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La colonizzazione della ‘Ndrangheta

La colonizzazione della ‘Ndrangheta

di Francesco Trotta

È proprio la ‘Ndrangheta, l’organizzazione mafiosa più subdola e pervasiva in Italia e in Europa, che attraverso alcuni suoi uomini e i loro complici – anche veneti – è presente nel Veneto Occidentale, nei piccoli comuni da poche migliaia di abitanti, tra le colline veronesi e la piana vicentina. E in questi territori detta legge e da questi orchestra affari illeciti, ricicla soldi, si muove veloce per accaparrarsi appalti pubblici nel resto della regione, come pure fuori, e così via.
Accanto a Domenico Multari compaiono nomi ma soprattutto cognomi noti agli inquirenti. C’è la famiglia Giardino originaria di Isola Capo Rizzuto, con Alfonso che minaccia un imprenditore urlandogli “Se non paghi finirai a far compagnia ai vermi”; c’è Francesco Frontera, residente a Lonigo, qualche chilometro più in là di Zimella, condannato nel processo “Aemilia”, definito da un collaboratore di giustizia come: “Un elemento diciamo importante nell’ambito di Grande Aracri Nicolino, perché è una persona che spara”; ci sono i Grisi, con la loro azienda Gri.ka di San Bonifacio; ci sono i Bolognino, al centro dell’importante operazione “Camaleonte” del 12 marzo del 2019, in cui figurano 58 indagati. Anche Michele e Sergio Bolognino, quest’ultimo residente a Tezze sul Brenta (Vicenza) sono legati ai Grande Aracri e sono stati condannati in primo grado nel processo “Aemilia”, ma hanno intessuto i loro affari in Veneto.
Secondo l’accusa, Michele manteneva i suoi rapporti con la casa madre calabrese «sia per assicurarsi il benestare e il riconoscimento dell’estensione della zona di operatività della nuova articolazione, sia per ottenere la disponibilità di denaro contante da impiegare per i risanamenti aziendali». Il modus operandi pare sempre lo stesso nei casi finiti sotto la lente della magistratura (116 capi di imputazione): estorsioni e usura ai danni di imprenditori veneti, con anche minacce e violenza fisica; le false fatturazioni e operazioni inesistenti per riciclare il denaro sporco, con imprenditori veneti compiacenti, monetizzando per avere denaro pulito attraverso gli sportelli postali al servizio della ‘ndrina Grande Aracri. Un giro d’affari al mese tra i 200 e 250 mila euro. In questo senso il Veneto diventa davvero una “lavatrice”: c’è la consegna del contante da riciclare, con incontri in luoghi sempre diversi; poi, attraverso società gestite o controllate dai criminali, si effettuano le le false fatturazioni verso  aziende dei medesimi imprenditori, talvolta compiacenti, talvolta vittime, che pagano con bonifici su conti correnti postali (in Emilia Romagna) dove i soldi venivano ritirati con operazioni ripetute e di modesta entità per restare sotto della soglia d’attenzione. E a finire nei guai in particolare sono i veneti Leonardo Lovo, definito “il contabile” della cosca, residente a Roncade, Adriano Biasion di Piove di Sacco, indagato per false fatturazioni, e l’imprenditore Federico Semenzato. A loro era corrisposto il 7% delle somme movimentate.
Tanti soldi visto il guadagno illecito contestato ai tre: più di 3 milioni a carico di Lovo per riciclaggio (e 2 milioni per reati fiscali); stessa cifra per Biasion; e più di 1 milione e mezzo per Federico Semenzato per riciclaggio (e più di 1 milione per reati fiscali). Quest’ultimo è un pezzo da novanta dell’imprenditoria veneziana; stando a quanto riportato da quotidiano “La Stampa” le sue società, Se.ge.co srl e Segeco srl, è impegnata nei lavori della metro a Torino e avrebbe partecipato ai lavori della Linea 5 di Milano per conto di Alstom e alla Metro C di Roma. Inoltre l’azienda lavorerebbe anche all’interconnessione Brescia Ovest della linea ad Alta velocità Milano Venezia, il raddoppio ferroviario della linea Palermo-Messina, la manutenzione della stazione di Bologna centrale; e per conto di Rfi, tra il 2018 e il 2020, la manutenzione dell’armamento ferroviario dell’intero lotto Nord Est. Appalti per un valore di 700 milioni di euro. Altra azienda di Semenzato coinvolta nell’indagine è la Segea che gestisce gli alberghi di Palazzo Giovannelli a Venezia e di Villa Pace a Preganziol (Treviso). Non risulta coinvolta nell’indagine la società Segim srl, partecipata anche dalla madre e dai fratelli di Semenzato, che ha acquisito all’asta per più di 1 milione di euro il palazzo in piazza Ferretto a Mestre fronte Duomo e che avrebbe offerto più di 10 milioni di euro per acquistare Palazzo Gussoni Grimani a Cannaregio (Venezia), ex sede del Tar Veneto.
Se i complici veneti dei Bolognino e loro sodali pare se la stessero passando veramente bene, non altrettanto si può dire per chi veniva minacciato. “Pezzo di merda, vengo e ti prendo a te, tua moglie e tuo figlio, ti squaglio dentro l’acido, tutti vi ammazzo, hai capito bastardo? Tu pensa e spera la Madonna che non ci vediamo mai”. Una frase rivolta a Diego Carrano, imprenditore che noleggiava auto di lusso, che qualche anno fa era stato processato per appropriazione indebita.
Altra storia è quella capitata a Stefano Venturin, titolare della “GS Scaffalature”, al cui interno troviamo, nel ruolo di liquidatore, Paolo Signifredi, il “commercialista della ‘Ndrangheta”, attualmente collaboratore di giustizia. Nel libro “Mafia come M” (Linea Edizioni, 2019), troviamo scritto: “Nel 2013 Sergio e Michele Bolognino, indicato dalla Prefettura di Reggio Emilia per precedenti penali tra cui l’associazione mafiosa, pestavano il compagno della proprietaria della GS scaffalature; la vicenda provocò persino un’interrogazione parlamentare da parte dell’Onorevole Alessandro Naccarato, componente della Commissione Parlamentare antimafia, ma fu largamente sottovalutata tanto che la famiglia Bolognino, residente a Rosà (Vicenza), tenne una conferenza stampa nell’azienda in questione per affermare che loro con la mafia non avevano nulla a che fare”. Poi l’inchiesta emiliana ha portato alla condanna di Michele Bolognino e di Sergio. E oggi, a seguito dell’operazione “Camaleonte”, possiamo leggere anche alcune delle frasi che venivano rivolte a Stefano Venturin, l’imprenditore sequestrato e tenuto in ostaggio per ore, che non lasciano dubbi sullo stato di vessazione in cui viveva la stessa famiglia veneta. «Ti svito la testa… ti uccido te, tuo figlio, stermino la tua famiglia, non finisce qui», avevano detto Sergio Bolognino quando Venturin aveva cambiato la serratura per non permettergli l’accesso all’azienda. «Tu devi fare quello che ti dico io… se non fai quello che ti dico io ti spacco le gambe, ti spacco la testa… tu e la puttana di tua moglie dovete lavorare per me e stare zitti… dovete compiacere la mia famiglia».
La sottovalutazione del potere economico della ‘Ndrangheta in Veneto è ancor più evidente se si pensa a una vicenda che coinvolge presunti ‘ndranghetisti e direttori di banca. Leggiamo sempre dal libro “Mafia come M”: “Nel gennaio del 2018, l’operazione “Fiore Reciso” si è conclusa con l’arresto di 16 persone da parte della Direzione investigativa antimafia di Padova. Secondo gli inquirenti, i soggetti fermati facevano parte di un’associazione a delinquere “finalizzata all’emissione di fatture per operazioni inesistenti, al riciclaggio, all’auto-riciclaggio, allo spaccio e al traffico di sostanze stupefacenti”. Tra gli arrestati troviamo: Antonio Bartucca, Giovanni Spadafora, Antonio Giardino e Vincenzo Giglio. Tutti nomi e cognomi che ritornano sempre in questa nostra storia. A interessarci, però, è anche il ruolo svolto da Direttore della filiale di Vigonza della Banca Popolare di Vicenza, Federico Zambrini, insieme al funzionario della stessa filiale, Roberto Longone, anche loro fermati. I due, secondo gli investigatori, hanno aiutato Antonio Bartucca a muovere il denaro con operazioni anomale rispetto alle capacità economiche del soggetto in questione: a fronte di un reddito dichiarato di 17 mila euro, sono stati documentati nel solo 2016 prelievi per 150 mila euro. Oltre alle cospicue somme di denaro avute in cambio, Zambrini aveva ottenuto da Bartucca anche la sottoscrizione di azioni della BpVi per un valore di 61 mila euro; ma il tutto è stato azzerato dal fallimento dell’istituto di credito”.
E se dal carcere Due Palazzi di Padova, il boss di Strongoli, Savaltore Giglio, impartiva ordini e consigliava a Giuseppe Farao, dell’omonima cosca e detenuto pure lui, di rispettare e far rispettare ai suoi sodali, la “presenza” dello stesso Giglio e dei suoi uomini nel padovano, qualcosa vorrà pur dire… Non vedere, negare, sottovalutare denunce, episodi violenti e negare ancora che non via sia la mafia nel Nordest, è uno dei modi per agevolare la stessa mafia.

02 AGOSTO 2019

 

Fonte:https://rep.repubblica.it/