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Droga, omicidi e poteri occulti. La quinta mafia assedia Latina. Un territorio malato e con molte complicità nella politica e nelle istituzioni con le mafie

LATINA – Se c’è un posto oggi in Italia dove vale il detto che «la mala si mafia», dove si applica cioè alla lettera il vangelo della Magliana, questo posto è Latina. Sono questi portici sghembi, queste ariose piazze littorie, questi centri commerciali da urlo -giganteschi e laccati-, questi nuovi quartieri già slabbrati dal tempo e da qualche pallottola, questa gente placida e civile eppure – se necessario, se la paura monta – taciturna fino all’omertà.Non valgono, per una Latina così linda e indecifrabile, le vecchie mappe dei clan mafiosi che assaltano il Sud del Lazio, i Casalesi, i Tripodo, i Di Maio, i Mendico. Non valgono perché Latina non è il Sud del Lazio, non è Fondi, non è Formia, non è Terracina: è qualcosa di diverso e di complicato, e forse anche di più inquietante. Perché Latina non consente mappe, tanto gli equilibri e i poteri -anche i più occulti- continuano a muoversi e a frammentarsi.

Valgono piuttosto le poche parole di Nicolò D’Angelo, il Questore, uno che la malavita l’ha conosciuta da giovane poliziotto per le strade: «Se cediamo qui, se il contrasto non sarà abbastanza forte, per la mafia s’aprirà un’autostrada verso Roma». Come valgono le amare constatazioni del Procuratore aggiunto Nunzia D’Elia: «Non ho difficoltà ad ammettere che registriamo un atteggiamento poco collaborativo da parte dei cittadini…».
E’ accaduto qualcosa di spaventoso, qui a Latina, qualcosa di terribile, e non si capisce se sia già tutto finito o se invece siamo soltanto all’inizio. Qualcosa che è passato beffardamente sotto silenzio sui giornali, in tv, ma della cui gravità si coglie bene l’eco sia nelle parole del questore sia in quelle del procuratore D’Elia.

E’ successo tutto in 36 ore, fra le 8.20 di lunedì 25 gennaio e le 8.20 della sera del giorno dopo. Un buco nero di pallottole, di cadaveri, di misteri, che dopo un mese siamo ancora qui a chiederci perché, perché a Latina, perché con questi metodi da guerra di mafia degli anni ’80. In rapida successione, a cominciare dalle 8.20 di quel mattino, tendono un agguato a Carmine Ciarelli, 44 anni, una «leggenda dell’usura», come lo chiamano gli investigatori; uccidono Massimiliano Moro, 45 anni, che a Ciarelli doveva sicuramente qualche decina di migliaia di euro, e sono già le undici di sera minuto più minuto meno; freddano con tre colpi di pistola, di cui uno alla testa -giusto all’ora di cena- Fabio Buonamano, 33 anni, uno dei tifosi storici del Latina Calcio e anche lui con qualche discreto passato con la giustizia. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito.

Latina all’improvviso apre gli occhi. E ricorda chi sono i Ciarelli, di quando Carmine -che compare sì nei rapporti dell’Antimafia, ma che al suo attivo può vantare anche una discreta serie di assoluzioni, l’ultima a novembre- ebbe a proclamare: «Presto denaro a chi lo sperpera al gioco e con la droga. Gente che non merita di essere aiutata…». E di quando ai Ciarelli, diventati ingombranti, vennero a bussare addirittura i Casalesi, agli inizi degli anni ’90, per chiedere la giusta tassa proprio sui redditi dell’usura. E minacciarono di uccidergli «un figlio al giorno».

Buonamano e Moro, quindi, eliminati da qualcuno solo per ristabilire le gerarchie? Non si può dire ancora, anche se è proprio di ieri l’arresto a Cassino di Romolo Di Silvio, formalmente accusato dell’omicidio di Buonamano. Non bisogna perdersi in questo ginepraio, conviene tenere piuttosto conto che spunta un altro cognome decisivo, quello dei Di Silvio. Di Silvio e Ciarelli, Ciarelli e Di Silvio, gli ultimi quindici-vent’anni della vita illegale di Latina sono stati scanditi da questi due cognomi.

Hai voglia a dire «zingari». Sì, è vero sono appartenenti a etnie rom provenienti dall’Abruzzo, ma ormai da cinquant’anni e passa sono qui, in qualche modo dettano legge. La vulgata vuole, ad esempio, che i Di Silvio siano autorizzati a girare in motorino anche senza casco e che i Ciarelli abbiano una loro precipua specialità, quella di acquistare panifici, direttamente a indirettamente intestati. Poi ci sono i chioschi al mare, che Latina ha il suo bel mare, ma quella è un’altra storia, si fanno e rifanno bande d’appalto senza venirne veramente a capo.
I Ciarelli e i Di Silvio sono l’esempio di quella struttura «leggera e flessibile» che si richiede per il controllo di una città come Latina, quasi un paradigma della Quinta mafia che si legge sui libri. Gente che sa bene mantenere gli equilibri, che quando entra in rotta di collisione con i “napoletani” fa scendere giù i Casamonica da Roma -accadde a metà degli anni 90- a stendere solenni verbali di armistizio.

E la droga? E l’edilizia? E la politica? Che tracce lasciano i Ciarelli e i Di Silvio? La cocaina, che pure dilaga come nel resto d’Italia, «arriva al trenta per cento dal Sud e il resto dal mare» sentenzia l’avvocato Carlo Melegari, penalista affermato in città, e ovviamente grande conoscitore della criminalità locale. L’edilizia è un mare magnum difficile da indagare, si continua a dire che Latina, con i suoi 117mila abitanti, è dotata di piani di fabbricazione per almeno altri 80mila residenti, e che quindi si continua a costruire alacremente. Ma come distinguere i nomi veri da quelli finti?

La politica, infine, terreno scivolosissimo, perché pieno di successi inaspettati, di preferenze improvvisamente calamitate su sconosciuti, gente che si fa peccato anche a pronunciarne il nome. Gente che ha indotto il vescovo della diocesi, monsignor Giuseppe Petrocchi, a pronunciare due anni fa uno storico discorso: «Mi è sembrato che non pochi approdassero all’agone politico senza alcune preparazione né prossima né remota… Mi veniva spontaneo domandarmi quali fossero le motivazioni trainanti e le strategie sottese di quegli ingaggi a tempi determinato…un debutto politico repentino, senza un tirocinio adeguato e circoscritto alla semplice tornata elettorale non può che sollevare motivati dubbi e suscitare qualche ragionata inquietudine».Staffilate senza pietà. Che sembrano né riguardare, né cogliere di sorpresa il sindaco Vincenzo Zaccheo, figlio della Bonifica doc, An di estrazione, parlamentare per tre legislature e alla guida del Comune da due. «Questa è una città sana», proclama Zaccheo. Ma si capisce che fa parlare solo il cuore.

Nino Cirillo

(Tratto da Latina24ore)