme per lungo tempo, che si contrastano certo, ma senza la volontà di annientarsi, bensì protese a dimensionare i loro rapporti di forza a seconda delle reciproche esigenze, degli interessi in gioco, delle spinte interne e internazionali, a volte convergenti a volte divergenti, ma mai incompatibili del tutto», come ha scritto efficacemente il magistrato Vincenzo Macrì.

7. Le mafie italiane hanno sempre rispettato il loro reciproco insediamento territoriale senza che nel corso della storia ci sia stato un «attacco» da parte di una di esse al territorio delle altre. Hanno rispettato i confini regionali. Ci sono state alleanze e scontri su singoli affari e settori di attività, ma mai uno scontro militare che abbia coinvolto tutte le parti in causa. Ciò dimostra proprio il fatto che il successo delle mafie non è dovuto al loro carattere militare, perché è tipico dell’organizzazione militare l’occupazione di territori altrui.

Le mafie non invadono territori di altre mafie, ma contendono affari. Mai la contesa di questi affari le porta ad aspirare alla conquista di quel territorio regionale storicamente appannaggio delle loro «sorelle». Quando per necessità relativa ad alcuni affari (come nel periodo del contrabbando di sigarette) i clan mafiosi si sono trovati a operare a Napoli, hanno scelto la strada di cooptare all’interno delle famiglie mafiose alcuni esponenti della camorra.

Così furono «punciuti» il re napoletano del contrabbando di sigarette, Michele Zaza, e alcuni esponenti del clan Nuvoletta. Cutolo a sua volta fece giuramento alla ’ndrangheta quando riteneva di fare guerra ai clan mafiosi ancora presenti negli affari del contrabbando in Campania. Bardellino, il primo capo dei casalesi, era alleato della mafia perdente e schierato contro i corleonesi, perché legato personalmente a Tommaso Buscetta. Quindi nelle guerre tra diversi clan appartenenti alle tre mafie, ci sono state alleanze trasversali di alcuni clan di camorra con alcune famiglie siciliane in lotta contro altre famiglie mafiose, o di ’ndrine calabresi alleate di Cutolo contro altri clan campani. Ma anche in questo caso, mai la lotta è stata portata sul territorio dei clan alleati dei propri avversari.

Ci sono stati sconfinamenti isolati, ma solo ai confini di due regioni. Ad esempio alcune ’ndrine calabresi riconducibili alla famiglia Pesce per un periodo hanno esercitato un’influenza e un controllo nella zona di Sapri, nell’estremo Cilento, ai confini tra Campania, Basilicata e Calabria. Ciò è stato possibile per l’assenza di bande di camorra operanti in quel territorio (il Cilento è una zona esente storicamente da bande autoctone di camorra) e per l’estrema vicinanza con la zona calabrese controllata appunto dalla famiglia Pesce.

C’è poi la comune influenza della camorra cutoliana e di alcune famiglie ’ndranghetiste sulla Puglia prima della nascita della Sacra Corona Unita, rispettivamente in provincia di Foggia (più vicina alla Campania) per i cutoliani e in provincia di Taranto per gli ’ndranghetisti (più vicina alla Calabria). Anche il controllo del territorio dello Stretto di Messina, zona di confine per antonomasia, è «condiviso » tra alcune famiglie mafiose e alcune famiglie ’ndranghetiste.

Il caso dell’espansione delle mafie nel Lazio ha una sua specificità, perché la presenza della camorra dei casalesi è in gran parte localizzata lungo il mare nella zona di confine tra Campania e Lazio (provincia di Latina), mentre quella ’ndranghetista si è concentrata a Roma città. In questo caso mentre per la camorra si tratta di espansione nei territori confinanti non occupati da altre criminalità, per la ’ndrangheta si tratta di reinvestimenti nel settore del commercio e del turismo che prescindono da un’espansione territoriale.

L’espansione nel Centro-Nord segue a sua volta altre modalità. Mentre la mafia siciliana e la camorra napoletana non hanno seguito la strada di un radicamento territoriale, ma di reinvestimenti di denaro (sia nel circuito finanziario sia in quello delle attività economiche), la ’ndrangheta ha seguito la rotta dell’emigrazione, radicandosi laddove c’era un insediamento consistente di calabresi emigrati o formando un insediamento a partire da alcuni boss inviati al soggiorno obbligato.

Insomma, nel Centro-Nord la ’ndrangheta cerca di riproporre un radicamento territoriale attorno ai nuclei di calabresi emigrati. È inutile ricordare che ciò non sarebbe sufficiente a giustificare il successo riscosso nei nuovi territori se accanto alla offerta criminale non ci fosse stata una domanda di economia violenta da parte di diversi operatori economici autoctoni centro-settentrionali e di una parte del mondo politico locale.

È poi da ricordare che durante il periodo del terrorismo in Sicilia non ci fu alcun episodio riconducibile ad attività terroristiche, mentre qualche episodio ci fu in Calabria e moltissimi in Campania. La mafia siciliana non permise che operassero sul proprio territorio altre forme di violenza, mentre la camorra non pose ostacoli particolari. Anzi, durante il sequestro dell’assessore regionale Ciro Cirillo, Cutolo e le Brigate rosse collaborarono e condivisero l’uccisione di qualche comune nemico come il commissario Antonio Ammaturo, assassinato nel 1982, proprio a ridosso della trattativa tra il boss di Ottaviano, i servizi segreti italiani e settori della Democrazia cristiana.

Dunque, in nessun’altra nazione alle prese con fenomeni di tipo mafioso esistono differenze regionali così marcate tra organizzazioni similari. La regionalità e, al tempo stesso, la sostanziale uniformità dei fenomeni mafiosi italiani è un tratto di assoluta originalità nel panorama della criminalità globale

Fonte:https://www.limesonline.com/