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I beni della mafia. Costruiamoci le Università della Legalità

Si arresta il boss. Lo si arresta spesso in un tugurio, tra sporcizia, confusione, magari pure con una tv mezza rotta come nel caso di Provenzano. Poi si scopre che questo boss possiede beni per migliaia, milioni di euro. Case, auto, attività commerciali. E non sempre sono al Sud, ma in Lombardia, nel Lazio, perché le mafie sono ovunque. Perché le mafie non sono folklore del meridione, roba da lupara e pulcinella. Allora gli si confisca tutto al boss, e ogni bene lordo di sangue, furto alla crescita di una nazione sana, umiliazione del lavoro di tanti italiani onesti può così diventare arma dello Stato, dell’economia pulita, che restituisce alla comunità un pizzico di dignità. Il punto è: che fare di tutti i beni confiscati alla mafia?
Parliamo, per intenderci, di 10.118 i beni, tra immobili e aziende, confiscati alla criminalità organizzata. Di questi circa il 57% (5.407 beni del valore di 725 milioni di euro) è stato destinato o è in attesa di consegna a enti locali, alla vendita, all’affitto o mantenuto dallo Stato: dei 4.738 beni consegnati dal 1996, 998 sono stati consegnati negli ultimi 18 mesi e 3.740 nei 12 anni precedenti. Sono dati contenuti  nella relazione 2009 del Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali, Antonio Maruccia, presentata al Parlamento lo scorso 23 novembre, e relativi allo scorso giugno.
Si tratta in prevalenza appartamenti, case, locali generici, abitazioni e ville (4.702), terreni agricoli, con fabbricati rurali ed edificabili (2.287), box, garage, autorimesse, cantine e posti auto (1.075).  Le aziende confiscate alla criminalità? 1.185: il 38% si trova in Sicilia, mentre Campania e Lombardia si attestano rispettivamente intorno a 19% e 14%, il Lazio all’8%. Si tratta soprattutto di società a responsabilità limitata (575), imprese individuali (241), società in accomandita semplice (171).
Tredici anni fa tutte le forze politiche votarono all’unanimità la legge 109/96 per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un miracolo istituzionale che ha permesso negli anni ad associazioni e non solo di rendere legale e produttivo per la comunità ciò che non lo era più. Venderli, come proposto da un emendamento presentato alla Finanziaria, sarebbe stato un tradimento di quel passo importante e condiviso. Perché la forza delle mafie è riuscire, con un prestanome, con colletti bianchi insospettabili, a riappropriarsi facilmente di ciò che con fatica lo Stato recupera.
Sottovalutare la forza delle mafie è lusso che non ci si può permettere, un gioco dell’oca dove ritornare al punto di partenza significa mangiarsi caselle che hanno i volti di persone che ogni giorno si sacrificano per la legalità: poliziotti, operatori di ogni tipo, magistrati, politici impegnati, gente comune che denuncia il pizzo e irregolarità di ogni sorta.
E così la proposta del ministro Maroni, contenuta in un piano contro la criminalità di 10 punti da presentare in Consiglio dei ministri a gennaio, di istituire un’Agenzia nazionale che vigilerà sui beni confiscati in modo da fungere da Authority di controllo sembra dare una boccata di ossigeno alla programmazione antimafia. Idea accolta con favore da più parti, compresa Libera di Don Ciotti che ha dichiarato il suo “Sì all’Agenzia Nazionale sui beni confiscati per rendere più efficace, veloce ed incisiva la legge sulla confisca dei beni dalla fase del sequestro a quella della destinazione d’uso”, pur confermando invece il suo “no alla vendita dei beni confiscati alle mafie. L’emendamento in discussione alla Camera mette in discussione il principio etico, culturale e simbolico sancito della legge Rognoni-La Torre: il bene confiscato e riutilizzato è un bene condiviso dalla collettività e non un bene esclusivo”.
Bene quindi l’Agenzia che controllerà cosa e come. Rimangono perplessità sulla possibilità di venderli, questi beni, e rimarranno sempre e comunque, nonostante una riduzione notevole del rischio di vederli in futuro nuovamente in mani sbagliate. Allora viene in mente un’iniziativa piccola, non ancora realtà, di un piccolo comune del Sud, Limbadi in provincia di Vibo Valentia. Quattro ville dal valore di 2 milioni di euro che diventeranno una Università dell’Antimafia. Un progetto che coinvolge Riferimenti, presieduta dal Adriana Musella, e sostenuto proprio dal ministero dell’Interno.
Ecco allora una proposta: perché non pensare a più Università della Legalità, nei terreni e nei locali sequestrati, in collaborazione magari con altre Università di tutta Italia, dove formare figure capaci di gestire i vari beni confiscati alle mafie così da rendere inutile la loro vendita? Cultura, formazione, ricchezza, lavoro, legalità. Cosa vogliamo di più? Giovanni m
Si arresta il boss. Lo si arresta spesso in un tugurio, tra sporcizia, confusione, magari pure con una tv mezza rotta come nel caso di Provenzano. Poi si scopre che questo boss possiede beni per migliaia, milioni di euro. Case, auto, attività commerciali. E non sempre sono al Sud, ma in Lombardia, nel Lazio, perché le mafie sono ovunque. Perché le mafie non sono folklore del meridione, roba da lupara e pulcinella. Allora gli si confisca tutto al boss, e ogni bene lordo di sangue, furto alla crescita di una nazione sana, umiliazione del lavoro di tanti italiani onesti può così diventare arma dello Stato, dell’economia pulita, che restituisce alla comunità un pizzico di dignità. Il punto è: che fare di tutti i beni confiscati alla mafia?
Parliamo, per intenderci, di 10.118 i beni, tra immobili e aziende, confiscati alla criminalità organizzata. Di questi circa il 57% (5.407 beni del valore di 725 milioni di euro) è stato destinato o è in attesa di consegna a enti locali, alla vendita, all’affitto o mantenuto dallo Stato: dei 4.738 beni consegnati dal 1996, 998 sono stati consegnati negli ultimi 18 mesi e 3.740 nei 12 anni precedenti. Sono dati contenuti  nella relazione 2009 del Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali, Antonio Maruccia, presentata al Parlamento lo scorso 23 novembre, e relativi allo scorso giugno.
Si tratta in prevalenza appartamenti, case, locali generici, abitazioni e ville (4.702), terreni agricoli, con fabbricati rurali ed edificabili (2.287), box, garage, autorimesse, cantine e posti auto (1.075).  Le aziende confiscate alla criminalità? 1.185: il 38% si trova in Sicilia, mentre Campania e Lombardia si attestano rispettivamente intorno a 19% e 14%, il Lazio all’8%. Si tratta soprattutto di società a responsabilità limitata (575), imprese individuali (241), società in accomandita semplice (171).
Tredici anni fa tutte le forze politiche votarono all’unanimità la legge 109/96 per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un miracolo istituzionale che ha permesso negli anni ad associazioni e non solo di rendere legale e produttivo per la comunità ciò che non lo era più. Venderli, come proposto da un emendamento presentato alla Finanziaria, sarebbe stato un tradimento di quel passo importante e condiviso. Perché la forza delle mafie è riuscire, con un prestanome, con colletti bianchi insospettabili, a riappropriarsi facilmente di ciò che con fatica lo Stato recupera.
Sottovalutare la forza delle mafie è lusso che non ci si può permettere, un gioco dell’oca dove ritornare al punto di partenza significa mangiarsi caselle che hanno i volti di persone che ogni giorno si sacrificano per la legalità: poliziotti, operatori di ogni tipo, magistrati, politici impegnati, gente comune che denuncia il pizzo e irregolarità di ogni sorta.
E così la proposta del ministro Maroni, contenuta in un piano contro la criminalità di 10 punti da presentare in Consiglio dei ministri a gennaio, di istituire un’Agenzia nazionale che vigilerà sui beni confiscati in modo da fungere da Authority di controllo sembra dare una boccata di ossigeno alla programmazione antimafia. Idea accolta con favore da più parti, compresa Libera di Don Ciotti che ha dichiarato il suo “Sì all’Agenzia Nazionale sui beni confiscati per rendere più efficace, veloce ed incisiva la legge sulla confisca dei beni dalla fase del sequestro a quella della destinazione d’uso”, pur confermando invece il suo “no alla vendita dei beni confiscati alle mafie. L’emendamento in discussione alla Camera mette in discussione il principio etico, culturale e simbolico sancito della legge Rognoni-La Torre: il bene confiscato e riutilizzato è un bene condiviso dalla collettività e non un bene esclusivo”.
Bene quindi l’Agenzia che controllerà cosa e come. Rimangono perplessità sulla possibilità di venderli, questi beni, e rimarranno sempre e comunque, nonostante una riduzione notevole del rischio di vederli in futuro nuovamente in mani sbagliate. Allora viene in mente un’iniziativa piccola, non ancora realtà, di un piccolo comune del Sud, Limbadi in provincia di Vibo Valentia. Quattro ville dal valore di 2 milioni di euro che diventeranno una Università dell’Antimafia. Un progetto che coinvolge Riferimenti, presieduta dal Adriana Musella, e sostenuto proprio dal ministero dell’Interno.
Ecco allora una proposta: perché non pensare a più Università della Legalità, nei terreni e nei locali sequestrati, in collaborazione magari con altre Università di tutta Italia, dove formare figure capaci di gestire i vari beni confiscati alle mafie così da rendere inutile la loro vendita? Cultura, formazione, ricchezza, lavoro, legalità. Cosa vogliamo di più?

Giovanni Marinetti

(Tratto da FFwemagazine)