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GIORNALISTI TRATTATI COME BOSS – ASSALTO AL CRONISTA

Non e’ solo la mafia, a intimidire pesantemente i giornalisti. Si susseguono violente perquisizioni nelle case di cronisti spesso neppure indagati. Tutto, per coprire i veri artefici delle fughe di notizie. Per la prima volta, ecco tutte le allucinanti storie.
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Magistrati distratti che dimenticano di depositare atti e fanno uscire di galera pericolosi mafiosi; altre toghe “a disposizione”, come il procuratore aggiunto a Roma Achille Toro, in rapporti con la cricca degli appalti. Ma anche magistrati iperattivi, quando bisogna colpire il cronista di turno. La linea? La detta una esponente del mondo politico. Aveva detto di Berlusconi: «lui le donne le vede solo orizzontali», palesando autonomia siliconata, visto che poi e’ tornata nei ranghi. E oggi Daniela Santanche’, da sottosegretaria all’attuzione del programma, si occupa della privacy dei mafiosi e la invoca ad alta voce.
E la privacy dei giornalisti? Quella, nessuno la chiede. Si susseguono le perquisizioni a casa dei cronisti, disposte da solerti pubblici ministeri. Non si riesce a colpire il responsabile della fuga di notizie nei palazzi di giustizia? E allora l’obiettivo diventano i cronisti (che hanno il solo problema di fare bene il proprio dovere: pubblicando le notizie quando ne sono in possesso). Braccio armato dell’operazione di silenziamento dell’informazione sono perquisizioni e blitz, disposti da una certa parte della magistratura col preciso intento di seminare il panico fra cronisti che, generalmente, hanno la sola colpa di fare il loro dovere.
«Io di perquisizioni ne ho subite sei o sette – racconta Fiorenza Sarzanini, firma di punta del Corriere della sera – ma per me ogni mezzo e’ lecito per cercare la verita’. E non mi lamento, il mio lavoro e’ pubblicare le notizie, i magistrati cercano di capire. Mi piacerebbe che la perquisizione non diventasse, pero’, uno strumento intimidatorio, ma restasse un mezzo per cercare la fonte della fuga di notizia. Difficilmente e’ cosi’. Non ricordo ci sia stato mai, mai, un pubblico ufficiale finito sotto inchiesta per questo». «Dal 2006 al 2008 – denuncia il Libro bianco dell’unione cronisti – siamo a 40 perquisizioni, ma il numero dei giornalisti coinvolti e’ molto superiore, perche’ in gran parte delle occasioni le perquisizioni sono multiple e riguardano ogni volta piu’ di un cronista».
Il punto vero e’ l’intimidazione, visto che l’autore della fuga di notizie resta sempre ignoto e non e’ certo il giornalista.
Le ultime “operazioni” hanno del paradossale. Per l’inchiesta sulle grandi opere sono stati perquisiti Antonio Massari del Fatto, al quale in un precedente blitz avevano gia’ portato via cellulari e i pc di casa, e la giornalista di Libero Roberta Catania. Per lei, versione “integrale”: alla presenza di un’agente donna, infatti, Catania si e’ dovuta completamente denudare.

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La perquisizione a casa del cronista come una punizione, colleghi senza difese e spesso ignari anche delle ragioni dell’intrusione nella propria intimita’. Claudio Pappaianni, collaboratore da Napoli dell’Espresso, si e’ visto perquisire la casa dopo l’uscita dell’inchiesta sul sottosegretario Nicola Cosentino. C’e’ un piccolo particolare: quell’inchiesta lui non l’aveva firmata e non era nemmeno indagato. La finanza si e’ portata via i computer, anche quelli della moglie, lasciandolo senza strumenti di lavoro. Non e’ l’unico caso di giornalisti non indagati che vengono perquisiti, svegliati alle 7 di mattino, privati di liberta’ e della giusta serenita’ per continuare il proprio mestiere. Non c’entrano nulla con le inchieste sotto esame, ma vengono fatti oggetto di perquisizione sulla base del sospetto che abbiano messo le mani in quelle notizie.
Stessa cosa, nel giugno 2007, accade ad Enzo D’Errico del Corriere della sera. Aveva scritto un articolo di spalla, un profilo di Sergio De Gregorio. Il pezzo principale, che riportava la notizia di un’inchiesta sul senatore Pdl indagato dalla Procura di Napoli per riciclaggio, era firmato da Giovanni Bianconi. Quest’ultimo viene indagato, D’Errico no, visto che non c’entrava nulla con l’articolo contestato. Ma a D’Errico non viene risparmiata la “visita” in casa. Di notte vengono passati al setaccio il giornale e l’abitazione del cronista. Si fruga perfino nella borsa della moglie ed anche a lei viene sottratto il pc personale. Sotto sequestro computer fissi e portatili, la memoria di un pc, rubriche telefoniche e appunti che nulla avevano a che fare con l’inchiesta su De Gregorio. «Molte perquisizioni sono decise ed eseguite appositamente per “punire” – denuncia Guido Columba, il presidente dell’unione nazionale cronisti italiani – di notte, con dispiego di forze e la disposizione di portare via tutto. La norma prevede che si possa sequestrare esclusivamente l’oggetto cercato e il materiale della persona indagata. E invece i pm ordinano al personale operante di fare piazza pulita».
Ma un’altra storia che ci porta in Toscana raggiunge vette tragicomiche. 28 novembre 2007. I finanzieri si presentano a casa del cronista Simone Innocenti del Giornale della Toscana, oggi al Corriere Fiorentino. Gli perquisiscono casa per un articolo scritto non da lui, ma da altri due giornalisti. E, soprattutto, pubblicato su un altro giornale: l’Espresso. La sagra dell’assurdo. «Mi hanno indagato per ricettazione – racconta Innocenti – nel decreto di sequestro si disponeva solo di dover portare via l’atto, invece hanno sequestrato tutto: pen-drive, dischetti, materiale che nulla aveva a che fare con l’oggetto ricercato». Innocenti viene indagato per ricettazione. Oggetto della ricettazione sarebbe stato il verbale, pubblicato poi dall’Espresso, e in particolare da altri due giornalisti. Chi ha pagato per questi abusi? Nessuno.
«Era mattina presto quando sono arrivati a perquisirmi casa – racconta un altro collega – e ricordo un particolare: quando ho detto che dovevo andare in bagno, mi hanno invitato a lasciare la porta aperta. “Sa, dobbiamo controllare…”».
Controllati, perquisiti, condannati, minacciati: il destino dei cronisti d’inchiesta di questo paese, trattati come narcotrafficanti, pedofili, spacciatori, in spregio dell’articolo 21 della Costituzione. Ormai ridotto a carta straccia.

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Parallelamente si allunga l’elenco di cause civili e querele per diffamazione, la lista di una continua e sempre piu’ infernale guerra alla liberta’ di informazione. Portata avanti, nel silenzio, da veri e propri panzer: studi legali, azzeccagarbugli di ogni ordine e grado, avvocati chiamati a difendere grandi gruppi industriali, imprese quotate in borsa o, al minimo, senatori e potentati vari di questa repubblica.
L’obiettivo, prima ancora che un accertamento della verita’, e’ intimidire le ultime sacche di giornalismo libero e di inchiesta che operano in questo paese. «Ma quale accertamento della verita’ – sbotta il penalista Oreste Flammini Minuto, allievo di Calamandrei, cinquant’anni di esperienza a difendere giornali, tra cui l’Espresso fino a ottobre 2008 – nella mia carriera non mi e’ mai capitata una richiesta di risarcimento alla simbolica “lire una” e mai che si facesse ricorso, invece che all’autorita’ giudiziaria, al Giuri’ d’onore, previsto anche dal nostro codice penale che in soli tre mesi, prorogabili di altri tre, deve emettere la sua pronuncia». Perche’? Le ragioni non stanno nell’accertamento della verita’, ma vanno ricercate nell’intento di spegnere ogni voce fuori dal coro. E il potente batte cassa.

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Che sia un metodo di stampo intimidatorio, quello di intentare una causa civile con la richiesta di migliaia di euro a giornali e case editrici, sembra ormai una verita’ diffusa. Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio si puo’ ripescare una intercettazione di qualche anno fa per capire quanto potente sia lo strumento della richiesta danni. In quel caso da colpire c’era addirittura un magistrato: Luigi De Magistris. Il profeta e’ Giuseppe Chiaravalloti, coinvolto in varie inchieste dell’allora pm di Catanzaro e attualmente sotto processo a Salerno per corruzione. Ex giudice, ex presidente della Regione Calabria ed attualmente numero due all’autorita’ garante della privacy, Chiaravalloti nel 2005 al telefono alla sua segretaria parlava di De Magistris: «Questo e’ un pagliaccio, insomma. Ha scomodato un sacco di gente, ha dato fastidio ad un sacco di gente, clamore mediatico. Se Dio vuole che le cose vadano come devono andare… lo dobbiamo ammazzare? No, gli facciamo cause civili per risarcimento danni e ne affidiamo la gestione alla camorra napoletana (…)».

PUNIZIONEe#8200;IN-CIVILE
Di sicuro, la citazione con richiesta di risarcimento e’ una tagliola, sempre piu’ in uso rispetto alla querela per diffamazione. «Dalla mia esperienza – racconta Caterina Malavenda, avvocato penalista anche de il Fatto Quotidiano – emerge un dato importante: dopo un periodo in cui le querele per diffamazione andavano per la maggiore, oggi si ricorre di piu’ alla causa civile». Il motivo e’ presto detto. «Alla fine i tempi si equivalgono e soprattutto la condanna in sede civile e’ immediatamente esecutiva, fin dalla sentenza di primo grado mentre in sede penale, oltre la provvisionale, si deve aspettare il pronunciamento della Cassazione».
Insomma, se chi si sente diffamato querela, inizia il processo penale e a questo si accompagna la richiesta di risarcimento del danno. Le due strade corrono insieme fino al termine del procedimento che dura in media 7 anni e mezzo. La citazione in sede civile, invece, quando si tratta di diffamazione riesce inspiegabilmente ad avere un iter ben piu’ spedito di altre liti, rinviate di anno in anno fino a diventare eterne. Altra differenza e mica da poco: la querela deve essere presentata entro tre mesi dalla pubblicazione dell’articolo, il risarcimento in sede civile puo’ essere chiesto entro 5 anni dalla pubblicazione. «Cosi’ si tiene a bagno il giornalista con la minaccia velata di una bella richiesta danni in sede civile», aggiunge Malavenda.
E c’e’ perfino la possibilita’ che un giornalista assolto in sede penale possa essere condannato dinanzi al giudice civile. «Il nostro ordinamento – sentenzia Flammini Minuto – e’ quanto di piu’ indeterminato possa esistere per cio’ che riguarda la possibilita’ di reprimere la liberta’ di informazione. Con un articolo si puo’ causare un danno morale, patrimoniale, di immagine, all’identita’ personale. E il danno morale, grazie alla giurisprudenza evolutiva, puo’ anche essere conseguente ad un illecito civile, non solo ad un reato. Insomma, le tagliole sono disseminate ovunque».

SCHIFANI ALL’ATTACCO
Restiamo ai procedimenti in sede civile. Tra gli ultimi casi c’e’ il mega risarcimento chiesto dal presidente del Senato Renato Schifani proprio al Fatto. La seconda carica dello stato ha citato in giudizio il quotidiano diretto da Antonio Padellaro: chiede 720 mila euro. Non e’ nuovo a simili iniziative Schifani: sempre lui pretende dallo scrittore Antonio Tabucchi 1 milione e 300 mila euro per un articolo pubblicato sull’Unita’. Il presidente del senato si e’ sentito offeso, colpito dagli accostamenti con uomini della mafia e dai suoi trascorsi, che il quotidiano di Marco Travaglio, fra gli altri, ha raccontato. «Dopo aver letto le 54 pagine della citazione – si legge sul Fatto – dobbiamo confessare la nostra sorpresa: nonostante gli sforzi non abbiamo ancora capito quali delle notizie riportate sul Fatto Quotidiano non siano vere (…). Per questo, dopo aver riletto l’atto di citazione, oggi pensiamo che la causa miri piu’ che altro a mettere una spada di Damocle economica sulla testa di un giornale appena nato».
Cosi’ i giornali, cosi’ le case editrici. Chiarelettere per il libro “Fuori orario” del bravo giornalista del Sole 24 ore Claudio Gatti e’ stata citata in giudizio dalle Ferrovie dello Stato: chiedono 26 milioni di euro. «Mi aspettavo, conoscendo Mauro Moretti – racconta Gatti – e sapendo quanto poco ama le critiche, che la citazione la facesse subito. Invece con la puntualita’ dei suoi treni, ci ha messo sei mesi». «In termini di coincidenze temporali – aggiunge il giornalista – noto solo che in questo momento c’e’ in ballo la conferma di Moretti. Siccome la citazione, di fatto, e’ una anti-inchiesta di oltre 60 pagine in cui si nega ogni mia accusa o denuncia, forse e’ collegabile a quel particolare: voleva sgombrare il campo».
Le cifre esorbitanti, i milioni, diventano insomma un siluro che si abbatte sulle residue sacche di giornalismo d’inchiesta nel paese. «Quello che conta – incalza Flammini Minuto – e’ cio’ che percepisce chi ha scritto l’articolo o il libro. Quando si chiedono milioni di euro, io ci sto attento a scrivere e l’editore a pubblicarmi». Si assiste cosi’ ad un fenomeno di soppressione dell’informazione tutto italiano. «Negli Stati Uniti e’ del tutto impossibile che l’amministratore delegato di un’azienda pubblica – sottolinea Gatti – citi un giornalista con gli avvocati della stessa azienda per un libro di critiche alla sua gestione. Ma soprattutto non sta ne’ in cielo ne’ in terra che gli chieda oltre 30 milioni di dollari di danni».

TEMPI DI MONOCRAZIA
Lo stesso vale per le querele, un altro strumento in mano ai potentati per intimidire e chiedere soldi. A Perugia, durante il festival del giornalismo, e’ nato un manifesto, una serie di proposte per depotenziare questi strumenti di intimidazione. Prevede, tra l’altro, l’eliminazione della riparazione pecuniaria, l’introduzione della rettifica obbligatoria, l’abolizione della detenzione, la possibilita’ di dar corso all’azione di risarcimento del danno solo nel caso di inadempimento degli obblighi di pubblicazione della smentita-rettifica, il calcolo del danno (tranne quello patrimoniale) sulla base di criteri obiettivi.
Ma c’e’ un altro punto da rivedere, che spesso passa inosservato: si tratta della “piccola” ma sostanziale modifica messa in atto dall’ex ministro della giustizia Giovanni Maria Flick al tempo del primo governo Prodi. Prevede che nei reati a mezzo stampa possa essere competente anche un giudice monocratico. Uno solo. «Bisogna tornare alla composizione collegiale – spiega Flammini Minuto – perche’ si tratta di riempire delle norme in bianco… qui parliamo di argomenti delicati, si deve stabilire l’interesse pubblico, e non puo’ farlo un solo magistrato».
E cosi’ il fenomeno delle querele cresce, spaventosamente. «In linea di massima – aggiunge Flammini Minuto – l’Espresso ha un numero di querele all’anno che vanno da 60 ad 80. E se si ricevono 80 querele significa che in quell’anno ci sono state piu’ inchieste. Quando ho lasciato il settimanale, avevo in piedi 64 procedimenti».

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FINAL CUT

Vi sommergeremo di carte bollate. Vi porteremo ogni giorno in tribunale anche per uno starnuto. Vi faremo passare la voglia di scrivere su di noi». Detto fatto, parola di Paolo Cirino Pomicino, pronunciata attraverso un giornalista “amico”, arruolato nella patinata rivista di casa, “Itinerario”. Fine anni ‘80. ‘O ministro tiene fede agli impegni e da allora comincia il tiro al bersaglio – la Voce – colpevole di svelare, mese dopo mese, gli affari e le connection dell’ex titolare del Bilancio. Un vero e proprio diluvio di querele e citazioni miliardarie, anche da parte degli “amici” del mattone, Icla in prima fila, l’impresa del cuore. Il top e’ raggiunto, nel 1991, con la richiesta di 11 miliardi di vecchie lire per la pubblicazione del libro ‘O ministro, edito dalla Voce.
Segue a ruota il gotha campano, allora ai vertici ministeriali. Enzo Scotti, Clemente Mastella, Francesco De Lorenzo (sia per inchieste della Voce che per il volume Sua Sanita’), Francesco Patriarca e l’entourage imprenditoriale gavianeo. Perfino Bettino Craxi, fresco esule ad Hammamet. Poi Alessandra Mussolini e l’euronazi Roberto Fiore.
Tutti vip che, quanto a querele e citazioni alla Voce, sono in buona compagnia. Perche’ allo stuolo di “offesi” si aggiungono via via camorristi (come il riciclatore del clan Nuvoletta, l’allora insospettabile Alessandro Nocerino), faccendieri, non pochi “comunisti” (ad esempio l’allora preside di architettura e assessore comunale Uberto Siola), giornalisti-velinari e perfino magistrati, come il leader Unicost Umberto Marconi («vi cito – ammise – per dare un segnale a Repubblica»).
Non ci siamo fatti mancare niente. Nemmeno la perquisizione del 2001, con tre pantere della polizia mandate da Roma, le sirene spiegate e i nostri nomi urlati nei viali intorno alla casa. Proprio come si fa coi camorristi. Risultato: non avevamo violato alcun segreto istruttorio. C’e’ voluto qualche mese ma alla fine il penalista Gennaro Lepre ha ottenuto dalla procura romana il dissequestro del nostro computer. Che ormai era solo un rottame, con tutti i files – anni di lavoro – andati persi. Chi paga?
Se e’ vero che oggi il “civile” supera il “penale” (e’ un revoler immediatamente puntato alle tempia), ecco che a Napoli arriva anche la “citazione preventiva”, con annessa richiesta di cadeau. Succede, ad esempio, con l’avvocato-imprenditore (della monnezza) Cipriano Chianese che, offeso per un articolo, chiede “un fiore”: da 50 mila euro. Peccato che perda la causa e, dopo due anni, finisca in galera per 416 bis: riciclava per conto del clan dei Casalesi, fazione Bidognetti.
E un cadeau ha chiesto, nel 2008, l’avvocato Francesco Forzati a nome della Gestline, “colpita al cuore, e nell’onore”, da un paio di articoli della Voce. «Stabilite voi la cifra, purche’ sia congrua per dimostrare il vostro pentimeto…». Li abbiamo denunciati per tentata estorsione.
Sembrava passata la bufera, l’anno scorso. Poche carte bollate, solo la “gestione” delle pendenze passate. Sara’ perche’ alla fine puo’ rischiar qualcosa il malfattore che denuncia chi ha la sola colpa di descrivere i suoi misfatti? Macche’. Nel 2010 un diluvio. Civile e penale. Documenti cosa combinano i contractors, fai nomi, cognomi e sigle su cui non c’e’ niente da obiettare? Condannati.
E’ la solita questione. Sei condannato per il “tono”, la “lesa maesta’”, mai perche’ le circostanze non risultino vere, accertate e accertabili. Basta trovare, e’ vero, una toga che si genuflette.
Nello Trocchia

(Tratto da La Voce delle Voci)