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Gli altri Borsellino e le ombre siciliane

Gli altri Borsellino e le ombre siciliane

a cura di Pasquale Borsellino e Anna Dalla Giustina

12 paolo e giuseppe borsellinoIl 21 aprile e il 17 dicembre 1992, gli imprenditori Paolo e Giuseppe Borsellino, vennero barbaramente uccisi dalla mafia. Il 1992, però, è l’anno delle stragi, quelle in cui muoiono il Dott. Giovanni Falcone e il Dott. Paolo Borsellino. È uno sventurato caso di omonimia che segna la morte dei due imprenditori, che, data anche la risonanza degli assassini dei due giudici, rende più complicata l’emergere della loro storia, come dice Antonella, sorella e figlia di Paolo e Giuseppe: “La verità è che nel 1992 morirono per mano mafiosa tre Borsellino”.

Anime cadute a causa dell’omertà, dell’ingiustizia, della corruzione, della mafia. La storia di due onesti lavoratori, Giuseppe e Paolo Borsellino, e di un paesino costantemente coperto dal sole cocente, Lucca Sicula, in cui, nelle strade e nei vicoli, la vita scorreva tra sorrisi, saluti e risate.

Tutti conoscevano tutti, tutti erano amici di tutti. Apparentemente.

Ma la piccola cittadina era abitata da ombre, ombre particolari, che prendevano il caffè al bar, che salutavano con ossequi e “rispetto” e partecipavano alla vita sociale; ombre, circondate da un aura di cordialità, attiravano nelle proprie reti inestricabili chiunque si frapponesse tra loro e i “piccioli”; ombre che vedevano e osservavano tutto, che avevano il controllo di tutto, esercitando paura e terrore.

Giuseppe e Paolo Borsellino gestivano un impresa di calcestruzzi, un’ impresa onesta, così come molte altre. Erano padre e figlio. Vivevano come una normale famiglia in una regione in cui la mafia si interessava al cemento e gli appalti. E i due uomini si trovarono al centro dell’uragano del guadagno corrotto, stritolati dall’esigenza mafiosa dell’affermazione del potere.

Per l’acquisizione dell’impresa, si creò una spirale di violenza, da cui, con passione e coraggio, il padre e il figlio si tirarono fuori. Decisero di non farne parte.

Il loro “no” restò saldo nella tempesta, tacitamente creata intorno, dalla “mafia” che era sistema.

Da semplici richieste e offerte, a domande casuali per soldi ad “amici” in carcere, secondo una consuetudine che pochi conoscono se non stanno nel cerchio maligno di quell’aberrante meccanismo, si passò prima a minacce velate, poi, piano piano, a intimidazioni e veri e propri atti vandalici contro i loro beni: tagliarono gli alberi di pesche in un loro terreno a Bivona e bruciarono un camion della loro azienda.

Mio fratello fu addirittura sollevato, perché aveva capito che aveva detto un “no” a certi personaggi…”, racconta oggi Pasquale Borsellino. La lotta portata avanti da Paolo continuò ferma e decisa. Un affronto inaccettabile per le ombre. “Nel frattempo la cosca aveva fatto un salto di qualità”, dice Pasquale. L’imprenditore onesto fu spinto sull’orlo del baratro, attraverso la violenza, la paura e la vergogna . La mafia non tollera lo “spregio”. E così lo uccisero, uccisero il povero Paolo. Il corpo fu trovato dal padre, Giuseppe, dopo ore di ricerca, in un’auto, la sua Panda, vicino a dove abitava, ucciso con un colpo di fucile al cuore, probabilmente tradito e venduto da un amico d’infanzia. Lo riconobbe dalle gambe che uscivano dallo sportello della macchina, ma non ebbe la forza di avvicinarsi e chiamò aiuto.

Gli otto mesi successivi, fino al suo omicidio, furono distruttivi per Giuseppe, abbandonato da tutti, tranne che dalla sua famiglia. Passarono tra indizi, collegamenti, ricerche e paura. Giuseppe divenne il “pazzo” del paese, nessuno lo ascoltava, lo ignoravano persino i suoi vecchi amici d’infanzia. Vestito di nero, in poco tempo a soli cinquantaquattro anni gli erano diventati bianchi tutti i capelli e la barba, che cominciò a lasciar crescere, lunga come la scia di sangue che aveva visto scorrere dal corpo del figlio.

L’intera cittadina rifiutava di riconoscere pubblicamente l’omicidio per quello che era.

La famiglia di Pasquale era circondata dal terrore, dalla paura, dalle ombre che, con occhi di falco, esercitavano un silenzioso e implicito comando.

Le uniche persone a sfuggire erano proprio i membri della famiglia Borsellino. In particolar modo, il padre, sotto le vesti da lutto, la barba folta e l’aspetto distrutto, continuò a svolgere ricerche, a trovare collegamenti e a fare domande, nonostante fosse stato abbandonato dalle istituzioni che gli riconobbero solo il rilascio per un porto d’armi con cui acquistare, di tasca propria, una pistola. Racconta Pasquale: “La gente del paese si avvicinava, “consigliando” di lasciar perdere la morte del figlio”.

Giuseppe, in onore di Paolo, accettando il suo destino, continuò a sostenere, con dedizione, il “no”; continuò a supportare la lotta per cui Paolo aveva dato la vita, per cui era stato strappato alla sua esistenza. E per questo, per il rispetto dei suoi diritti, venne usato come dimostrazione del potere mafioso.

Il suo omicidio fu, infatti, chiaramente dimostrativo: un monito per tutto il paese.

Venne ucciso in piazza, alla luce del sole, come un animale da macello, senza alcuna esitazione, da due uomini in motocicletta che gli scaricarono addosso 37 colpi di kalashnikov.

Nessuno intervenne. Nessuno sapeva o volle fare finta che fosse così.

Ancora oggi, quando il 21 marzo si leggono i nomi delle molte, troppe vittime innocenti delle mafie, qualcuno cancella il secondo “Paolo Borsellino”, pensando si tratti di un doppione, dovuto a errore di battitura.

La verità è che nel 1992 morirono per mano mafiosa tre Borsellino”.

 

11 Aprile 2020

fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/