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I boss col 41 bis vanno a casa: così tradiamo la memoria di Falcone.SENZA PAROLE.

L’Espresso, Mercoledì 17 Maggio 2017

I boss col 41 bis vanno a casa: così tradiamo la memoria di Falcone
Le commemorazioni. Gli omaggi. I riti. Eppure, 25 anni dopo, l’insegnamento del giudice  viene sempre più spesso dimenticato. I capomafia in carcere duro vengono portati nei loro territori. Dove possono dare ordini

di Lirio Abbate

C’è un viavai di persone che non si ferma davanti all’abitazione di un capomafia della ’ndrangheta. È come una processione. Entrano ed escono dalla casa del boss Salvatore Pesce, a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro. Pesce è stato arrestato nell’agosto del 2011 dopo una lunga latitanza. E per via della sua forte leadership criminale sul territorio calabrese è stato sottoposto al 41bis, il carcere duro previsto per contrastare le mafie varato dopo le stragi in cui sono stati uccisi i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era il 1992 e all’epoca per impedire ai detenuti di comunicare all’esterno ordini e messaggi è stato applicato questo regime. Nonostante ciò, Salvatore “Ciccio” Pesce, accompagnato da una nutrita scorta di agenti della polizia penitenziaria, nei mesi scorsi è tornato a casa, in Calabria, per rivedere la sua famiglia, abbracciare i suoi cari, salutare gli amici e i compari, e lo ha fatto con un permesso speciale che gli è stato accordato dal magistrato di Sorveglianza.

E Pesce non è certo il solo mafioso detenuto che di tanto in tanto lascia il carcere di massima sicurezza in cui è sottoposto al 41bis per essere trasportato a casa, con un permesso speciale, a rivedere amici e parenti. Sulla carta è tutto regolare e le ordinanze ben motivate. Ma così si rischia di svuotare il senso di questo provvedimento strategico nell’attività di contrasto ai clan perché consente di privare le organizzazioni mafiose dell’apporto dei loro capi, impedendo le comunicazioni con il resto del clan.

Dall’inizio dell’anno i magistrati di Sorveglianza hanno disposto, sulla base di “emergenze” espresse dai detenuti, diciassette permessi. Ognuno di questi viaggi organizzati dallo Stato costa circa ventimila euro alle casse pubbliche. Lo scorso anno sono stati venti i detenuti riportati a casa. Dal 1992, quando è stata introdotta la norma, al 2009, non ne era stato accordato nessuno.

Le cose sembrano cambiare. Ciò che è stato ideato, per contrastare le mafie sul sangue delle vittime innocenti, delle stragi del 1992 di Capaci e via D’Amelio – dove sono stati uccisi i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro – oggi viene alterato da ordinanze e provvedimenti di qualche magistrato di Sorveglianza, competente per il territorio in cui ricadono gli istituti di pena dove i boss sono detenuti, che accolgono le richieste supportate da motivazioni di “emergenza” familiare.

Il capomafia viene portato sul suo territorio anche per poche ore, e in questo modo ha la possibilità di comunicare, riallacciare contatti, suggerire strategie criminali ai suoi fedelissimi e così ogni sforzo per isolare il boss in carcere è vanificato. I direttori degli istituti di pena vedono stravolgere alcuni capisaldi che regolano il duro regime carcerario, come ad esempio lasciar passare, sempre su ordinanza del magistrato di sorveglianza, la corrispondenza fra alcuni detenuti sottoposti al 41 bis.

Il mafioso palermitano Leonardo Vitale – è stato dalla polizia penitenziaria e in particolare dal Gruppo operativo mobile – scriveva su autorizzazione del giudice ad altri detenuti al 41 bis appartenenti a Cosa nostra e nel testo della missiva nascondeva un codice con il quale camuffava i messaggi da trasmettere. E mentre il direttore della casa circondariale vuole registrare le telefonate che effettua il detenuto sottoposto allo speciale regime, perché tutto deve essere controllato a questi boss altrimenti non valgono a nulla le misure di isolamento, c’è stato un magistrato di Sorveglianza che ha respinto la richiesta. Il boss, in questo caso, ha potuto effettuare telefonate ai familiari senza essere ascoltato e registrato. E poche settimane fa si sono incontrati in carcere i fratelli Giuseppe e Nino Madonia, sicari palermitani, mafiosi di alto rango coinvolti nei misteri ancora irrisolti di delitti e stragi. Non si vedevano da vent’anni.

Paradossalmente, negli ultimi tempi la norma del carcere duro è stata resa dai governi ancora più stretta e rigida. Ma è approfittando proprio di questa rigidità che i detenuti trovano il modo per insinuarsi con continui ricorsi al magistrato di Sorveglianza, provocando crepe al sistema detentivo.

Oggi il 41 bis, a distanza di venticinque anni dalle stragi in seguito alle quali è stato adottato, è diventato un tema sul quale si è ampliato il dibattito politico e giuridico. È una norma che da un parte è essenziale nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata, dall’altro pone delicati problemi di compatibilità costituzionale e di interpretazione giurisprudenziale, anche se questi sono stati in gran parte risolti nelle loro linee fondamentali.

Occorre riflettere e analizzare ciò che afferma il mafioso Vittorio Tutino, detenuto a L’Aquila, parlando con un agente del Gom dopo la visita di un parlametare. Il boss palermitano, assolto dall’accusa di aver preso parte alla strage di Capaci e attualmente imputato per l’attentato di via D’Amelio, analizza la situazione attuale del contrasto alla mafia e parla per metafora: «Non sono più i tempi che Berta filava», indicando così il periodo passato in cui c’era stato più rigore rispetto ad oggi, aggiungendo che i tempi del duro contrasto stanno per finire.
E così mentre il Paese si prepara a ricordare il sacrificio di uomini dello Stato come Falcone e Borsellino e gli agenti di polizia uccisi nelle stragi palermitane venticinque anni fa, i mafiosi stanno a guardare come le cose possono essere rese più semplici per loro in maniera legale.

È il caso, ad esempio, di un capo della ’ndrangheta che è stato a lungo ricercato. Accusato di omicidi e altri gravi reati, alla fine i carabinieri lo hanno arrestato dentro un bunker sotto terra, dove si era rifugiato per diversi mesi. Finito in carcere e sottoposto al 41 bis, poco tempo dopo il detenuto si è fatto visitare da un medico il quale ha poi certificato che il mafioso è claustrofobico e la cella gli provoca problemi di salute. Lo stesso che aveva vissuto a lungo in un bunker. Il certificato medico è stato allegato al ricorso fatto dal detenuto al magistrato di Sorveglianza, evidenziando la sua “incompatibilità” a stare in una stanza chiusa. E il magistrato, supportato dall’attestazione medica, ha ordinato che l’uomo non può avere l’ingresso della cella chiuso da una porta blindata ma da un cancello. E inoltre per il suo trasporto fuori dal carcere deve utilizzare un’ambulanza anziché uno scomodo furgone blindato.

Oggi i detenuti sottoposti al 41 bis sono 728. Nelle varie carceri in cui sono distribuiti, sono divisi in “gruppi di socialità” formati da quattro persone: di solito un boss dominante e le cosiddette “dame di compagnia”, personaggi di spessore criminale più basso. Da aprile 2014 il boss che viene spostato da un istituto all’altro è seguito dalla sua corte di “dame”. La formazione resta sempre la stessa. Negli ultimi tempi però, si sta diffondendo una nuova strategia fra i boss detenuti. È quella di stare da soli. Non vogliono compagnia. Questo atteggiamento lo attuano gli appartenenti ai gruppi camorristici come Paolo Di Lauro, che si rifiuta anche di fare colloqui con i familiari, o Raffaele Cutolo, che invece ama rispondere a tutte le lettere degli “ammiratori” che gli scrivono in carcere. Secondo gli investigatori questo atteggiamento di isolamento protratto per qualche anno potrebbe poi indurre il detenuto a far ricorso al tribunale di Sorveglianza per non essere più sottoposto al 41 bis.

Il carcere che i mafiosi vogliono più evitare è quello di Bancali a Sassari. Aperto quasi due anni fa, è stato costruito su misura per i 41 bis e può ospitare novanta detenuti. È amministrato in maniera perfetta. E questa perfezione ai detenuti non piace. Per questo motivo è diventato l’incubo di padrini e gregari, perché di carceri così non se ne erano mai viste in Italia. Non sono certo i tempi di Asinara e Pianosa, ormai solo un ricordo, ma il Bancali ne ha perfezionato la struttura. Tutto è moderno: spazi e celle sono stati riprogettati rispetto ai locali angusti dove all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio vennero rinchiusi i “dannati”, i primi boss a cui fu applicato il 41 bis. Un provvedimento che per i mafiosi diventò la “condanna delle condanne”, spingendo numerose figure di primo piano verso la collaborazione con la giustizia. Ci sono voluti 23 anni per ottenere una struttura come questa creata attorno alla norma più odiata dalle mafie, che hanno sempre posto l’abolizione del regime speciale al vertice della loro “agenda politica”.

Il carcere di Sassari rappresenta una svolta. In passato le maglie del 41bis si erano lentamente ma inesorabilmente allargate, con episodi clamorosi di boss che dal carcere duro riuscivano a mantenere relazioni con i clan o addirittura a concepire figli. Poi nel 2009 c’è stata la svolta. Un articolo del testo di legge ha riportato rigore nella reclusione: «I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari». È da questa legge che si è arrivati alla costruzione del padiglione speciale di Bancali. Ma ai boss non piace e per questo presentano centinaia di ricorsi contro ogni cosa, prendendo di mira nelle loro istanze la direzione del carcere che si limita ad applicare le regole. Quelle regole che a venticinque anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino qualcuno, a colpi di carte bollate e timbri, tenta di aggirare.