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Enrico De Pedis, tutti i misteri che avvolgono il boss della Magliana a trent’anni dalla morte

Il Fatto Quotidiano, 02 febbraio 2020

Enrico De Pedis, tutti i misteri che avvolgono il boss della Magliana a trent’anni dalla morte

di Rita Di Giovacchino – Giornalista e scrittrice

Il 2 febbraio 1990, esattamente 30 anni fa, fu ucciso Enrico De Pedis, detto Renatino, il Dandy di Romanzo criminale. Fu falciato da una raffica di proiettili in via del Pellegrino, a due passi da Campo de’ Fiori, e come in tutti i gialli che si rispettano dobbiamo partire di qui per raccontare l’epopea di un boss fatto fuori proprio quando stava cercando di recidere i suoi legami con il passato.

Era appena uscito da una gioielleria quando fu affiancato da due uomini in moto. A sparare fu quello seduto sul sellino posteriore, Marcello Colafigli: detto “Marcellone”, poi finito in un manicomio criminale da cui è uscito senza lasciare traccia. A guidare la moto era invece Roberto D’Inzillo, 17 anni, neofascista riparato in Sud Africa dove, due mesi dopo le rivelazioni su Emanuela Orlandi che coinvolgevano l’uomo che aveva ucciso, fu colpito da epatite fulminante cui seguì immediata cremazione.

De Pedis, classe 1954, aveva soltanto 36 anni ma era già il vero capo della Banda della Magliana. Con la sua morte si chiuse la prima saga dell’organizzazione criminale che a cavallo degli anni Ottanta si era radicata a Roma. Una criminalità organizzata potente e dai legami oscuri in tutto simile alla mafia, anzi punto di raccordo nella capitale di altre mafie, da Cosa Nostra alla camorra, cui era in grado di offrire una misteriosa rete di protezione che andava dai sevizi segreti al Vaticano.

Erano gli anni della guerra fredda e del terrorismo, la Banda si legò ai Neri stringendo patti su traffici di armi e rapine. Ma fu il rapimento di Massimiliano Grazioli, morto durante la detenzione, a fornire i due miliardi che consentirono all’organizzazione di tuffarsi nei più lucrosi traffici di stupefacenti e Roma divenne anche capitale della droga. Fu così che piccole gang di delinquenti di quartiere dai buffi soprannomi – er Gufo, er Palletta, Crispino, Gnappa, Rufetto – decisero di prendersi Roma: e se la sono davvero presa.

In questo contesto De Pedis fu un criminale anomalo, elegante e azzimato, un vero Dandy il cui aspetto era più simile a quello di un manager che a quella del trasteverino di umili origini che andava a caccia di vipere al Gianicolo. Vipere da rivendere in farmacia insieme a Fabiola Moretti, destinata anche lei a diventare un personaggio di spicco della Banda. De Pedis non beveva, non si drogava, non sperperava il denaro e neppure si sporcava le mani di sangue: erano i suoi uomini a uccidere. A dire di Fabiola fu Ciletto, poi coinvolto nel sequestro Orlandi, a uccidere per suo conto almeno cinque persone. Renatino era uomo di contatti altolocati, politici e istituzionali; il suo nome è legato a molti misteri italiani, dal rapimento di Emanuela Orlandi alle vicende del crack del Banco Ambrosiano.

Diciamo anzi che il rapimento della ragazzina vaticana, sparita nei pressi della chiesa di Sant’Apollinare dove frequentava la scuola di Musica, sarebbe proprio il frutto di un supremo ricatto a Papa Wojtyla per quei soldi spariti dalle casse dello Ior e poi definitivamente scomparsi nei paradisi fiscali o finiti in Polonia per finanziare Lech Walesa. Soldi che le mafie avevano investito nella Banca Vaticana per riciclarli e per usufruire di quegli interessi al 20 per cento che erano stati promessi. Invece quei soldi “erano entrati dalla porta ed erano usciti dalla finestra”, raccontò Manuzza, alias Nino Giuffrè, braccio destro di Bernardo Provenzano, al processo sull’omicidio Calvi.

La mafia ci aveva rimesso almeno 200 miliardi di lire, ma anche la Banda aveva depositato lì i proventi dei suoi traffici, 16 miliardi, che riuscì a recuperare grazie alla mediazione di De Pedis almeno sotto forma di proprietà immobiliari. La Casa del jazz, poi passata a Enrico Nicoletti, faceva parte dell’accordo.

Tra i misteriosi contatti di Renatino c’era Paul Casimir Marcinkus, il vescovo americano capo dello Ior, ma anche fedelissimo di Wojtyla di cui durante i viaggi gestiva la sicurezza con il mitra sotto la toga. Il vescovo, che non riuscì mai a diventare cardinale nonostante fosse in quegli anni l’uomo più potente del Vaticano per i suoi rapporti privilegiati con la Cia, divenne famoso per una frase lapidaria: “Non si serve la Chiesa soltanto con gli Ave Maria”. E l’amicizia con De Pedis non era certamente una giaculatoria. A raccontarlo nel 2008 fu Sabrina Minardi, la sua storica amante, a conoscenza di molti segreti del boss. “Fu Marcinkus a volere il rapimento della Orlandi”. Motivo? “Così chi doveva capi’ capiva, un po’ come fu per Calvi”. Ma come mai Renatino a poco più di 30 anni era il capo della banda della Magliana? “Beh, lo sapevano tutti che era l’uomo del Vaticano”.

De Pedis aveva la stoffa del capo e riusciva a sfruttare ogni occasione: in anni giovanili era finito a Regina Coeli e fu proprio lì che conobbe il cappellano del carcere, Don Vergari, futuro parroco della chiesa di Sant’Apollinare da dove sparì Emanuela Orlandi ma dove soprattutto fu seppellito lui, un boss ucciso su pubblica strada, in una sontuosa cripta collocata nei sotterranei di quella basilica minore che si trova alle spalle di piazza Navona. Una cripta abituata a ospitare principi e cardinali, anche se la tomba di De Pedis, tempestata di zaffiri e brillanti, non vi sfigurava affatto.

Quella tomba insieme a tutti i misteri di Sant’Apollinare fu considerata la prova che inchioda su quanto detto da Sabrina Minardi, che raccontò perfino di un incontro a casa di Giulio Andreotti che descrisse alla perfezione, quadri compresi: “Loro si appartarono nello studio, io rimasi con la moglie tanto caruccia”. Ma l’inchiesta fu archiviata, la bara rimossa dalla cripta e De Pedis cremato: quel cadavere era ormai troppo ingombrante ovunque si trovasse.

Non solo Marcinkus, anche Andreotti; ma come ci era arrivato il cacciatore di vipere? Un tramite fu sicuramente il cardinal Ugo Poletti, di cui Don Vergari era amico: fu lui a firmare il nulla osta per il trasferimento della salma del boss dal Verano a Sant’Apollinare.

Se De Pedis non fosse morto avrebbe pranzato con Sabrina alle 13 in un ristorante di Campo de’ Fiori dove erano soliti incontrarsi. Quando la donna sentì le sirene della polizia accorse in via del Pellegrino, capì ma non ebbe il coraggio di avvicinarsi. Accanto al cadavere in piedi, quasi stupito, una foto ritrae il giovane commissario Nicola Cavaliere che da anni cercava di rispedirlo in carcere mentre lui con la moto girava serafico per Roma, dopo che la Cassazione aveva cancellato con un colpo di spugna le condanne del primo processo sulla Banda della Magliana.

Nel frattempo il boss si era sposato con una brava ragazza figlia di un costruttore e si era trasferito in un bell’appartamento in piazza in Lucina; stanco di fare da spalla al potere, voleva entrare a farne parte. L’unica cosa cui non rinunciava erano i suoi incontri saltuari con Sabrina.

Il movente ufficiale dell’omicidio fu una volgare questione di soldi: si era rifiutato di dividerli a “stecca para” con i vecchi soci, dicendo che lui i soldi non se li era “pippati” ma li aveva investiti e dunque erano suoi. Inutile autodifesa, anche se era vero che con l’amico Massimo Carminati aveva messo in piedi un fiorente business con l’installazione delle macchinette mangiasoldi in molti locali. Il futuro capo di Mafia Capitale è il vero erede di Renatino, al quale ha cercato per tutta la vita di assomigliare, senza riuscirci per mancanza di carisma.

Soldi o no, De Pedis doveva morire. Tre mesi prima era caduto il Muro di Berlino, Marcinkus si era dimesso dallo Ior alla fine dell’anno. Un’era era finita, non c’era più bisogno di un boss che si portava cuciti addosso troppi segreti.

(Rita Di Giovacchino è anche l’autrice di Storie di alti prelati e gangster romani, Fazi Editore)