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Il magistrato e il capitano

Il magistrato e il capitano

di Angiolo Pellegrini

25 Maggio 2019

La tacita intesa di due solitudini. Sguardi, battute, gesti che valgono più di ringraziamenti e di esplicite approvazioni, l’incondizionata fiducia nello Stato, il ritrovarsi fianco a fianco dalla parte della giustizia; era questa l’amicizia tra l’uomo Giovanni Falcone e l’uomo Angiolo Pellegrini.

Nel capitolo “I miei ricordi con Falcone” troviamo la testimonianza del generale dei Carabinieri Angiolo Pellegrini che, neanche quarantenne, assunse il comando della sezione Anticrimine di Palermo dal 1981 al 1985. Soprannominato dai suoi “Billy the Kid”, Pellegrini guadagnò ben presto la fiducia di Falcone grazie alla proposta di un nuovo metodo investigativo, che poneva al centro la tracciabilità degli spostamenti delle grandi somme di denaro in mano alla mafia, un modo per poter ricostruire una mappa della criminalità organizzata, una macchia d’olio che dalla Sicilia si allargava in tutto il mondo.

Ancora, fu Pellegrini a consegnare al magistrato il primo rapporto Michele Greco + 161, una documentazione che si rivelò fondamentale per il Maxiprocesso, che con la sentenza finale della Cassazione vedrà confermati 19 ergastoli per un totale di 2665 anni di reclusione. Un’operazione immensa.

Definito dal capitano come «lo scienziato dell’attività istruttoria e investigativa», Falcone era un magistrato capace di intuire i meccanismi mafiosi fino ad allora sconosciuti alle autorità: alla fine degli anni Settanta mancava ancora una visione globale poiché i crimini erano trattati troppo spesso come casi singoli, isolati. Lo scambio di informazioni cartacee tra i vari paesi era lento e spesso per errore finiva dimenticato in un cassetto. Falcone aveva colto la necessità di un confronto diretto con l’altro: bisognava spostarsi nel luogo dell’indagine, fosse anche oltreoceano. Era rigoroso negli accertamenti, preciso, verificava ogni dettaglio per allontanare qualsiasi possibile dubbio della corte.

Furono quattro anni di intenso lavoro, ma alla fine, composte tutte le tessere del mosaico, Giovanni Falcone e la sua squadra riuscirono a dimostrare che Cosa Nostra aveva un’organizzazione unitaria, verticale, con appendici in tutto il mondo. Per la prima volta la giustizia fece breccia nella rete mafiosa, moltissimi furono condannati e la popolazione se ne accorse. Sta forse qui il merito più grande di Falcone, Borsellino, Pellegrini e di tutti quelli che hanno dedicato la vita alla lotta contro la criminalità: l’aver dato alle persone la speranza di un cambiamento e di aver risvegliato le coscienze civili latenti.Ma il racconto di anni di collaborazione professionale e intensa lotta alla mafia tra un capitano e un magistrato si sofferma sull’assunto che entrambi prima di tutto erano uomini. Uomini come noi, che una sera sfuggirono alla scorta per perdersi tra le vie di Roma e sentire il profumo della libertà, che malgrado ci fosse sempre qualcuno a remare contro, non si diedero mai per vinti. Uomini capaci di scelte che li hanno resi degli eroi.

Falcone poteva dare l’impressione di essere freddo, serio, chi lo conosceva sapeva però che la sua era solo una profonda consapevolezza. Consapevolezza del peso di una toga che difficilmente una volta indossata si riesce a togliere a proprio piacimento, consapevolezza dei rischi e della responsabilità dello Stato nei riguardi dei cittadini. C’è affetto nei ricordi di Pellegrini che racconta a parole un amico che invece parlava poco, ma che preferiva trasmettere la sua approvazione e la sua fiducia prestando una penna stilografica, una delle passioni segrete del magistrato.

Tra le righe anche un velo di amarezza: non è facile essere uno dei pochi sopravvissuti. La casualità della vita ha voluto che quel fatidico 23 maggio 1992, il comandante Pellegrini atterrasse a Punta Raisi poco dopo Falcone, e che i due non facessero il tragitto in macchina insieme, come spesso invece capitava. Che si dica “destino” o “fortuna”, è difficile non interrogarsi sul corso degli eventi, e su quali siano le responsabilità e i doveri dei superstiti. Avere avuto l’onore e il privilegio di essere stato al fianco di Giovanni Falcone si riflette nell’obbligo morale di trasmetterne la memoria, portando avanti i suoi ideali, i suoi metodi vincenti, le sue stesse parole.

Giovanni Falcone non si sentì mai sconfitto: anche dopo la chiusura del pool antimafia, dopo aver accettato il trasferimento a Roma, dopo gli attacchi dei giornali, sapeva di essere nel giusto e che la strada da seguire ormai era stata tracciata. Molti lo giudicarono battuto, condannato all’isolamento, Pellegrini racconta però che in un suo personale momento di sconforto dopo i funerali del giudice Scopelliti, in uno dei tanti viaggi in macchina, Falcone con determinazione e speranza gli disse: “Vinti? Mai! […]”.

Il magistrato Falcone ha firmato pagine di storia del nostro paese, è stato testimone di giustizia e instancabile ambasciatore di verità, senza di lui la lotta alla mafia probabilmente non esisterebbe così come la intendiamo oggi. Ma l’uomo Giovanni non è stato da meno: ha combattuto un mostro enorme e malgrado la morte ne è uscito vincitore, lasciando in eredità a tutti noi il valore del coraggio.

 

(sintesi di Eleonora Bitti )

 

fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/