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I negoziati con la mafia passo dopo passo

I negoziati con la mafia passo dopo passo

8 Settembre 2019

Si è visto sopra,[…], che può ritenersi provato, oltre ragionevole dubbio, che fu proprio l’improvvida iniziativa dei Carabinieri del R.O.S. ad indurre Riina a tentare di sfruttare ai propri fini quel segnale di debolezza delle Istituzioni che gli era pervenuto già dopo la strage di Capaci.

Costituisce, infatti, dato assolutamente incontestato ed incontrastato che già nei giorni immediatamente successivi alla detta strage il Cap. De Donno, su disposizione del suo superiore Col. Mori, ebbe a contattare Vito Ciancimino.

Ciò, infatti, risulta inequivocabilmente dalle dichiarazioni rese dagli stessi Mori e De Donno già nella testimonianza nel processo di Firenze.

Il detto momento iniziale dei contatti con Ciancimino, peraltro, viene sostanzialmente confermato da Mori e De Donno anche in una più recente conversazione telefonica intercettata 1’8 marzo 2012 ed acquisita agli atti, nonostante, tuttavia, i predetti, essendo in quel momento già nota l’indagine ed avendo la chiara consapevolezza di potere essere, appunto, intercettati […], tentino di ridimensionare tali contatti al fine di escludere il collegamento tra la propria iniziativa e l’uccisione del Dott. Borsellino (v. intercettazione citata quando, ad un certo momento, De Donno dice:”Quindi non siamo noi. Cioè, ammesso che i nostri contatti volessero essere ipotizzati come trattativa, non siamo noi, perché giugno … lui lo sa a giugno e noi a giugno non stavamo ancora a parlare con Ciancimino … …….. ma loro l’unico riferimento che fanno a noi è il fatto che dice che Borsellino sapeva della … dei contatti del ROS, perché glielo dice la Ferraro … ……. però, voglio di’ sono i contatti, cioè noi non stavamo discutendo con Ciancimino, quindi non si può ipotizzare che fosse quello … “; mentre Mori, ben consapevole, come si vedrà più avanti, a differenza di De Donno, degli sviluppi successivi di quei contatti, fa un fugace ma significativo riferimento all’avvicendamento al D.A.P. di cui si dirà nel Capitolo successivo: “ma no, ma il problema è questo … io penso che questo dipenda dal fatto che loro individuano a giugno il problema, quando viene tolto Amato e messo Capriotti, no? Che poi il 26 di giugno fa quel documento e innova un pochettino…”).

Ma, in ogni caso, che la finalità di quei contatti con Ciancimino fosse quella di utilizzare quest’ultimo (se non esclusivamente, quanto meno anche) quale canale di collegamento con i vertici mafiosi per sondare gli intendimenti degli stessi e tentare di porre termine a quell’attacco frontale che appariva foriero di ulteriori gravissimi lutti, risulta inequivocabilmente dimostrato dai contatti pressoché parallelamente intrapresi degli stessi Mori e De Donno con l’eventuale controparte istituzionale dei mafiosi e, dunque, con soggetti (la Dott.ssa Ferraro e la Dott.ssa Contri) in grado di informare (come in effetti fecero) rappresentanti del Governo principalmente interessati (rispettivamente il Ministro della Giustizia e il Presidente del Consiglio) per ottenere la relativa e necessaria “copertura politica” (v. Parte Terza, Capitolo 6 e, per alcune più specifiche conclusioni, il paragrafo 6.3).

Di ciò si è dato ampiamente conto nei Capitoli precedenti.

Sotto altro profilo, invece, risulta provato che certamente Vito Ciancimino ebbe ad informare Riina già sin dal suo primo approccio con il Cap. De Donno (dunque a giugno 1992), tanto da essere subito “delegato” a portare avanti quel contatto ancor prima che subentrasse anche il Col. Mori (fatto, poi, come pure si è già visto sopra, oggetto di ulteriore “informativa” di Vito Ciancimino ai vertici mafiosi e di ulteriore “autorizzazione” ad andare avanti nella prospettata richiesta di “trattativa”: v. Parte Terza, Capitolo 5 e, per alcune più specifiche conclusioni, il paragrafo 5.7.3).

Orbene, se queste sono le risultanze che possono già ritenersi assodate, perde allora pressoché rilevanza ricostruire in termini di certezza temporale i successivi sviluppi dei fatti appena ricordati, sui quali, invece, non è stato possibile acquisire elementi di altrettanta sicura certezza temporale.

E ci si intende riferire, da un lato, al momento in cui Mori ebbe, poi, personalmente a sollecitare a Vito Ciancimino una “trattativa” con quelle parole esplicite già più volte ricordate (“Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”) e, dall’altro, al momento in cui a Mori fu comunicata dallo stesso Vito Ciancimino l’accettazione della “trattativa” da parte dei vertici mafiosi (” … quelli accettano lo trattativa … “).

Sull’esatta collocazione temporale di tali sviluppi fattuali, invero, v’è contrasto anche per le ambigue risultanze degli scritti e delle dichiarazioni di Vito Ciancimino e per talune (almeno apparenti) contraddizioni della ricostruzione offerta da Mori e De Donno, alcune delle quali ben messe in evidenza già anche dalla Corte di Assise di Firenze con la sentenza prima ricordata del 6 giugno 1998.

Ed in proposito non è secondario rilevare che un seppure indiretto riscontro della incompletezza – se non della quanto meno parziale falsità – della ricostruzione degli accadi menti operata da Mori e De Donno nel processo di Firenze che ha dato luogo alle contraddizioni ed alle incongruenze evidenziate dalla Corte di Assise, si rinviene in quello scritto di Vito Cianci mino classificato “06” di cui si è già detto sopra nel Capitolo 5, paragrafo 5.7.2.

E’ bene premettere che si tratta di un manoscritto originale a matita attribuito a Vito Ciancimino […]. In tale scritto Vito Ciancimino annota di essere stato citato per deporre in quel medesimo processo di Firenze dalla difesa degli imputati, che, informata dai “clienti”, voleva così “sbugiardare” Mori e De Donno (v. scritto citato nel quale, tra l’altro, si legge: ” .. . sia Mori che De Donna hanno reso falsa testimonianza al processo di Firenze, a cui sono stato chiamato a testimoniare. In sostanza, la difesa degli imputati, appunto perché informate dai loro clienti, volevano che io deponessi per sbugiardare i Carabinieri, Col. Mori e Cap. De Donno … “).

Ora, è stato riscontrato, non soltanto che effettivamente Vito Ciancimino fu citato per deporre nel processo di Firenze e che lo stesso non rispose avvalendosi della relativa facoltà, ma soprattutto che Vito Ciancimino fu citato su richiesta dei difensori degli imputati Salvatore Riina e Giuseppe Graviano.

Conseguentemente, erano questi ultimi i “clienti” che avevano informato rispettivi difensori e che volevano “sbugiardare” Mori e De Donno per quanto già testimoniato in quel processo.

Ciò consente di escludere che l’episodio sul quale, secondo Vito Ciancimino, Mori e De Donno, avevano “reso falsa testimonianza al processo di Firenze” fosse quello della richiesta del passaporto (stante il riferimento pure contenuto in quel manoscritto alla revisione del processo dallo stesso Ciancimino “battezzato del passaporto”) o altro attinente personalmente ai rapporti tra i predetti e di dedurre, per ineludibile conseguenza logica, che doveva allora necessariamente trattarsi di fatti attinenti, sì, ai detti rapporti, ma che avevano coinvolto Riina e Graviano consentendo loro di venire a conoscenza e, dunque, fatti attinenti allo svolgimento della “trattativa” in maniera “falsa” testimoniati a Firenze da Mori e De Donno.

In ogni caso, va aggiunto che neppure appare utile, al predetto fine della collocazione temporale della “trattativa”, la testimonianza di Roberto Ciancimino perché questi ha potuto soltanto collocare nel periodo successivo alla strage di via D’Amelio il momento in cui il padre Vito ebbe a dirgli di

avere avuto contatti con il Col. Mori e il Cap. De Donno (“Guardi, io non posso collocare nel tempo l’incontro tra mio fratello, mio padre e i Carabinieri. Io posso collocare nel tempo sicuramente quando mio padre mi ha informato di questi colloqui, che è stato sicuramente dopo le stragi mafiose, la strage Borsellino. Però quando mi ha informato non mi ha detto … … …. Ha detto ho avuto questi contatti per questo e questo … …… mio padre non ha detto li ho incontrati il giorno dopo, quindi non glieli so collocare. lo sono stato informato dopo”).

Più utile appare, invece, la testimonianza resa da Giovanni Ciancimino il 20 ottobre 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo, la cui trascrizione è stata acquisita su richiesta, ex art. 468 comma 4 bis C.p.p., degli imputati Subranni, Mori e De Donno e che, dunque, però, è utilizzabile solo nei confronti degli stessi.

Giovanni Ciancimino, che in questa sede si è avvalso della facoltà di non rispondere in quanto fratello dell’imputato Massimo Ciancimino, in quel processo, infatti, ritenne di testimoniare ed ha, quindi, raccontato che egli ebbe ad incontrare il padre Vito a Roma dopo circa venti o venticinque giorni dalla strage di Capaci e che fu in quella occasione che il padre gli riferì di essere stato contattato da importanti personaggi altolocati per trattare con l’« altra sponda» con ciò riferendosi ai mafiosi (”[…] P. M DOTT. DI MA TTEO: ”Lei cosa intese con riferimento ”per contattare quelli dell’altra sponda “?; DICH. CIANCIMINO G.NNI: ”Intesi la mafia. Intesi questo, intesi la mafia… … …. “L’altra sponda “, lui spesso usava il termine “altra sponda” … … … Era un suo termine, non e’ un termini che lui disse… … . … Quella volta per la prima volta, perché, le ripeto Dottore, lui non usava mai la parola mafia, mafiosi, raramente. E lì litigammo furiosamente … ……. “E’ una cosa che può agevolare tutti”, lui ribadiva, perché io subito manifestati la mia … invece lui era sicuro di quello che … lui era sicuro di quello che faceva, era molto pieno di se, era molto sicuro, era molto convinto. Tant’è che io… io non ero solito, diciamo, avere contrasti con mio padre, perché raramente avevo … anche perché mio padre era un personaggio che raramente si poteva contraddire su tutte le tematiche, non so se. Non era un persona con cui normalmente si poteva dialogare e quindi discutere serenamente, lo dico … perché lui così, e io litigai furiosamente, tant’è che me ritornai …. … … Come, litigammo furiosamente, litigammo furiosamente, e lui mi disse: “io sono stato condannato a dieci anni, vuoi che mi faccio dieci anni di carcere? “, a me vuoi che mi faccio, e che cosa c’entro io, non so se. “lo se entro di nuovo in carcere questa volta muoio, non sono in grado di sopportare una condanna di questo tipo”. E io ci dissi: “ma scusa ma io che cosa, perché non sono io il tuo interlocutore”, non so se… .. . …. Ma io ero convinto … … …. Che lui intendesse dire che lui avrebbe potuto avere dei benefici. Dei benefici, tant’è che era ringalluzzito”) o, anzi, per meglio dire, che il padre più che parlare di contatti, aveva fatto riferimento ad un incarico ricevuto (”[…] DICH CIANCIMINO G.NNI: ”Incaricato, si, investito, lui … io ebbi la sensazione che lui …… … … Si, incaricato, incaricato. Lui ha avuto un compito, io ero convinto che lui… lui diede la sensazione di avere avuto. di essere stato investito di un compito e di potere trarre benefici … “), dicendosi, poi, assolutamente certo che tale colloquio fosse avvenuto prima della strage di via D’Amelio […] anche perché egli fu poi toccato particolarmente da tale strage dal momento che lavorava, in quel periodo, a stretto contatto col fratello di Agnese Borsellino

(“DICH. C1ANCIMINO G.NNI: ”La strage di via D’Amelio a me mi tocco profondante anche più delle altre persone perché io fui colpito particolarmente da vicino da questa cosa, da questa tragedia … … … Fui colpito molto da vicino …. … …. Si. si. A parte lo sdegno che ovviamente hanno tutti per questa cosa, ma io oltre allo sdegno fui colpito da vicino … … … E glielo dico subito perché io quando ero all’ufficio legale della Cassa di Risparmio il mio, che poi il mio maestro tra l’altro, perché era più grande di me, é il capo … Noi eravamo divisi in settori all’ufficio legale, il capo del mio settore era l’avvocato N1NNI PlRAINO, fratello di AGNESE BORSELLINO. Persona con cui io praticamente stavo a contatto otto ore. Io qualsiasi cosa, qualsiasi parere, qualsiasi cosa la sottoponevo a lui. Io … era il mio diretto superiore. Persona, tra l’altro squisita.[…]”).

Ugualmente utile appare, al fine qui in esame, anche la testimonianza di Fernanda Contri già sopra riportata nel Capitolo 6, paragrafo 6.2.1 cui si rinvia.

Ma, in realtà, l’individuazione più precisa dei dati temporali presenta, in questa sede, scarsa rilevanza ai fini della verifica dell’ipotesi accusatoria oggetto della contestazione di reato formulata nei confronti degli imputati qui giudicati, poiché, come pure si è voluto già precisare sin dagli esordi di questa Parte Terza della sentenza (v. Capitolo I), tale contestazione non concerne tanto la “trattativa” (che, in sé, infatti, non ha rilevanza penale), quanto piuttosto la minaccia rivolta dall’organizzazione mafiosa al Governo della Repubblica, dal momento che è tale minaccia che, se sussistente, integra la fattispecie criminosa prevista dall’art. 338 c.p.

Allora, se così è, appare del tutto evidente che ai fini della prova della detta fattispecie criminosa rileva soltanto accertare se una minaccia sia stata effettivamente formulata dall’organizzazione mafiosa e, in caso positivo, se sul fronte opposto, tal uno abbia eventualmente istigato o sollecitato tale minaccia o eventualmente anche soltanto rafforzato il proposito delittuoso minaccioso, nonché, infine, in caso di positivo esito della predetta verifica, se la minaccia, o attraverso gli stessi che l’avevano istigata ovvero attraverso altri soggetti, abbia in qualche modo raggiunto il suo destinatario individuato nel Governo della Repubblica, così integrando tutti gli elementi richiesti dalla norma penale.

Ora, si è visto che finora risulta provato:

– che l’organizzazione mafiosa, nel periodo compreso tra la fine del mese di giugno e l’inizio del mese di luglio (v. Parte Terza, Capitolo 12), ebbe a effettivamente a comprendere che avrebbe potuto utilizzare la grande manifestazione di forza, culminata nella strage di Capaci e che di lì a poco avrebbe potuto replicare con quella che poi sarebbe stata la strage di via D’Amelio (v. anche Parte Terza, Capitolo 4), per mitigare gli effetti per lei sfavorevoli della sentenza del maxi processo e, più in generale, della forte azione di contrasto, che, grazie all’opera incessante di Giovanni Falcone, lo Stato aveva intrapreso, e, dunque, per imporre a quest’ultimo, dalla posizione di forza raggiunta, la concessione di benefici soprattutto attinenti al tema carcerario (dal ritorno a quelle condizioni carcerarie che in passato avevano reso assolutamente sopportabile la detenzione dei mafiosi consentendo loro anche di continuare i propri affari illeciti e persino di mantenere i ruoli direttivi nell’organizzazione, sino alla eliminazione della pena dell’ergastolo che avrebbe reso per tutti possibile la speranza di un non lontano ritorno allo stato di libertà);

– che la ragione di tale mutata strategia, rispetto a quella di totale ed assoluta contrapposizione frontale precedentemente perseguita con scopi principalmente vendicativi e di imposizione di un primato incondizionato nel territorio siciliano controllato dall’organizzazione mafiosa (v. Parte Terza, Capitolo 2, paragrafo 2.1, nonché intercettazioni dei colloqui in carcere del Riina di cui si dirà più avanti nella Parte Quinta della sentenza), fu quella improvvida iniziativa dei Carabinieri (subito compresa da Vito Ciancimino e, quindi, riferita ai vertici mafiosi), perché questa fu percepita dalla medesima organizzazione come un segno di debolezza dello Stato e di disponibilità ad un dialogo che avrebbe potuto ragionevolmente consentire l’ottenimento di quei benefici sopra ricordati (v. ancora Parte Terza, Capitolo 12);

– che, dopo l’ulteriore segnale di forza lanciato dall’organizzazione mafiosa con la strage di via D’Amelio, il proposito “trattativista” e, quindi, la decisione di dettare le proprie condizioni per la cessazione della strategia stragista fu definitivamente rafforzato dall’ulteriore intervento del Col. Mori, il quale, ancor dopo (e nonostante) la detta gravissima strage di via D’Amelio che avrebbe dovuto determinare esclusivamente una risposta di tipo fortemente repressivo, aveva, invece, ribadito, peraltro questa volta espressamente, la volontà di instaurare un dialogo con i vertici mafiosi, proponendosi quale rappresentante delle Istituzioni a ciò autorizzato e delegato ovvero, quanto meno, ma ciò era già del tutto sufficiente per rafforzare quel proposito criminoso, facendo credere ai suoi interlocutori di essere stato effettivamente autorizzato e delegato (v. dichiarazioni dello stesso Mori);

– che tale ulteriore iniziativa del Mori aveva, quindi, indotto i vertici mafiosi a ritenere “percorribile” quella strada che avrebbe condotto ad ottenere gli auspicati benefici per l’organizzazione mafiosa e, dunque, anche al fine di superare la stasi nella “trattativa” che si era determinata dopo la formulazione delle proprie condizioni cui non era stata data alcuna risposta, a programmare ulteriori attacchi allo Stato, prima, negli ultimi mesi deI 1992, ancora in Sicilia (ad iniziare dall’uccisione del Dott. Grasso) che non si realizzarono per ragioni diverse, e, successivamente, dopo l’arresto di Riina, dovendosi comporre in qualche modo la volontà dei più stretti alleati di quest’ultimo con la volontà contraria di Bernardo Provenzano (v. ancora intercettazioni dei colloqui in carcere di Riina che saranno riportate nella Parte Quinta della sentenza), al di fuori della Sicilia e con il diverso obiettivo dei monumenti per costringere il Governo della Repubblica a riprendere il dialogo che appariva interrotto, piegandone definitivamente la resistenza all’accoglimento delle condizioni imposte già dal Riina.

Per l’effetto, in conclusione, non può che rilevarsi che non è necessaria, ai fini della verifica dell’ipotesi di reato contestata agli imputati, l’esatta collocazione temporale degli accadimenti succedutisi a partire dall’estate del 1992 quando risulti, comunque, accertata, oltre che ovviamente la minaccia rivolta dai vertici mafiosi allo Stato sotto forma di condizioni per la cessazione della contrapposizione frontale decisa in conseguenza dell’esito del “maxiprocesso”, la condotta dei soggetti che prima hanno istigato e sollecitato il detto proposito criminoso della minaccia e, poi, lo hanno altresì rafforzato così contribuendo alla sua ulteriore attuazione, con la precisazione, peraltro, che ciascuna delle due condotte prima delineate, sia quella istigatrice e sollecitatrice, sia, se successiva, quella agevolatrice e rafforzatrice del proposito criminoso, è idonea, di per sé, ad integrare la fattispecie concorsuale nel reato di minaccia che, poi, si sarebbe consumato successivamente con la percezione da parte del suo destinatario finale (il Governo Repubblica, destinatario, infatti, espressamente individuato, come si vedrà meglio più avanti nella Parte Quinta della sentenza, dallo stesso Salvatore Riina in un colloquio in carcere intercettato il 18 agosto 2013: “…io o’ guviernu c’è vinniri (inc.) muorti c ‘è vinniri, o’ guviernu muorti c ‘hannu a dari…”).

 

fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/