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Emanuele Piazza: 30 anni fa l’omicidio di un giovane cacciatore di latitanti

Emanuele Piazza: 30 anni fa l’omicidio di un giovane cacciatore di latitanti

Ancora oggi restano tante domande aperte sulle reali motivazioni del delitto

17 Marzo 2020

di Karim El Sadi

Un giovane poliziotto tradito da un amico e eliminato da Cosa nostra. Un caso di lupara bianca avvolto da omertà istituzionali, reticenze, depistaggi. E’ la storia di Emanuele Piazza, agente di polizia e collaboratore dei servizi segreti, assassinato il 16 marzo di 30 anni fa.
Scomparve la sera prima, il 15 marzo del 1990, da casa sua, a Sferracavallo (Palermo).
I familiari, l’indomani quando andarono a cercarlo, si accorsero immediatamente che qualcosa non andava. Al loro arrivo, infatti, trovarono la porta accostata, il frigorifero aperto e della pasta scotta, ormai divenuta colla. Come se chi l’avesse preparata si fosse allontanato improvvisamente, senza pensare a mangiare.
Da quel 16 marzo, di Emanuele, non si seppe più nulla. Il padre,
Giustino Piazza, noto avvocato di Palermo, decise allora di denunciare la scomparsa in Questura, proprio per la stranezza dell’assenza imprevista del figlio da casa. Ma la denuncia venne lasciata nel cassetto per mesi, mai letta.
Un vero e proprio muro di gomma che si innalzava di fronte a quell’uomo: nessuno aveva realmente intenzione di contribuire alla ricerca del figlio.
Per i superiori di Emanuele quell’improvvisa scomparsa aveva a che vedere con una fuga d’amore all’estero, un allontanamento legato a motivi passionali.
Un cliché che nel corso della storia si è consumato su diversi delitti eccellenti ed istituzionali. Anche da qui passa il depistaggio.
La famiglia, però, era convinta che dietro quella scomparsa doveva esserci altro, anche alla luce di quelle richieste ricevute di “mantenere un profilo basso” sulla vicenda. Il silenzio si ruppe sei mesi dopo la sparizione del giovane, quando il padre decise di rilasciare
un’intervista a Francesco Viviano, giornalista di Repubblica. In quell’inchiesta giornalistica Giustino Piazza rivelò tutta una serie di circostanze fino a quel momento taciute, come richiesto dalle autorità, inclusa quella relativa alla collaborazione del figlio con i servizi di sicurezza. “Mio figlio è morto, perché è stato illuso che prima o poi sarebbe diventato un vero agente segreto, ed il mio povero Emanuele c’è caduto. – disse al giornalista Viviano l’11 settembre 1990 – Dopo la scomparsa di mio figlio quelli del Sisde hanno tentato di minimizzare il suo ruolo, ma non hanno potuto fare a meno di ammettere che Emanuele lavorava per loro. So che mio figlio era inserito nei loro libri paga”.
L’ufficialità della collaborazione di “Topo”, questo il suo nome in codice, con il SISDE si ottenne solo dopo che si attivò
Giovanni Falcone. Il giudice, recatosi al Viminale, cominciò a condurre interrogatori, dai vertici fino in basso, e come risultato, quando tornò a Palermo il 22 ottobre 1990, trovò sulla sua scrivania il documento firmato dal prefetto Malpica che riconosceva il lavoro di Emanuele.
Il giovane poliziotto però non era un uomo dei servizi qualunque. La sua funzione era quella di ricerca di latitanti di mafia. Mansione, la sua, già ben nota alla Polizia che nella villetta del poliziotto trovò una lista, redatta su carta intestata del Ministero degli Interni, che conteneva i nomi di 136 latitanti, tra questi anche quello di
Totò Riina.
E sarebbe proprio questo il motivo per il quale Piazza venne tolto di mezzo. Ma potrebbe anche esserci molto di più, seguendo la logica di quella convergenza di interessi che spesso intreccia la mafia con altri segmenti di potere.
Del giovane poliziotto si parlò anche in relazione alla vicenda del fallito attentato all’Addaura contro
Giovanni Falcone, che sarebbe intervenuto assieme ad un altro agente di polizia, Antonino Agostino, anche lui cacciatore di latitanti e anche lui assassinato in circostanze poco chiare insieme alla moglie Ida Castelluccio il 5 agosto 1989.
Di quell’episodio, infatti, lo stesso poliziotto ne parlò tranquillamente con alcuni membri di famiglia, spingendosi tanto da dirsi
“sicuro che non era stata Cosa Nostra a fare quell’attentato ma c’entra la polizia”, come dichiarò il fratello Gianmarco a Repubbica. Quest’ultimo aggiunse inoltre che “dal giorno dell’Addaura mio fratello era diventato sempre più taciturno. E poi, dall’autunno del 1989, sempre più cupo. Era preoccupatissimo”.
Sempre il padre di Emanuele, deponendo al processo Capaci bis nel novembre 2015, aggiunse un ulteriore elemento: “Mio figlio mi disse che stava svolgendo degli accertamenti sulla scomparsa dell’agente Nino Agostino. Mi disse di avere dei sospetti, stava cercando di capirci qualcosa, ma non si mostrò mai preoccupato”.
Ed è qui che sorgono gli interrogativi.
E’ possibile dunque che Piazza venne eliminato perché venne a conoscenza di qualcosa sul misterioso attentato a Falcone? Oppure venne ucciso perché stava indagando proprio sulla morte del collega Antonino?
O semplicemente perché era un personaggio scomodo per la sua attività segreta di cacciatore latitanti?
Il collaboratore di giustizia Francesco Onorato, ex sicario del “gruppo di fuoco” di Salvatore Biondino, l’autista di Totò Riina, ha svelato ai magistrati i retroscena dell’omicidio dell’agente di polizia. Era lui l’amico che tradì Piazza il giorno della sua scomparsa.
Entrambi erano a conoscenza dei segreti dell’altro. Emanuele non nascondeva di essere un cacciatore di latitanti e Onorato non gli nascondeva di essere un mafioso (al tempo era reggente della famiglia di Partanna Mondello). Un “rapporto di fiducia” reciproca destinato a finire tragicamente.
L’ordine di assassinare Emanuele Piazza avvenne poco tempo più tardi quando Salvatore Biondino (reggente del mandamento della famiglia di San Lorenzo), Francesco Onorato, Salvatore Graziano e Simone Scalici si riunirono per parlare di affari davanti alla polleria di quest’ultimo.
Durante il loro incontro arrivò Piazza a bordo di una Honda di grossa cilindrata. Al suo arrivo Onorato lo raggiunse e lo salutò calorosamente sotto gli occhi di Biondino che, sorpreso della intima conoscenza tra uno dei suoi soldati e un uomo dei servizi segreti, ordinò a Onorato di eliminare “il crastazzo. Bisogna “affucarlu, disse.
Alla domanda dei Pubblici Ministeri su come Biondino fosse entrato in possesso delle informazioni relative a Emanuele, Onorato rispose: Mi disse questo… (Biondino, ndr) mi disse che lo aveva saputo dalle Istituzioni che era uno pericoloso e quindi bisognava… (…) Biondino aveva rapporti sì (con le istituzioni, ndr), perché diverse volte veniva, ‘sta sera non dormite a casa, perché c’è una perquisizione – oppure ci sono mandati di cattura – … Io, quando c’è stato il mandato di cattura Salvo Lima, non mi hanno trovato a casa…”.
Dalle parole del pentito, dunque, emergerebbe una causale che, però, non esclude le altre possibilità. Ed i quesiti, a tutt’oggi, permangono. Di certo c’è solo la morte di un poliziotto ambizioso con tanti sogni da realizzare. E una bara vuota che pesa sulle spalle dei familiari e di quei pochi che sin da subito intuirono che ci fosse qualcosa di più oltre all’ennesimo caso di lupara bianca.

Il delitto
Il racconto di Onorato proseguì partendo dal giorno del sequestro. Emanuele Piazza stava per sedersi a tavola quando Onorato bussò alla sua porta chiedendogli di accompagnarlo a Capaci, al magazzino di mobili di Nino Troia, dove avrebbe dovuto cambiare un assegno. Piazza andò con lui. Ad aspettarlo all’interno del capannone c’erano i boss Salvatore Biondo e Nino Troia che lo aggredirono e lo strangolarono. Il suo corpo venne in seguito portato in un casolare nelle campagne di Capaci e sciolto nell’acido.

Il processo
Le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante (ex uomo d’onore di San Lorenzo), hanno permesso di ricostruire passo per passo la vicenda di Emanuele Piazza. Le indagini vennero affidate al dottor Antonio Ingroia. Nel 2001 la Corte d’Assise di Palermo accolse quasi interamente le richieste di condanna dell’accusa rappresentata dallo stesso Ingroia e dal pm Nino Di Matteo. Inflitta la condanna a vita a Salvatore Biondino, Antonino Troia e Giovanni Battaglia. Solo la scelta del rito abbreviato risparmiò la massima pena a Salvatore Biondo e al cugino omonimo, a Simone Scalici, condannati a trent’anni. Tra gli esecutori materiali c’è anche Troia Erasmo, dapprima condannato in primo grado e in appello e poi assolto in Cassazione per un vizio procedurale nel procedimento di estradizione dal Canada. Mentre i pentiti Francesco Onorato e Giovambattista Ferrante, grazie allo sconto di pena per la collaborazione, vennero condannati a 12 anni.

fonte:http://www.antimafiaduemila.com/