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Fiamme alla chiesa di Corleone, il vescovo alla riunione in Vaticano per la scomunica dei mafiosi

La Stampa

Fiamme alla chiesa di Corleone, il vescovo alla riunione in Vaticano per la scomunica dei mafiosi

Dicastero dello Sviluppo umano integrale: don Ciotti, il giudice Pignatone e monsignor Pennisi all’incontro sulle sanzioni canoniche per i cattolici che fanno parte dei clan

GIACOMO GALEAZZI

PUBBLICATO IL 31 Marzo 2021

ROMA. Il dicastero vaticano per lo Sviluppo umano integrale ha riunito nei giorni scorsi la commissione che lavora alla scomunica dei mafiosi. Tra i presenti all’incontro il sacerdote anti-mafia don Luigi Ciotti, l’ex procuratore Capo di Roma, Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano e l’arcivescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi, nella cui diocesi è stato dato alle fiamme il portone della chiesa di Corleone. «La scomunica dei mafiosi va uniformata a livello nazionale perché questo vuoto normativo a livello generale è dovuto alla difficoltà nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali ha potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società a livello nazionale», puntualizza il presule siciliano.In tutta Italia

Il gruppo di studio ha l’incarico in Vaticano di approfondire la minaccia delle mafie alla Chiesa e alla società civile. Per indicare alle Conferenze episcopali regionali come estendere a tutta Italia quella scomunica per i mafiosi che è già in vigore nelle diocesi siciliane. «La criminalità organizzata non è più un’emergenza solo del Mezzogiorno ma anche al Nord e al centro», sottolinea l’arcivescovo di Monreale, che he nel suo territorio ha i comuni di San Giuseppe Jato e di Corleone. E aggiunge: «I clan vanno dove ci sono i soldi e con la crisi è più conveniente per loro fare affari lontano dalle loro terre sempre più impoverite e intrecciare rapporti con potentati economici e politici in ogni regione».

Mentalità

La task force, in funzione al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, ha l’obiettivo di approfondire il fenomeno mafioso anche attraverso esperti, laici e religiosi, magistrati, italiani e stranieri. Alla ricerca di «nuove strade per combattere la mafia sensibilizzando la società civile e le istituzioni contro il crimine organizzato. La mafia danneggia la Chiesa e la mentalità ecclesiale perché propone modelli opposti alla Chiesa», precisa monsignor Pennisi. «Abbiamo definito le condizioni per la conversione dei mafiosi che non può essere ridotta a un fatto intimistico ma deve avere una dimensione pubblica, essere seguita da una riparazione del male fatto, da una richiesta di perdono alla vittime e dall’abbandono della criminalità organizzata. Chi non si converte è fuori dalla comunione ecclesiale, è scomunicato. E la scomunica comminata è una pena medicinale, un monito in vista di un possibile ravvedimento e della conversione».

Delitto canonico

Perciò, evidenzia il presule siciliano, «la legge penale universale deve contenere una configurazione del delitto canonico di mafia la più ampia possibile perché il fenomeno assume oggi contorni globali. Ci siamo chiesti perché la scomunica non valga in quei luoghi in cui vi sia la presenza di associazioni mafiose, i cui aderenti non risultano invece colpiti da scomunica in assenza di un decreto formale da parte dei singoli vescovi o delle conferenze regionali o nazionali. Il modello è la scomunica già in vigore per i mafiosi nelle diocesi siciliane. «L’obiettivo è estendere all’episcopato italiano e mondiale ciò che nelle diocesi siciliane è stato stabilito per chi si rende colpevole di peccato di omicidio collegato alla mafia-  spiega monisgnor Pennisi-. A tal fine, nell’anniversario monito di San Giovanni Paolo II ai mafiosi, la Conferenza episcopale siciliana ha pubblicato un documento intitolato ‘Convertitevi’ sull’incompatibilità tra l’appartenenza alla Chiesa e ai clan mafiosi». A sollevare la necessità di estendere al nord la scomunica ai mafiosi, evidenzia monsignor Pennisi, «sono stati i vescovi meridionali: nel Mezzogiorno la sensibilità verso la minaccia mafiosa è maggiormente avvertita. Ma oggi il connubio mafia-affari è nazionale ed è un problema pastorale che non può essere confinato nelle regioni del sud. L’impegno civile a favore della legalità riguarda ogni cittadino».

Pena canonica necessaria

«Per il cristiano la lotta alla mafia richiede un incremento di responsabilità, per questo sono state chiamate in causa categorie morali e teologiche come la conversione e il peccato- afferma monisgnor Pennisi-. I modelli a cui ispirarsi sono l’appello di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi e le prese di posizione forti di Papa Francesco, incluso lo storico incontro con i familiari delle vittime innocenti della mafia nella primavera del 2014. Francesco ci chiede di coinvolgere nello stesso atto di condanna sia la ’ndrangheta che la mafia, la camorra, la sacra corona unita e altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso, come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza». Oltre al fatto di commettere specifici delitti è «l’esser di per se stesso un mafioso che costituisce un delitto e necessita di una pena canonica e cioè la privazione dei funerali religiosi, la scomunica», conclude l’arcivescovo di Monreale.

I precedenti

La Conferenza episcopale siciliana in una lettera collettiva già nel 1944 , pur senza espliciti riferimenti alla mafia, dichiarava: «Per parte nostra dichiariamo colpiti di scomunica tutti quelli che si fanno rei di rapina o di omicidio ingiusto o volontario». Nel 1952 nel Concilio plenario della Sicilia questa scomunica fu estesa ai mandanti e ai collaboratori dei reati di mafia. Nel febbraio del 1973 i vescovi siciliani condannano con fermezza «il fenomeno perdurante della mafia che infetta alcune zone della nostra isola». Nel 1982 si scomunicava chi si fosse macchiato di crimini violenti che hanno «come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita». La scomunica è stata ribadita il 13 aprile 1994. La Chiesa siciliana, per bocca dei suoi pastori, ha ribadito un mese fa che la mafia è peccato e i mafiosi sono peccatori perché oppongono un «rifiuto gravemente reiterato nei confronti di Dio e degli esseri umani, che sono a sua immagine e somiglianza». A questo peccato «si rendono solidali anche i fiancheggiatori dell’organizzazione mafiosa e coloro che ne coprono i misfatti con la connivenza e con il silenzio omertoso».

Peccato gravissimo

«Far parte della mafia si configura come un peccato gravissimo, che di fatto pone al di fuori della comunione ecclesiale chi lo compie- chiarisce monisgnor Pennisi-. Per questo motivo noi vescovi abbiamo rimarcato l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo, consapevoli che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle diocesi della Sicilia venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica.

L’input di papa Francesco

Nel  discorso di papa Francesco a Sibari del 21 giugno 2014 c’è l’esplicita condanna del comportamento mafioso di chi commette atti criminali tipici della mafia , ma anche della stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati». Francesco non mette solo in evidenza il peccato grave in cui si trovano i mafiosi. Dice che questa condizione di peccato dei mafiosi è anche un delitto penale che comporta la scomunica perché c’è l’idolatria, l’adorazione del male, del denaro che «prende il posto dell’adorazione per il Signore».