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Francesca che voleva scappare

Francesca che voleva scappare

di Sara Pasculli

11 Marzo 2020

Sono tanti i modi di scappare ed altrettanti quelli di salvarsi. Talvolta scappare coincide con salvarsi, poiché non ci sono altre vie per farlo. Spesso però si torna, credendo di essere ormai al sicuro, e soltanto le vicissitudini conseguenti testimoniano la veridicità di questo pensiero.

Se hai l’amore da una parte, ma due figlie dall’altro, devi voltarti indietro per forza, e portare loro un po’ di quel tuo amore, anche se quelle stesse creature ti collegano ad un passato da dimenticare, così come può essere quello di un padre ed un fratello uccisi e di un altro in carcere.

Dopotutto è risaputo che essere ‘ndranghetisti significa vivere nel sangue e nel dolore, ma soprattutto in una specifica idea di onore.

Francesca Familiari si era salvata scappando, anche se ne era stata obbligata da un foglio di via che l’avrebbe tenuta lontana dalla sua terra, ma quel dolore non l’aveva abbandonata e una certa cultura dell’onore l’ha ammazzata.

Ammazzare è un verbo forte, ma anche la parola che meglio condensa in sé la ferocia dell’essere vittime di un delitto. Non è il termine che meglio rende giustizia, ma è anche vero che quando qualcuno muore nemmeno la giustizia stessa ne è capace. Figuriamoci se ucciderne un componente può rendere giustizia ad una famiglia.

Eppure se tuo padre era Vincenzo Familiari, boss di Montebello Jonico, ed il tuo unico fratello ancora vivo e fuori dalla prigione è affiliato ad una cosca, il codice d’onore prevede questo.

In un mondo sovvertito, rispetto alla nostra immagine consueta di società, come quello del sistema ‘ndranghetista, in cui il giusto coincide con l’ingiusto e viceversa, se violi una delle regole e porti questa distorta concezione di disonore tra le mura di casa, sei morto.

Francesca era nata e cresciuta nella sofferenza di una famiglia quasi sterminata ed aveva in ogni modo tentato di crearsene una propria, innamorandosi, giovanissima com’era, prima di un ragazzo marocchino, poi paradossalmente di un agente di custodia. Infine di Mario Berlingieri, ragazzo rom di Gioia Tauro, qualche anno più grande di lei, con il quale aveva creato la propria famiglia, mettendo al mondo due bimbe, Santina e Antonella.

Il primo nome significa “sacra”, il secondo “combattente”. Non sappiamo perché Francesca li abbia scelti, e magari tali nomi non sono che legati ad una qualche discendenza familiare, ma è dolce e intenso pensare che possano essere correlati ad un’idea di sacralità che la madre aveva di quelle nuove esistenze appena fiorite, colme della gioiosa vitalità propria dell’infanzia, che si contrapponeva alla grigia essenza di morte della sua parentela estinta, e che, allo stesso tempo, ella stessa volesse trasmettere alle figlie la pelle dura della lottatrice che lei era stata, decidendo di non piegarsi alle insensate regole del mondo della ‘Ndrangheta. Ma anche nel suo nuovo nido la felicità è compromessa: Francesca, con i suoi precedenti per furto, è costretta a lasciare le sue due nuove luminose sorgenti d’affetto in un istituto religioso di Reggio Calabria e trasferirsi lontano dalle verdi alture della sua patria.

La nuova meta, assieme al compagno, è Brescia. I guai non sono comunque lontani, così come non lo è la vita illecita che si è lasciata alle spalle: questa storia di sofferenza ed emarginazione sociale continua. Le bambine intanto attendono ansiose, e sarà soltanto alcuni mesi dopo che avranno possibilità di ricongiungersi con i due genitori, quando nell’aprile del 1987 Mario e Francesca torneranno sulla punta della penisola impazienti di far loro visita.

La domenica di Pasqua è passata da appena due giorni, come un regalo divino la strada sua e quella delle figlie sta per rincontrarsi e niente sembra poter cambiare questi piani così tanto desiderati. Usciti dall’albergo in cui si erano fermati per la notte appena dopo la colazione, i due amanti entrano nell’auto per raggiungere l’istituto. Tuttavia il loro percorso sull’Alfasud si arresta in prossimità della stazione di Reggio Calabria, ma non al suono delle voci angeliche delle bambine, bensì al rumore della rabbia rauca di un uomo che urla ed esplode un primo colpo contro le ruote della vettura. I due proiettili successivi sono invece per Francesca, alle spalle ed a distanza ravvicinata, sotto gli occhi del compagno. La figura a lui sconosciuta fugge senza voltarsi indietro e, dopo aver gettato l’arma, si allontana da quel suo sanguinolento misfatto. Un altro pezzo, il meno macchiato dalla violenza ‘ndranghetista, a soli ventiquattro anni ma già con l’immensa esperienza delle innumerevoli sfumature variopinte di una storia di vita turbolenta, se n’è andato e, anzi, da quella medesima soverchiante e spregiudicata brutalità è stato sommerso.

A pochi momenti dal riabbracciare la più importante ed innocente parte della propria discendenza, Francesca Familiari resta vittima inerme dell’insolente prepotenza del codice d’onore dell’associazionismo criminale. E non di uno qualunque, ma del più disperato e lacerante: quello familiare.

Seppure Mario non conosce l’assassino della sua donna, quest’ultimo sarà di lì a poco trovato e fermato, nonchè riconosciuto come Stanislao Familiari, fratello della vittima, finendo in cella a seguito della confessione sulla delittuosa vendetta commessa. Neanche le bambine avevano mai visto, fino a quel 21 aprile, lo zio ventenne, che lavorava come camionista e che si era, nella legge della sua giungla, sentito disonorato dalla presenza, tra i propri consanguinei, di una sorella che aveva violato le norme del decoro ‘ndranghetista, convivente con un rom.

Stanislao rimette le cose al suo posto, pareggiando i conti della famiglia, che vengono pagati attraverso l’immolazione dell’unica figlia di casa Familiari.

La ‘Ndrangheta si erge imponente e possente sul diritto alla vita e se ne nutre, ingoiandolo con insaziabile compiacenza. Gli equilibri sono stati ristabiliti e di loro non resta più nessuno. Dall’inizio dell’anno in provincia di Reggio Calabria, nella primavera del 1987, Francesca Familiari è la vittima numero cinquanta.

 

fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/