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Domenico e il “pizzo” della camorra

Domenico e il “pizzo” della camorra

a cura di Massimiliano Noviello e Alessia Pacini

6 APRILE 2020

Domenico Noviello ha un’autoscuola che gestisce insieme al figlio, Massimiliano. È il 2001 quando la Camorra inizia a interessarsi alla sua attività. L’obiettivo del clan era chiaro: il pizzo. Domenico, insieme alla famiglia, decide di denunciare e di aiutare la giustizia. Grazie alla sua collaborazione, cinque affiliati vengono arrestati, tra cui Pasquale Morrone, Alessandro e Francesco Cirillo, oggi condannato a 30 anni di carcere.

È il 16 maggio 2008 e Domenico si sta recando a lavoro, quando due sicari affiancano la sua macchina, aprendo il fuoco. Domenico cerca di fuggire, ma non ci riesce. Viene ucciso da 22 colpi di pistola e finito con tre colpi alla nuca: il mandante è Giuseppe Setola, dei Casalesi.

Quando vidi il corpo di mio padre a terra iniziai a farmi delle domande. Perché mio padre fu ucciso? Per quale motivo arrivammo a quel punto? Capii subito che la causa dell’uccisione di papà fu l’isolamento. Un pensiero che divenne poi sempre più chiaro quando iniziai a conoscere le storie delle persone del coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità. Cercavo una risposta e trovai una conferma: ad accomunarle tutte era l’emarginazione.

Tutto ebbe inizio nel 2001. Io e mio padre gestivamo un’autoscuola, un’agenzia di pratiche auto e una scuola nautica a Castel Volturno che fa mediamente 25.000 abitanti. Prima del decreto Bersani, per ogni comune ci doveva essere un’autoscuola ogni 25.000 abitanti e quindi la nostra era la sola attività di quel tipo sul territorio. Un dettaglio importante per la mia storia.

L’autoscuola si trovava accanto al commissariato di polizia, a soli 100 metri di distanza dalla caserma dei carabinieri, ma questo non fece alcuna differenza quando, nel periodo di Pasqua, ricevemmo la visita da parte della criminalità organizzata. Il perché fu subito chiaro: volevano il pizzo, la tassa della tranquillità. Il primo a essere avvicinato fui io. A scuola entrò un mio coetaneo, dicendomi di dover duplicare la patente, ma la verità era un’altra: suo cugino era latitante e voleva parlare con mio padre. Era una richiesta insolita, mi allarmai. Quel giorno papà stava svolgendo delle pratiche ed era fuori ufficio, gli riferii l’accaduto quando rientrò. Da genitore, mi tranquillizzò: “non ti preoccupare, vediamo cosa succede”, mi disse.

La seconda volta arrivarono in due: il messaggio era chiaro e iniziammo a riflettere su ciò che stava accadendo. Ci vollero far capire che alle spalle avevano un’organizzazione criminale, non era il volere di un singolo individuo. All’epoca si poteva ancora pagare in lire e ce ne chiesero 30 milioni. Mio padre temporeggiò, prese tempo e ne discutemmo in famiglia. La sua posizione era chiara: non avrebbe pagato. Non si trattava di una questione economica, ma di dignità.

Fu a questo punto che gli feci notare quel dettaglio: dati gli abitanti di Castel Volturno, la nostra era la sola autoscuola nel comune, con una media di cinquecento patenti l’anno. Se la nostra fosse stata una famiglia diversa, si sarebbe messa d’accordo con la criminalità organizzata. Ma mio padre non solo decise di non pagare il pizzo e non chinare il capo a chi con la forza voleva togliergli la libertà, decise anche di collaborare con la giustizia. Nonostante il commissariato di polizia fosse proprio accanto all’autoscuola, decidemmo di parlare con la squadra mobile di Caserta, perché ci lavorava una persona che conoscevo. Dovemmo denunciare entrambi perché entrambi fummo avvicinati. Scoprimmo così che il cugino di questo mio coetaneo ricopriva un ruolo importante nella mafia locale e l’obiettivo della squadra mobile era incastrare manovalanza e capi. Mio padre era molto preoccupato: è insolito che a esporsi per una stessa denuncia siano due persone, in quella situazione addirittura padre e figlio.

Dopo la denuncia nell’autoscuola furono installate microspie e telecamere, fuori si trovava un furgone con agenti che registravano tutto, dovevano essere colti in flagrante. Inizialmente non fu facile raccogliere le prove: queste persone entrarono per parlare con mio padre e il mio compito era quello di far avviare la registrazione. Nel 2001 le attrezzature non erano avanzate come quelle di oggi e in un’occasione non si ottenne alcuna prova e con una scusa mio padre dovette farli tornare per far ripetere la richiesta.

Una volta ottenuta la registrazione, concordammo la data di consegna del denaro. Dal Ministero non arrivarono in tempo le banconote, quindi dovemmo svincolare delle somme personali, ogni banconota venne fotocopiata e siglata da mio padre. L’appuntamento fu dato in un bar. Dopo aver consegnato i 30 milioni di lire mio padre uscii fuori e si toccò la testa con la mano: era il segnale per la mobile. Queste persone furono arrestate sul posto e condannate a sette anni di galera, di cui scontarono solo quattro grazie all’indulto.

Da quel momento, noi perdemmo la serenità. Mio padre era più protettivo e presente. Non temevamo per la nostra incolumità, ma ci aspettavamo danni all’immobile, alle attività, ai veicoli. Dopo la denuncia io e mio padre usufruimmo del porto d’armi per difesa personale. Avevo venticinque anni e per difendermi dovevo camminare con una pistola 9×21, dovevo iniziare a guardarmi intorno, a osservare i veicoli intorno a me. A venticinque anni si pensa alla discoteca, ai locali a divertirsi, non si pensa di poter perdere la serenità.

A mio padre venne anche data una sorta di tutela, tolta dopo tre anni e sostituita con una saltuaria vigilanza. Nei primi sei mesi dall’arresto subimmo anche un danno economico a causa di un calo degli iscritti, ma fu temporaneo perché poi nel tempo le cose si tendono sempre a dimenticare. Venimmo però isolati dalla cittadinanza, dalle associazioni di categoria: nessuno fece una dichiarazione a nostra difesa, né tanto meno l’associazione commercianti, niente. Fummo isolati, senza che ce ne rendessimo conto. Ma il nostro obiettivo era continuare a fare il nostro lavoro.

Passò del tempo e dopo sette anni, il 16 maggio del 2008 mio padre venne barbaramente assassinato con oltre ventidue colpi di arma da fuoco: furono in dieci a uccidere un uomo di 64 anni. Persi la mia guida, persi il solo amico che mi era rimasto a fianco dopo la denuncia.

Quella mattina ricordo che io uscii prima di mio padre perché mio cognato mi chiese di andare a correre con lui. Abitavamo nella stessa casa, una villetta a due piani e spesso ci recavamo a lavoro insieme, fu una fatalità per me non uscire con lui. Quando rientrammo, mio cognato mi disse che mio padre aveva avuto un incidente a Baia Verde, a un chilometro da casa. Mi misi in macchina e iniziai a telefonargli: ero arrabbiato e agitato, ma mai mi sarei aspettato di arrivare e vedere mio padre in una pozza di sangue.

Non fu facile spiegare ai miei figli che il loro nonno non c’era più. Ancora oggi mi chiedono perché nonno Mimmo, un nonno così giovane, sempre attivo, che amava giocare con i nipoti, sia stato portato via da loro. Vivevamo con i miei genitori e improvvisamente quella casa divenne più vuota per i miei figli. La morte per i bambini è difficile da comprendere. Una morte così, impossibile.

Quello fu un periodo stragista. Nel 2008 ci furono diciotto omicidi, tra cui anche la strage dei nigeriani. In quel periodo l’attenzione mediatica era molto alta, quindi l’allora Ministro degli Interni Maroni con il sottosegretario Alfredo Mantovano decise di mandare l’esercito nelle nostre zone. L’obiettivo era quello di trovare questi delinquenti e così nacque un nucleo operativo a Casal di Principe. I criminali vennero individuati, arrestati e poi condannati. Questo non mi ridà papà, ma posso dire di sapere i nomi dell’esecutore e del mandante del suo omicidio. Non tutti i parenti di vittime di mafia possono dire lo stesso.

Io e la mia famiglia ci siamo costituiti parte civile nel corso del processo, insieme al Ministero degli Interni, a varie associazioni antiracket, al comune, alla regione e al comitato Peppe Diana. Durante il processo scoprimmo che mio padre fu ucciso per due motivazioni: aveva osato sfidare il clan e per questo doveva morire, ma anche perché era molto conosciuto sul territorio la sua morte doveva servire da monito per gli altri imprenditori. Il messaggio che volevano trasmettere era chiaro: questa è la fine che fanno gli imprenditori che vogliono sfidare la criminalità organizzata.

Non è facile comunicare il dolore e la rabbia di sentirsi lasciati soli, isolati. È stato l’isolamento ad aver trasformato mio padre in un bersaglio, sovraesponendolo. Dopo due giorni dalla morte di papà conobbi Tano Grasso: mi disse che il suo progetto era quello di fondare un’associazione antiracket in suo nome, la F.A.I. Fui onorato di poter partecipare a un progetto del genere, avere la possibilità di dare una mano ad altre vittime del racket, poter accompagnare gli imprenditori nelle aule per i processi, aiutarli con l’assistenza legale e nel risarcimento in caso di danni economici, come previsto dalla legge 44/49. Non ci sono scuse per non denunciare. Oggi sono il Presidente dell’associazione antiracket di Castel Volturno, Presidente onorario dell’associazione antiracket della Campania. Non mi tiro indietro nelle scuole e nel portare testimonianze perché è importante che ci sia un cambiamento ed è importante conoscere queste storie affinché non si ripetano, è cruciale che i ragazzi lo capiscano.

Papà è stato insignito della Medaglia d’oro al valore civile, la massima onorificenza che si dà a un civile, io ne sono onorato, ma mio padre è stato premiato per aver fatto semplicemente il proprio dovere. La verità è che dev’esserci un cambiamento di tendenza: la normalità dovrebbe essere la denuncia, sempre. Oggi non c’è bisogno di sovraesporsi, ci sono molti metodi e anche molto semplici come inviare una Pec o un’email alla procura: i canali non mancano.

Si è soliti associare la criminalità a un uomo con il mitra e la pistola, ma oggi la mafia si nasconde dietro ai colletti bianchi. Non è un caso che Giuseppe Setola, uno dei mandanti dell’omicidio di mio padre, si trovasse fuori dal carcere nel 2008. Setola era recluso al 41 bis ma, per 50mila euro, un medico compiacente dichiarò il falso facendolo trasferire in una clinica perché potesse godere delle cure adeguate. Da qui Setola scappò per commettere diciotto omicidi. L’obiettivo era trasmettere un segnale al territorio: alcuni collaboratori stavano iniziando a infangare il clan, che stava perdendo credibilità. L’ultimo di questi omicidi fu quello di mio padre.

Quando parlo ai ragazzi cerco sempre di trasmettere questo messaggio: mio padre è stato ucciso perché lasciato solo ed è contro l’isolamento che dobbiamo sensibilizzare. Penso che il territorio non abbia bisogno né di simboli né di eroi, penso che basti fare il proprio dovere. Cerco di far capire ai ragazzi che ciò che è successo a me può succedere di nuovo e spiego loro la nuova pelle della mafia: mentre prima chiedeva denaro sotto forma di estorsione, oggi invece dà servizi. Un esempio molto semplice sono i sacchetti della spesa: se distribuiti in maniera capillare per Castel Volturno, si ottiene il monopolio sul territorio, ormai contaminato. In questi casi, non si riesce più a inserirsi con attività legali. Per questo motivo insieme a Gennaro di Prete, conosciuto all’interno del coordinamento dei familiari delle vittime, ho creato “Cop21”, una cooperativa che si occupa di commercializzazione e diffusione di shopper biodegradabili e compostabili. Insieme a Legambiente abbiamo girato lo spot “Un sacco giusto” con Fortunato Cerlino, l’attore che interpreta don Pietro Savastano in Gomorra. Volevamo veicolare il messaggio a tutti e far riflettere su come dietro a un sacco della spesa si può nascondere la mafia che gestisce il monopolio della plastica, non solo al sud ma in tutta Italia. Si pensa che la filiera legale arrivi a perdere un fatturato di oltre 160milioni di euro.

Mio padre è stato riconosciuto da subito come vittima innocente, non ho dovuto lottare: basti pensare che la Medaglia d’oro al Valore civile gli è stata data il 17 marzo del 2009 e il processo non era ancora iniziato. Quindi era già un dato di fatto: il Ministero gli ha riconosciuto la massima onorificenza prima della sentenza e non avevamo nessun dubbio su quale fosse la causa. Mi chiesero anche se volessi entrare nel programma di protezione, ma rifiutai. Ricordo che Alfredo Mantovani me lo chiese due volte e la mia risposta fu negativa: non dovevo essere io a cambiare nome e cognome, hanno un’importanza e una storia e non sono io a dover scappare dal territorio, non sono io che devo fuggire.

Spero che l’esempio di mio padre venga portato avanti: dopo un anno si viene dimenticati, dopo undici eliminati. Io, invece, voglio che il messaggio si faccia sempre più forte: si può e si deve lottare, insieme.

Fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/