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Il Golpe Borghese, l’ordine revocato e l’ombra del Sistema criminale

Il Golpe Borghese, l’ordine revocato e l’ombra del Sistema criminale

Aaron Pettinari

08 Dicembre 2020

di Aaron Pettinari

Cinquant’anni fa, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, il “principe nero” Junio Valerio Borghese, capo dell’organizzazione di estrema destra Fronte Nazionale, guidò un tentativo di colpo di Stato.
Con l’operazione “Tora Tora” (questo il nome in codice) i golpisti riuscirono ad entrare nell’armeria del Ministero dell’Interno.
Poi, all’improvviso, prima che l’intera operazione fosse completata, una telefonata bloccò l’intero progetto. Perché quello stop improvviso?
Una domanda che, a distanza di anni, è rimasta sempre sullo sfondo della nostra storia.
I pezzi fin qui ricostruiti dall’analisi di documenti e testimonianze dimostrano qualcosa di ben più grande rispetto ad una semplice narrazione farsesca per cui dietro a quell’intento c’era solo qualche vecchio nostalgico del fascismo e del Duce.
Per comprendere quanto avvenuto è necessario riannodare i fili ed inquadrare il “Golpe Borghese” nel contesto storico di quegli anni: ovvero quelli della strategia della tensione.
In un Mondo diviso in due blocchi (quello americano e quello sovietico) anche in Italia si giocava una partita per impedire al partito comunista di sedere negli scranni del potere.
Tra il 1969 ed il 1974, infatti, il Belpaese è stato colpito al cuore da stragi e delitti come quella di Piazza Fontana, Piazza della Loggia o l’Italicus, per citare le più note.
E in quell’estate del 1970, a Reggio Calabria andò in scena una vera e propria guerriglia, che trovava motivazioni ben maggiori rispetto alla decisione calata dall’alto di assegnare a Catanzaro il ruolo di Capoluogo di Regione.
Scontri che durarono per mesi e che passeranno alle cronache come “I Moti di Reggio”.
Stragi e delitti “destabilizzanti” messi in atto per “stabilizzare” ulteriormente il potere.
E in questo contesto vanno anche inseriti quei tentativi di Golpe, “abortiti” solo all’ultimo, che hanno visto il coinvolgimento di quel medesimo Sistema criminale, fatto di eversione nera, servizi segreti, massoneria e mafie, che si siederà attorno ad un tavolo per pianificare le stragi degli anni Novanta.
Ma andiamo con ordine.

Il ruolo di Junio Valerio Borghese
Ovviamente un ruolo di protagonista in quella lunga notte lo ha recitato il “principe nero”
 Junio Valerio Borghese. Già comandante della famigerata Decima Mas, gli incursori di Marina specializzati in azioni con i sommergibili contro gli alleati e poi spietati nei rastrellamenti di partigiani e di civili nella Seconda Guerra Mondiale e per la Repubblica Sociale di Benito Mussolini, nelle frange di estrema destra era visto come un’icona.
Un soggetto vicino anche agli “americani”, tanto che nel dopoguerra era stato salvato dal
colonnello Angleton, responsabile dei servizi segreti militari USA, con cui era poi rimasto in buoni rapporti.
Per anni Borghese era stato il naturale riferimento dell’interventismo neofascista e svolgeva un ruolo in chiave anticomunista.

La notte del golpe
Il piano era semplice. L’idea principale era quella di occupare nella Capitale ministeri chiave come quello degli Interni, della Difesa e la sede della Rai in via Teulada. Ma c’era anche l’idea di rapire il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat ed il capo della Polizia Angelo Vicari.
Per farlo si erano mobilitati 187 forestali e alcune decine di militanti neofascisti di Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo e del Fronte Nazionale di Borghese.
Non solo. Un reparto militare regolare al comando del colonnello Amos Spiazzi avrebbe dovuto occupare Sesto San Giovanni, roccaforte comunista vicino a Milano.

Lo stop
Borghese, in caso di successo del golpe, aveva già pronto un comunicato da leggere in diretta televisiva al popolo italiano in cui si asseriva che “le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi”.
In quella stessa notte dell’Immacolata, però, poco dopo l’una l’operazione venne improvvisamente sospesa e lo stesso principe nero impose a forestali, paracadutisti, avanguardisti e ordinovisti di smobilitare.
E pensare che un paio di giorni prima, in un’intervista a Giampaolo Pansa, Borghese si era persino esposto in prima persona, rispondendo ad una domanda proprio sulla possibilità di un Colpo di Stato. “Forse occorrerà un colpetto o forse nemmeno un colpetto. Noi ci verremmo a inserire, praticamente senza colpo ferire, in quel vuoto che esiste già fin d’ora” aveva affermato in maniera oscura.
Dove erano finite le “forze armate”, quelle “dell’ordine” e quei “competenti e rappresentativi uomini della nazione” che erano favorevoli all’operazione?

Le indagini
Del fallito o meglio sospeso tentativo di rovesciare la democrazia l’opinione pubblica seppe solo nel marzo 1971 con lo scoop del quotidiano Paese Sera, giornale vicino al Pci, ed i primi arresti per insurrezione armata. Sotto accusa, oltre al comandante, anche l’ex paracadutista e membro dell’ufficio informazioni del corpo dei paracadutisti Sandro Saccucci, Stefano Delle Chiaie, ex esponente storico della destra neofascista e leader di Avanguardia Nazionale, e il costruttore Remo Orlandini che i dispacci dei servizi Usa descrivevano come membro delle Brigate Nere a Parma durante la Resistenza e “responsabile di vari omicidi”.
C’erano anche altri soggetti coinvolti ed alcuni riuscirono a fuggire dal Paese così come fece lo stesso Borghese, che trovò riparo in Spagna dal'”amico” re Franco. Morì nel 1974, a Cadice, dopo avere annunciato il rientro in Italia con clamorose rivelazioni.
Avrebbe parlato anche del Golpe? Difficile dirlo.
Quel che è certo è che le indagini su quel tentativo di Colpo di Stato non furono affatto semplici. Sempre nel ’71 la procura di Roma archiviò il fascicolo per mancanza di prove. Però, sulla base di informazioni raccolte dai servizi del Sid, l’istruttoria fu riaperta e 78 persone vennero rinviate a giudizio.
Il processo si concluse nel 1984 con l’assoluzione di tutti gli imputati di peso con la formula “perché il fatto non sussiste” mentre vennero ridotte le condanne ad alcuni imputati minori che si riferivano ai reati di detenzioni e porto abusivo di armi.
Il 24 marzo 1986 la Cassazione confermò definitivamente l’assoluzione generale.
Da quel momento si diffuse la vulgata per cui il “golpe” sarebbe stato solo frutto della demenza senile di qualche attempato.
Nei primi anni Novanta, però, emerse ben altro. E a ricordarlo è stato qualche giorno fa il magistrato di Piazza Fontana, Guido Salvini.
Il magistrato, in un’intervista all’Adnkronos, ha ricordato come durante un’indagine sulle stragi degli anni sessanta e settanta, soprattutto la strage di Piazza Fontana e gli altri episodi eversivi di quella stagione, davanti alla Procura di Milano si presentò il capitano Antonio Labruna, ex agente del Sid implicato in diversi depistaggi iscritto alla Loggia massonica P2 (numero di tessera 502).
Antonio Labruna si presentò da me nei primi anni Novanta con una vecchia borsa impolverata, era stato uno dei pochi condannati nel processo di piazza Fontana per i depistaggi del Sid, si sentiva un capro espiatorio che aveva pagato per tutti. Era stato degradato e cercava un riscatto, una riabilitazione. Il suo ex superiore Maletti si era rifugiato in Sudafrica e, all’interno dei Servizi, molti legami di fedeltà si erano rotti. La borsa di Labruna conteneva grosse bobine magnetiche con le registrazioni dei suoi colloqui con i congiurati del ‘Golpe Borghese'”.
“A differenza delle registrazioni sulle quali i magistrati romani avevano lavorato negli anni Settanta e che erano state materia di perizie incomplete, nei nastri che ci portò Labruna si facevano nomi imbarazzanti che non risultavano dalle registrazioni fornite in precedenza ai magistrati”. Nomi ha ricordato ancora il magistrato come “quelli dell’ammiraglio Torrisi, che in seguito divenne capo di Stato maggiore della Difesa, e soprattutto di Licio Gelli, incaricato di agire durante il golpe sequestrando il presidente della Repubblica Saragat, e del gruppo di mafiosi che doveva sequestrare il capo della Polizia Angelo Vicari“.
Dunque alla magistratura era stata fornita in un primo momento una versione monca delle registrazioni, epurata di quei nomi che, pur partecipi al complotto, andavano necessariamente tutelati.
Salvini ha anche sottolineato come dai nastri consegnati da Labruna “emerse che l’operazione del dicembre 1970 non era rimasta geograficamente circoscritta a Roma. Emergeva che contemporaneamente a quelle in corso nella capitale ci furono concentrazioni eversive a Milano, Venezia, in tutto il Centro Italia, in Calabria come in Sicilia. In tutto si mobilitarono migliaia di uomini tra militari e civili”. Elementi assolutamente sufficienti a smentire le sentenze che avevano precedentemente sminuito il golpe stesso.

I contatti con gli Usa
A corroborare il racconto di Salvini vi sono anche le carte qualche anno addietro desecretate dagli Stati Uniti d’America.
Da queste emergono i contatti nell’agosto del 1970 tra il principe Borghese e l’ambasciata americana proprio per sondare i margini di un eventuale appoggio o benestare di Washington all’operazione.
Tra i documenti vi sono anche 5 informative che l’ambasciata americana a Roma, spedisce a Washington tra l’Agosto e il Settembre 1970, in cui emerge in maniera chiara come gli americani fossero informati del colpo di Stato. Tra le informative si fa riferimento ai cospiratori.
E’ in questi carteggi che emergono i nomi Adriano Monti, uno dei congiurati ed ex medico di Rieti, e Ugo Fenwich, importante uomo d’affari americano, in contatto con l’ambasciatore americano a Roma Graham Martin.
Martin a sua volta, avrebbe inviato le informative a Henry Kissinger, segretario di Stato di Richard Nixon.
In un documento dell’aprile 1971 Martin rilevava che “la presente attitudine pubblica è di divertita incredulità (amused disbelief) che un’operazione infantile abbia rappresentato una minaccia per lo Stato” ma al contempo conferma l’esistenza del golpe («the plan does exist») e gli attribuisce il 70 per cento di probabilità di riuscita, se ritentato con l’appoggio dei carabinieri e dell’esercito.
Dunque gli americani seguivano passo passo ogni fase dell’operazione.
In un’intervista a La Repubblica, Adriano Monti ha riferito che gli americani (la Cia) non avrebbero opposto un “no categorico” al Golpe.
“Non volevano che nell’operazione venissero coinvolti civili o militari statunitensi di stanza di Italia – ha raccontato – Esigevano che al piano partecipassero Carabinieri, Esercito, Aeronautica e Marina. Chiedevano poi la formazione di un governo presieduto da una personalità della Dc che godesse della fiducia degli Stati Uniti e che entro un anno avrebbe dovuto convocare elezioni dalle quali fossero però esclusi comunisti e sinistre estremiste”.
Chi sarebbe dovuto essere il politico? A detta di Monti sempre lui, il “Divo”, Giulio Andreotti, anche se non era a conoscenza di un coinvolgimento diretto.
Certo è che Andreotti in quel dicembre 1970, per la prima volta dal 1947, non rivestiva alcuna carica governativa. Ma è un dato di fatto che proprio lui, nel 1974, in qualità di ministro della difesa, consigliò di “sfrondare” i nastri del Sid, in cui si parlava di Gelli e della P2, prima di passarlo alla magistratura.

Il coinvolgimento della mafia
A completare il “quadro” delle forze che erano state coinvolte nel Colpo di Stato del 1970 vanno inserite anche Cosa nostra e la ‘Ndrangheta.
Del coinvolgimento della Mafia al progetto, hanno parlato collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta ed Antonino Calderone. Ed anche il capomafia Luciano Liggio ne fece riferimento durante il Maxi Processo.
Sul piatto c’era la concessione di un’amnistia e l’alleggerimento delle situazioni processuali di alcuni importanti Boss mafiosi. Se in un primo momento si decise di aderire al colpo di Stato, il “No” definitivo giunse nel momento in cui venne chiesta una lista con l’elenco di tutti i mafiosi.
Ma contatti vi furono anche con la criminalità organizzata calabrese. A Reggio Calabria spesso facevano visita i proconsoli di Junio Valerio Borghese, Stefano Delle Chiaie, uno dei registi della strategia della tensione, e Pierluigi Concutelli (terrorista nero e capo dell’organizzazione eversiva Ordine Nuovo, autore materiale dell’omicidio del giudice Occorsio e di altri fatti di sangue) e non è un caso se alla guida dei “Moti di Reggio” vi sono proprio i fascisti.
E non è un caso se è in quegli anni che si saldano i legami tra una certa destra eversiva e quella criminalità organizzata che da lì a poco, dopo la seconda guerra di ‘Ndrangheta, compie il salto integrandosi con un pezzo di classe dirigente locale, i costruttori, i politici, i massoni.
Dalle inchieste e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è ormai chiaro che è in quel momento che nasce la Santa, una struttura in cui i boss si misurano e si confrontano con politici, affaristi, uomini dello Stato ed esponenti dei servizi segreti.
Il pentito Stefano Serpa ha raccontato dei summit cui parteciparono proprio Pierluigi Concutelli, Stefano Delle Chiaie, lo stesso Junio Valerio Borghese, il marchese Fefè Zerbi, indicato come uno dei principali finanziatori del fallito colpo di Stato dell’8 dicembre ’70, animatore dei Moti di Reggio e principale referente in città di Avanguardia nazionale; Sandro Saccucci.
“I De Stefano avevano rapporti strutturati con questi soggetti – aveva raccontato Serpa – è stato don Paolo a portarli al summit di Montalto. I De Stefano avevano entrature dappertutto. Allora, ieri e ritengo anche adesso. Le ho vissute personalmente”.

Il sistema criminale integrato
Rapporti che verranno mantenuti anche negli anni successivi, nonostante il golpe abortito.
Quel mix tra mafie, servizi, destra eversiva e massonerie tornerà protagonista anche nelle stragi successive, fino ad arrivare a quella strategia stragista degli anni Novanta.
E’ dunque logico affermare che se il golpe non ebbe luogo è solo perché in quel preciso momento storico non era più ritenuto funzionale per le logiche dello stesso.
Del resto il crollo del muro di Berlino, con la successiva dissoluzione dell’Urss era ancora lontana.
Tenuto conto di quel che avverrà successivamente, con i ruoli da protagonisti che certi soggetti avranno nella storia del Paese, dalla politica alle stragi, è lecito pensare che in quel tentativo di golpe furono gettate nuove basi per il futuro, creando il giusto collante per rafforzare un “sistema”, anziché scardinarlo.
Mettendo in scena quel metodo “usa e getta” di loschi figuri che via via si perdono nella scacchiera. Era accaduto con Salvatore Giuliano dopo Portella della Ginestra. E’ accaduto poi con Salvatore Riina dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio. Potrebbe essere stato così anche per Junio Valerio Borghese. Sacrificato in nome del Sistema criminale.

fonte:https://www.antimafiaduemila.com/