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. I padrini dall’Australia: la ‘ndrangheta radicata nella terra dei canguri.Storie di una mafia diventata globale. E paradossi di una giustizia che resta locale.

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L’Espresso, Venerdì 13 gennaio 2017.I

I padrini dall’Australia: la ‘ndrangheta radicata nella terra dei canguri
Tra Melbourne, Sidney, Adelaide, Perth e Griffith, i clan della provincia di Reggio Calabria hanno replicato metodi e business. Un rifugio sicuro dalle leggi italiane. Così come lo è il Canada, “zona franca” raccontata nel prossimo numero dell’Espresso in edicola da domenica 15 gennaio

di Giovanni Tizian

Un omicidio può dire molte cose. Specie se la vittima è un avvocato di successo, che viveva a Melbourne e difendeva mafiosi calabresi trapiantati in Australia. Per questo il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro lancia messaggi tutti da decifrare, che sono senza ombra di dubbio la chiave per entrare nella dimensione più recente della ‘ndrangheta in Oceania. Un’organizzazione globale. Che, come raccontiamo nel prossimo numero in edicola domenica 15 gennaio, ha colonizzato anche il Canada, trasformandolo in una sorta di rifugio dei padrini.

Una vera e propria “zona franca”, così la definisce il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, dove è impossibile persino catturare un latitante. Perché il codice canadese non prevede il reato di associazione mafiosa e quindi quelli che per le nostre procure sono pericolosi ricercati non lo sono per le autorità nordamericane. Insomma, Canada e Australia terre promesse della ‘ndrangheta international. Non a caso il cartello criminale – di cui parliamo nell’inchiesta su “l’Espresso” in edicola- dal nome “Siderno Group of Crime” è lo stesso che ha inviato propri uomini pure nella terra dei canguri. E qui, a Melbourne, l’omicidio di “Pino” Acquaro, l’avvocato, è la spia, l’ennesima, di un potere che i clan ostentano senza preoccupazione.

Acquaro, oltre che professionista stimato, è stato presidente della camera di commercio italiana a Melbourne e membro del Reggio Calabria club. Le indagini sull’omicidio avvenuto il 16 marzo scorso nel quartiere italiano di Melbourne proseguono. Ma alcune tracce, da quanto risulta all’Espresso, portano proprio in Italia. E benché siano solo sospetti, le verifiche svolte dai nostri detective hanno messo a fuoco degli “strani” viaggi di ritorno di alcuni personaggi legati ai clan calabresi con solide basi nella terra dei canguri.

Indizi che raccontano di sospetti pariti da Melbourne per rientrare in Calabria nei giorni immediatamente successivi all’omicidio. In episodi del genere, del resto, nulla è lasciato al caso. Per di più se non è l’unica anomalia in tutta questa vicenda. Tra gli elementi in possesso della nostra Antimafia anche un incontro avvenuto circa sette giorni prima dell’omicidio tra l’avvocato dei boss australiani e un narcos calabrese, Antonio Vottari, ricarcato dal 2011 per aver importato in Italia diverse tonnellate di cocaina. Acquaro e Vottari si sarebbero incontrati a Melbourne. Qualche giorno dopo il trafficante è salito su un aereo. Ma arrivato a Fiumicino è stato catturato dai carabinieri.

Come nel più remoto dei paesi della Calabria o del Nord Italia, anche in Australia la ‘ndrangheta affilia sindaci, avvicina politici nazionali, corrompe funzionari pubblici. E uccide. Nell’ultimo anno, per esempio, le pistole dei clan hanno fatto fuoco per ben due volte. Il primo a cadere è stato l’avvocato Joseph “Pino” Acquaro. L’ultimo boss ammazzato, invece, a novembre scorso: Pasquale “Path” Barbaro, giovane ma con un pedigree criminale di tutto rispetto, oltre che legami di sangue diretti con i padrini più anziani.

Correva l’anno 1920. Nel porto di Melbourne attraccavano i primi battelli carichi di italiani. Tra questi, confusi tra chi emigrava alla ricerca di un lavoro onesto, c’erano anche i pionieri della ‘ndrangheta australiana. Tra tre anni, dunque, le cosche calabresi festeggeranno i cento anni di storia in Oceania. La global ‘ndrangheta, in questo, ha anticipato persino la globalizzazione dei mercati. Eppure, come in Canada, anche in Australia, c’è chi continua a fare finta di niente. E neanche gli omicidi eccellenti o le relazioni con il potere politico scoperte da alcuni giornalisti di Melbourne hanno innescato una lotta senza quartiere ai clan della mafia calabrese, che qui spesso viene ancora chiamata “Honoured society”, etichetta vintage e decisamente impregnata di folklore.

Anna Sergi è una criminologa esperta di ‘ndrangheta nel mondo, in particolare in Australia. Insegna all’università di Essex, in Inghilterra. Ma collabora con un rivista specialistica australiana. In un suo recente articolo ha descritto esattamente le diverse sfumature con cui i clan operano nella terra dei canguri. In sintesi ha spiegato come le famiglie criminali originarie soprattutto della Locride, provincia di Reggio Calabria, riescano a mutare i propri codici culturali a seconda del contesto in cui “lavorano”. Una trasformazione che ha permesso di penetrare anche in ambienti politici ed economici di grande peso. La capacità di entrare negli ambienti che contano ha portato molti vantaggi ai boss calabresi trapiantati in Australia.

In un caso avrebbero persino ottenuto coperture da un ex ministro, e ancora prima, negli anni ’80, da altri politici locali. Uno dei primi detective a recarsi in Australia alla fine degli anni ’80 fu il poliziotto Nicola Callipari, poi ucciso dai soldati americani nel 2005 in Iraq durante la liberazione della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Già ai tempi della missione di Callipari erano evidenti le connessioni con il potere locale. Negli anni queste interferenze sono emerse sfociando anche in scandali i cui riverberi hanno raggiunto l’Italia.

Il gap legislativo che esiste tra Italia e Australia è incolmbabile. Ciò che accade nei rapporti con il Canada si ripete nella difficile cooperazione con la polizia australiana. Quelli che per noi sono latitanti, per loro spesso non lo sono. Con situazioni paradossali. Come nel caso di Tony Vallelonga, per ben quattro volte sindaco di un sobborgo di Perth. Vallelonga in Australia è un personaggio noto, oltre alla politica è molto attivo nella comunità religiosa e negli anni è diventato un punto di riferimento della comunità italiana.

I pm della procura antimafia di Reggio Calabria lo hanno indagato per associazione mafiosa. Fosse stato residente in Italia l’avrebbero arrestato, ma vista la distanza non hanno potuto fare di più. Il fatto è che continua a stare lì. E si difende dalle accuse: non è un membro della ‘ndrangheta international, dice.  Nonostante le intercettazioni lo inchiodino mentre discute in Calabria, in uno dei suoi viaggi, con il grande capo della’ ndrangheta tutta, che manco a dirlo è di Siderno.

È qui che le cimici hanno registrato diversi summit all’interno della lavanderia di proprietà del padrino Giuseppe Commisso detto “u Mastru”, il maestro. Lo stesso che fa da stella polare agli affiliati di stanza in nordamerica. Tony l’ex sindaco e “u Mastru” discutevano di questioni organizzative dei clan.

Un altro caso che ha provocato forti frizioni tra le autorità è quello del narcos condannato dal tribunale di Catanzaro a 25 anni per traffico internazionale di cocaina. Si chiamava Nicola Ciconte ed era il trafficante delle ‘ndrine tra Melbourne, Sydney e Perth. Non ha scontato neppure un giorno dietro le sbarre, perché le autorità locali non hanno mai dato il via libera all’estradizione. Cavilli giuridici, prove non utilizzabili dai tribunali australiani, nonostante fosse accusato dai magistrati calabresi di aver importato in Australia 500 chili di cocaina dalla Colombia tramite la rete della ‘ndrangheta globale. È morto qualche anno fa da uomo libero in seguito a una malattia contratta in Cambogia.

Storie di una mafia diventata globale. E paradossi di una giustizia che resta locale.