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ITALIANI BRAVA GENTE. QUANDO LA MAFIA SCIOGLIEVA I BAMBINI NELL’ACIDO

ITALIANI BRAVA GENTE. QUANDO LA MAFIA SCIOGLIEVA I BAMBINI NELL’ACIDO

DI MATTIA MADONIA

11 SETTEMBRE 2020

Non si toccano le donne e i bambini”, questo falso mito legato a un codice d’onore è stato per anni associato alla mafia in Italia, e in particolare a Cosa Nostra. La realtà però è molto diversa: soltanto i casi documentati riportano 157 donne e 108 bambini uccisi dalle mafie, vittime innocenti con l’unica colpa di aver visto qualcosa che non dovevano vedere o di essere parenti di un nemico di un clan. Questo è un orrore che non dobbiamo dimenticare, e la memoria ci riporta inevitabilmente alla storia di Giuseppe Di Matteo.

È il 23 novembre del 1993, e Giuseppe, dodicenne con la passione per i cavalli, sta passando il pomeriggio in un maneggio di Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo. Non vede il padre da mesi, non sa nemmeno dove sia. Santino Di Matteo, detto Mezzanasca, è infatti in una località segreta. Mafioso appartenente alla famiglia di Altofonte, dopo l’arresto ha deciso di collaborare con la giustizia rivelando dettagli sulla strage di Capaci e su altre operazioni di Cosa Nostra. Quel pomeriggio, all’uscita del maneggio, Giuseppe viene avvicinato da alcuni poliziotti che gli promettono di portarlo dal padre. Il bambino inizia a urlare dalla gioia, non smette di ripetere “Papà mio, amore mio”, guarda negli occhi quegli uomini e li considera degli angeli. Non sa ancora che non rivedrà mai più suo padre, e che quegli uomini travestiti da poliziotti sono in realtà mafiosi che agiscono per ordine del boss Giovanni Brusca.

Dapprima lo legano e lo mettono sul retro di un furgone, poi inizia l’odissea dei trasferimenti tra un casolare abbandonato e l’altro. Venticinque lunghi mesi in catene, al buio, nascosto sotto i pavimenti di masserie perdute nell’entroterra siculo, con i carcerieri a cercare il luogo più adatto per la sua prigionia, trovato infine nelle campagne di San Giuseppe Jato, nel palermitano. Per gestire gli spostamenti Brusca chiede aiuto anche a Matteo Messina Denaro, boss che proprio nel 1993 ha iniziato la sua latitanza. Intanto giungono alla famiglia Di Matteo i primi messaggi: due foto di Giuseppe con un quotidiano del 29 novembre e un biglietto con la scritta “Tappaci la bocca”, un chiaro riferimento al padre con l’invito a ritrattare le sue deposizioni. La madre denuncia la scomparsa del figlio soltanto il 14 dicembre, e la sera stessa viene recapitato un messaggio al nonno del ragazzo: “Il bambino ce l’abbiamo noi, non andare ai carabinieri se tieni alla pelle di tuo nipote”. Qualche giorno dopo viene riportato un altro messaggio al nonno: “Devi andare da tuo figlio e fargli sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedie”. L’uomo avverte la nuora, che contatta immediatamente la Direzione Investigativa Antimafia per chiedere di informare il marito. Santino, nascosto in una località protetta fuori dalla Sicilia, riceve la notizia e decide di continuare a collaborare con la giustizia.

Con il passare del tempo i tormenti del padre diventano sempre più debordanti: nessuno ha notizie di Giuseppe, e lui sa bene che quando Cosa Nostra nasconde una persona, adulto o bambino che sia, il suo ritrovamento è pressoché impossibile. Decide quindi di agire per conto proprio, allontanandosi dalla sua abitazione nascosta per tornare in Sicilia alla ricerca del figlio. Chiama i fidati Gioacchino La Barbera e Baldassare Di Maggio, anche loro collaboratori di giustizia, e comincia la sua personale investigazione. Quando capisce che ogni sforzo è inutile, però, si riconsegna alla protezione della giustizia, conscio che probabilmente il figlio non verrà mai più ritrovato, per lo meno non da vivo.

Intanto Giovanni Brusca viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, avvenuto nel 1992. Salvo era un esponente della Democrazia Cristiana molto vicino a Giulio Andreotti e a Salvo Lima, nonché uomo dei Corleonesi insieme al cugino Antonino. Entrambi arrestati da Giovanni Falcone nel 1984, Salvo ottiene una riduzione della pena ed esce di galera dopo tre anni, venendo subito contattato da Riina per cercare di ottenere l’annullamento in Cassazione della sentenza del maxiprocesso. Non avendo portato a termine la missione, subisce l’ira di Riina che ne ordina l’omicidio, eseguito tra gli altri proprio da Brusca. La magistratura arriva a queste conclusioni grazie anche alla testimonianza di Santino Di Matteo. Brusca, in quel momento latitante, è al corrente del ruolo di Di Matteo nella sentenza sull’ergastolo, e decide di fargliela pagare ordinando ai suoi uomini di uccidere il figlio. È il 1996.

Vincenzo Chiodo, uno dei carcerieri di Giuseppe, chiede al bambino di mettersi in un angolo del bunker dove è nascosto, ai bordi del letto. È insieme a Enzo Brusca, fratello di Giovanni, e a Giuseppe Monticciolo. Chiodo afferra il bambino da dietro e gli mette una corda al collo, mentre Monticciolo gli tiene le gambe e Brusca le braccia. Le ultime parole che Giuseppe Di Matteo ascolta sono quelle di Brusca: “Mi dispiace, tuo papà ha fatto il cornuto”. E viene strangolato.

Chiodo spoglia Giuseppe e gli toglie l’orologio, poi va a versare l’acido in un fusto. Gli tremano le gambe. Brusca e Monticciolo lo aiutano a prendere il bambino e a gettarlo nell’acido, poi salgono al piano di sopra. Baciano Chiodo complimentandosi per il lavoro svolto, e dopo qualche minuto gli chiedono di andare a controllare il fusto. Quando lui scende, vede che l’acido ha già fatto quasi completamente effetto. Questa è la testimonianza diretta di Vincenzo Chiodo, arrestato nel 1996 e diventato collaboratore di giustizia, che si conclude con una frase lapidaria: “Poi siamo andati tutti a dormire”.

Dal verbale di Chiodo, padre di famiglia, viene fuori questa frase: “Non so se i miei figli mi possono perdonare, a volte non ho il coraggio di guardarli. Io mi ricordo il bambino, ricordo giornalmente la faccia, ce l’ho sempre davanti agli occhi”. Dopo soli undici anni di carcere, nel 2007 gli vengono concessi gli arresti domiciliari. Inoltre, durante le scarcerazioni dell’epidemia di Covid, ottiene i domiciliari anche Franco Cataldo, uno degli altri carcerieri di Giuseppe Di Matteo. Poi la Corte d’Appello di Palermo si rende conto dell’errore e dispone nuovamente il carcere per Cataldo, ma intanto Chiodo, esecutore materiale dell’omicidio è fuori dal carcere da tredici anni.

Due anni dopo la morte di Giuseppe, nel 1998, al palazzo di Giustizia di Como si incontrano Santino Di Matteo e Giovanni Brusca, il padre del bambino e il mandante dell’omicidio. Sono in atto le udienze del processo bis per la strage di Via D’Amelio, quando nel 1992 vennero uccisi Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta, e Di Matteo non riesce a trattenersi. Prima ricorda i trascorsi di Brusca con suo figlio: si presentava a casa sua e lo faceva giocare in giardino, pochi anni prima di ordinarne l’omicidio. “Animale, non sei degno di stare in quest’aula”, urla con rabbia Di Matteo. “Ti dovrei staccare la testa”. Il clima diventa rovente e l’udienza viene sospesa. Quando riprende, Di Matteo viene invitato a calmarsi, gli spiegano che ha avviato una collaborazione con la giustizia, ma quest’ultimo si rivolge al giudice Pietro Falcone: “Lei è padre di figli, dovrei staccargli la testa”. Brusca intanto è protetto da una schiera di poliziotti, Di Matteo lo perde di vista. “Me lo deve far vedere, lui è più animale di Riina. Mi ha cercato per cinque anni, invece ha trovato un bambino. Me lo mangio vivo”. All’improvviso Di Matteo esplode. Urla: “Stu figghiu e’ buttana, afferra il microfono e lo lancia contro Brusca, poi si alza e prova a saltargli addosso. Gli agenti di polizia lo fermano. Il commento di Brusca riguardo l’omicidio di Giuseppe Di Matteo viene scritto sul verbale e poi fa il giro di tutto il Paese: “Oggi qualsiasi giustificazione sarebbe inutile. In quel momento non ho ragionato”.

Brusca, che oltre a Giuseppe Di Matteo si è macchiato di centinaia di omicidi ed è stato colui che ha premuto il pulsante che ha fatto saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, è in seguito diventato un collaboratore di giustizia. A Rebibbia, dal 1996, Brusca ha ottenuto nel 2004 dei permessi premio per buona condotta: un’uscita ogni 45 giorni per incontrare la famiglia in un luogo protetto, nonostante le proteste e l’indignazione dell’opinione pubblica. Ha perso questo beneficio perché è stato beccato a usare un telefono cellulare. Diversamente, uno dei più feroci assassini del Ventesimo secolo avrebbe potuto continuare a usufruire di questo premio, concesso dal Magistrato di Sorveglianza

Santino Di Matteo è uscito dal carcere nel 2002. Oggi afferma: “Giovanni Falcone diceva che ogni cosa ha un inizio e una fine. Il mio inizio è stato il buio, ho ucciso guardando chi stavo uccidendo, ho vissuto nel dolore e nella morte. Ma la mia fine sarà la luce”. Suo figlio, un innocente che ha vissuto tre anni della sua breve vita nascosto nei bunker per poi finirla strozzato e sciolto nell’acido, ha avuto l’unica colpa di essere nato in un ambiente che non conosce l’onore, ma solo i codici di quel dolore e di quella morte che non raggiungeranno mai la luce. E noi non dobbiamo mai dimenticarlo.

 

fonte:https://thevision.com/