Cerca

Ecco perché la ‘ndrangheta è una questione settentrionale

Ecco perché la ‘ndrangheta è una questione settentrionale

Secondo un dossier di Bankitalia quasi 8mila soci, azionisti o amministratori di aziende del Centro-Nord sono legati ai clan. Solo il 23% delle entrate delle ‘ndrine arriva dalla Calabria. I contatti con gli imprenditori borderline e il patto coi Casalesi sui rifiuti

23 novembre 2019

di Pablo Petrasso

LAMEZIA TERME Indizi, evidenze investigative, numeri. Tutto porta a confermare il paradigma: la “Questione settentrionale” si chiama ’ndrangheta. E ha modificato termini e modalità della propria presenza al Nord. La violenza degli omicidi sembra sparita, così come incendi nei cantieri, buste con i proiettili e bombe carta. «Sono drasticamente calati quelli che fino a ora consideravamo reati spia», riflette Alessandra Dolci – che guida la Procura antimafia di Milano – sul numero di ottobre di IL, mensile del Sole 24Ore. E, in effetti, i segnali sono cambiati. Cinque omicidi facevano da sfondo all’inchiesta Infinito, una delle pietre miliari sull’infiltrazione delle mafie al Nord; circa 500 intimidazioni o episodi simili erano lo scenario in cui si si muovevano gli inquirenti nell’indagine Insubria, sulla penetrazione delle ‘ndrine nel Comasco.
INDIZI: DA AFRICO A CANTÙ Oggi sono i reati economici a nascondere potenziali vicinanze criminali: fatture false, illeciti tributari e societari, violazioni delle norme sul riciclaggio, bancarotte fraudolente. Si inizia da un’inchiesta su illeciti finanziari e si finisce a elencare i nomi dei prestanome ben inseriti dalle mafie nel tessuto produttivo. La metamorfosi criminale e le operazioni dell’antimafia hanno modificato le compagini delle cosche. Dopo gli arresti arriva sempre una fase di transizione: un vuoto di potere che preoccupa e mette alla prova gli inquirenti. E qui arriva lo spunto investigativo sui tavoli dei pm della Dda di Milano. Con i capi storici finiti in galera, spesso i figli sono subentrati ai padri, ma in alcuni casi è stato necessario ricorrere all’innesto di nuove figure. È successo a Cantù, con l’arrivo di persone da Africo per sostituire i Muscatello. Una sostituzione che si materializza poco dopo l’agguato a Ludovico Muscatello, nipote del boss di Mariano Comense Salvatore. Si salva, scompare per un po’ e poi chiama il suo grande rivale, Giuseppe Morabito. Per uno degli inquirenti, le cui parole sono state riportate da La Provincia di Sondrio, «da uomo d’onore, Muscatello riconosce la supremazia di Morabito e accetta di abdicare, rendendosi conto del mutamento degli equilibri».
EVIDENZE: TUTTI GLI OCCHI SUI RIFIUTI «Si stanno buttando tutti sul traffico dei rifiuti. Dalle indagini emerge l’interesse di quasi tutte le cosche verso questo settore: otto su dieci», spiega ancora Dolci a IL. Indirizzo investigativo diventato un’evidenza quando l’operazione “Feudo” ha tracciato le rotte dei camion dei veleni: 24 viaggi, circa 600 tonnellate di scarti. Erano rifiuti indifferenziati provenienti dalla Campania e arrivati in Calabria – tramite un traffico il cui vertice risiedeva in Lombardia – dove venivano scaricati e smaltiti “tal quali”, cioè senza nessun trattamento. Sono quattro i siti del Lametino citati nelle carte dell’inchiesta: quello della società Eco.lo.da a Gizzeria, quindi la “Cava Parisi” in località Caronte, la vicina “Cava Liparota” e l’impianto Eco Power, sempre a Lamezia. La prima fase dell’inchiesta si è chiusa in ottobre, ma il lavoro prosegue così come l’espansione della presenza ‘ndranghetista nel settore. Il traffico illecito di rifiuti significa montagne di soldi. Il sistema si alimenta grazie ai contatti con imprenditori lombardi borderline, intermediari ed esponenti della criminalità campana. La pista seguita è quella di un patto criminale tra i clan calabro-lombardi e i Casalesi. Patti ad alto valore aggiunto e a (relativo) basso rischio: le pene per questi reati vanno da uno a sei anni.
NUMERI: UN ESERCITO PER “INQUINARE” L’ECONOMIA LEGALE I numeri sono impressionanti. La presenza della criminalità mafiosa in un’area del Paese può ridurre il Pil pro capite del 16% su base trentennale. Un dato che gli studiosi conoscono da anni. Gli si affianca, nello studio firmato “The real effects of ‘ndrangheta”, firmato da Bankitalia, un elemento nuovo, risultato dell’analisi statistica dei tecnici di Palazzo Koch. Sono quasi 8mila i soci, azionisti o amministratori di 9.200 aziende del Centro-Nord legati da vincoli familiari a clan ‘ndranghetisti. L’indicatore statistico permette – è l’idea alla base del dossier – di identificare i marchi i cui quadri dirigenziali condividono il cognome e l’area di provenienza tipica della ‘ndrangheta. Questo, per i ricercatori, potrebbe aumentare la probabilità che l’azienda sia infiltrata dai clan. Lo studio offre spunti di analisi sulle modalità di infiltrazione: le cosche calabresi, infatti, hanno la tendenza a mettere nel mirino ditte caratterizzate da un aumento della vulnerabilità finanziaria negli anni precedenti l’arrivo delle ‘ndrine sul ponte di comando. Altro aspetto significativo: con l’arrivo degli “imprenditori” mafiosi aumentano i posti di lavoro ma non gli investimenti. Dopo una breve vita – è questo il modus operandi individuato – le imprese rilevate dal clan escono fuori dal mercato: un segno che gli investimenti in business legali vanno avanti fino a quando consentono di ripulire il denaro sporco. Ancora numeri: gli 8mila soci indicati dall’analisi sono lo 0,2% del totale degli imprenditori e lo 0,7% del totale delle imprese di questa intera area del Paese. Le aziende hanno prodotto nel 2016 quasi il 2% dei ricavi totali delle società del Centro-Nord: circa 42 miliardi di euro. Cifre mostruose, che rafforzano l’idea di una holding globale. Solo il 23% delle entrate delle ‘ndrine sarebbe ormai realizzato in Calabria, a fronte di oltre il 60% per Cosa nostra in Sicilia e per la camorra in Campania. La questione è settentrionale. (p.petrasso@corrierecal.it)

fonte:https://www.corrieredellacalabria.it/