Il “Mondo di sopra” nell’Agro pontino
Abusi e affari nella Las Vegas del Golfo
Silenzio e omertà

Il “Mondo di sopra” nell’Agro pontino
di ANDREA PALLADINO
LATINA – C’è un asse che attraversa il litorale laziale a sud di Roma. Parte da Nettuno, l’unico Comune sciolto per mafia prima del municipio di Ostia, nell’estremo sud dell’area metropolitana. S’infila sulla Pontina, avvolge Latina, attraversa le spiagge a la mode tra Sabaudia e San Felice al Circeo, per terminare a Fondi, la città che per il prefetto di ferro Bruno Frattasi era stata governata per anni da una struttura amministrativa infiltrata da ‘ndrangheta e camorra. Interseca l’area del confine meridionale, tra il golfo di Gaeta e il Garigliano, ex Terra di Lavoro, dove le code delle automobili la domenica sera, dopo la chiusura degli stabilimenti, puntano tutte verso Caserta e l’agro aversano. Non c’è un confine ben definito; è un territorio liquido, magmatico, che cambia conformazione ed alleanze. A cavallo tra la provincia di Frosinone  –  devastata da una industrializzazione sovvenzionata e clientelare, che ha lasciato una sorta di deserto dei tartari  –  e la costa d’oro degli investimenti milionari sempre più sospetti, la provincia di Latina è il fronte più caldo. E mentre a Roma inizia il processo del secolo a Mafia Capitale, il Sud Pontino appare sempre di più come un avamposto, con un “mondo di sopra” solo sfiorato dalle inchieste, protagonista di una sorta di grande camera di compensazione dei sistemi criminali.

Oro e tritolo. Mettendo in fila le cifre degli ultimi sequestri di beni riconducibili ad organizzazioni criminali in provincia di Latina si ha la cartina tornasole della potenza delle mafie in questo territorio. Solo qualche giorno fa la squadra mobile del capoluogo pontino e lo Sco hanno messo le mani su 12 milioni di euro riconducibili al gruppo dei Di Silvio. Tra Formia e Sperlonga investiva il re delle ecomafie, l’avvocato Cipriano Chianese ritenuto dalla Dda di Napoli la mente dei grandi traffici di rifiuti del cartello dei casalesi. E ancora, centinaia di milioni sequestrati in pochi anni ai clan più pericolosi di camorra, come i Mallardo, gruppo che puntava al Sud Pontino per riciclare e investire.

Latina, per l’antimafia, è anche un vero e proprio hub delle droghe. Un mese fa la Dda di Reggio Calabria, in coordinamento con la Direzione nazionale antimafia, ha colpito il clan Comisso Macrì di Siderno, che gestiva una rete internazionale di narcotrafficanti. Il cuore operativo, secondo i magistrati, era in un magazzino di fiori nella periferia di Latina di proprietà della famiglia calabrese Crupi. Più a sud, a Fondi, opera da decine di anni il principale mercato ortofrutticolo del centro Italia, il Mof, per due volte finito nel centro di un’inchiesta della Dia di Roma: il monopolio dei trasporti della frutta e verdura destinata a mezza Europa era, secondo l’Antimafia, in mano ad un cartello gestito dalla Camorra e da Cosa nostra, con un ruolo importante giocato dai corleonesi. E sempre a Fondi era diretto un carico di tritolo, intercettato in Puglia dalla Guardia di Finanza pochi mesi fa, pronto ad essere utilizzato per un attentato ad un imprenditore del mercato della frutta.

Mafia militare, che punta al controllo del territorio, piazzando veri e propri “soldati”, “da Sperlonga fino a Roma”, come raccontava già nel 1996 Carmine Schiavone. Una vecchia generazione in gran parte nota che oggi è affiancata da un piccolo esercito di giovanissimi, pronti a far sentire la loro presenza ovunque. Nelle discoteche, fuori dalle scuole, nelle risse e sui tavoli dei bar che si affacciano sulle spiagge più note.

Latina nera. Latina è un laboratorio prima di tutto politico. Qui si sperimentano le alleanze che poi governeranno la destra nel Lazio. È il serbatoio di voti che l’area dell’ex Pdl si contende e si spartisce, passando per accordi, rotture, patti segreti. Da sempre. L’inchiesta “Don’t touch” condotta dalla squadra mobile diretta da Tommaso Niglio ha però aperto un nuovo fronte. Attorno alla più classica macchina da guerra del consenso, la squadra di calcio che milita in serie B, è cresciuto un gruppo criminale pericoloso e feroce. Sono i Ciarelli-Di Silvio, di origine Sinti e parenti diretti dei Casamonica romani. Negli anni ’90 hanno avuto contrasti diretti con i casalesi che spingevano dal Sud Pontino per entrare nel capoluogo. Carmine Ciarelli, uno dei re di Latina, nel 1996 denunciò un tentativo di estorsione da parte dei Mendico, gruppo legato direttamente a Michele Zagaria. Chiedevano 50 milioni di lire al mese per “mettersi a posto”. Iniziò una piccola guerra e i Sinti mantennero il loro potere, crescendo e dominando la città. Nei negozi alla moda di Latina bastava una loro telefonata per avere migliaia di euro in vestiti di marca, senza pagare nulla.

I Di Silvio hanno basato il loro potere – e il consenso, quel misto tra ammirazione e sottomissione – sullo sport per eccellenza. Prima la squadra amatoriale del Campo Boario, cresciuta attorno alla zona del Pantanaccio, il quartiere controllato millimetricamente dalla famiglia. Poi il grande salto, il Latina calcio, dove “Cha cha” univa le funzioni di magazziniere con quelle, più di peso, di capo indiscusso della tifoseria. Era lui a decidere chi entrava nello stadio, si legge nelle intercettazioni ambientali dell’inchiesta che ha portato a metà ottobre a 24 arresti e al sequestro di una ventina di imprese, per 12 milioni di euro. Lo faceva forte del rapporto quasi simbiotico  –  e simbolico  –  con il presidentissimo Pasquale Maietta. Deputato di Fratelli d’Italia, un passato da nero doc, il politico di Latina oggi si alterna tra la squadra alle prese con il campionato in B, il ruolo di tesoriere del partito alla Camera e la professione di commercialista. Quando a Latina un anno fa minacciarono pesantemente il giudice Lucia Aiello, Maietta preferì passeggiare per Latina insieme a “Cha Cha”, il leader emergente del gruppo criminale in ascesa dopo le condanne del processo Caronte che hanno colpito duramente la famiglia dei Ciarelli. E a chi faceva notare l’inopportuna vicinanza Maietta mandava lo stesso Costantino Di Silvio, per risolvere la questione. Un episodio che è costato al deputato l’iscrizione nel registro degli indagati per minacce.

In una città sventrata da un’urbanistica speculativa, con un sistema di gestione dei rifiuti in eterna crisi, dove l’aggregazione avviene sostanzialmente attorno ai negozi, i sistemi criminali giocano  in casa. Quando il “mondo di mezzo” è in grado di garantire consenso, voti e affari al “mondo di sopra”, il gioco è fatto.

Abusi e affari nella Las Vegas del Golfo
di MONICA D’AMBROSIO e ANNA DI RUSSO
FORMIA – 16 sale da gioco, 32 esercizi commerciali in possesso di slot machine e video poker, una macchinetta ogni 70 abitanti. Benvenuti a Formia, la città dove i suoni ricordano Las Vegas.  Le luci invece, abbagliano fino a eclissare le bellezze di un golfo sul quale un tempo comandava solo il mausoleo di Cicerone. Fino al 2014 hanno ottenuto il permesso di aprire 3 esercizi al mese. Una media che batte ogni altra città italiana. Una leggera inversione di tendenza si è registrata nell’ultimo anno grazie ad una serie di provvedimenti adottati dal Comune tesi a scoraggiare gli imprenditori del gioco. “Registriamo orgogliosi un meno 15% di richieste di rilascio di Dia”, dice soddisfatta l’avvocato Patrizia Menanno, assessore con delega alla legalità del comune. “I Casalesi – dice – si arricchiscono sulla salute della nostra popolazione”. Eppure proprio il Comune di Formia è appena uscito sconfitto da una contenzioso finito sui tavoli giudiziari. Il Tar ha respinto gli atti dell’amministrazione impugnati da uno dei gestori delle sale giochi contro gli orari rigidi di apertura imposti da un regolamento comunale. Tra le motivazioni che hanno convinto il tribunale ad accogliere l’istanza del gestore, quella secondo cui il regolamento impugnato dal Comune è incoerente con la tendenza dello stesso ente a rilasciare facilmente (almeno fino al 2014) licenza di attività ai richiedenti. “Rispettiamo la decisione del Tar – spiega l’assessore – ma la nostra battaglia andrà avanti per ripristinare la legalità”.

Ma la Las Vegas del Sud Pontino sembra sia diventata terra d’affari e di conquista per mafie e associazioni a delinquere composte anche da politici e dirigenti che si sono macchiati di concussione, peculato abuso e omissione di atti d’ufficio. Una brutta storia di lottizzazione abusiva, false perizie, omissioni di controllo per edificare residence, rimettere a nuovo pastifici, supermercati e per dare appalti. A giorni il Gup del Tribunale di Latina deciderà se rinviare a giudizio i 20 membri della macchina amministrativa che secondo il pm titolare delle indagini, Giuseppe Miliano, avevano messo i piedi un vero e proprio “sistema Formia”.

Un sistema poi non così diverso da quello scoperto dai carabinieri della stazione di Sperlonga che vivono addirittura in una caserma sequestrata assieme a 149mila metri quadrati di costruzioni abusive su ordine della Procura di Latina. Tra gli indagati ci sono anche elementi di spicco della vita politica e amministrativa della perla del Sud Pontino. Uno di questi è Armando Cusani, già presidente della provincia di Latina, sindaco della città sotto i riflettori della Procura e condannato solo poche settimane fa in via definitiva per un altro abuso: la costruzione del maestoso hotel Grotta di Tiberio in violazione alle norme paesaggistiche e ambientali. All’epoca cui fa riferimento l’indagine, Cusani era sindaco di Sperlonga e, secondo le accuse formulate dalla Procura (e per ora da riscontrare) insieme al progettista Luca Conte e al responsabile dell’ufficio tecnico Antonio Faiola, attualmente in pensione, avrebbero approvato nel 2001, con l’avallo degli uffici regionali competenti e attualmente sotto la lente degli investigatori, un Piano Integrato con lo scopo di edificare un’area per lo più destinata ad opere di uso sociale. Di sociale, però, è stato edificato ben poco. Appunto la caserma dei carabinieri, un centro per anziani, strade e aiuole. Negli anni però, le cooperative e società entrate nel progetto hanno realizzato abitazioni di lusso acquistate da famiglie soprattutto casertane e napoletane, tra cui spiccano nomi di eccellenza come quello degli Zagaria. Accuse pesanti quelle dalle quali è chiamato a difendersi l’ex presidente della provincia. L’indagine era partita dalle denunce di alcuni imprenditori del posto, secondo i quali per poter ottenere un permesso a costruire era necessario pagare tangenti ai membri dell’ufficio tecnico. Accuse che non hanno al momento trovato alcuna conferma ma che bastano a descrivere il clima di connivenze, omertà e paura che si respira in città.

In un esposto indirizzato alla magistratura e alle forze dell’ordine, l’ingegnere nonché consigliere comunale Benito Di Fazio parla di “favoritismi dal profilo penale” e “di opere comunali assegnate sempre ed esclusivamente all’architetto Luca Conte e ai tecnici dello studio Tecné di Fondi, senza alcun bando, nonostante importi superiori alla soglia comunitaria”. Ce n’è anche per il litorale. Sempre secondo l’esposto denuncia del consigliere, concessioni illegittime di aree di spiaggia, favoritismi verso i consiglieri di maggioranza, verso il geometra Antonio Faiola e verso i vari “portaborse” di Cusani per assunzioni illegittime dei loro figli, per autorizzazioni a costruire senza rispettare le norme del piano regolatore. L’elenco dei reati presentato in Procura sotto forma di denuncia, è lungo e descrive un sistema ben consolidato nei comuni del Sud Pontino, dove politica, imprenditoria e organizzazioni criminali avrebbero cementato il proprio patto d’acciaio attraverso una maxi speculazione che ha cambiato i connotati di un’area dove i vincoli paesaggistici e ambientali sono rimasti sulla carta.

C’è dell’altro. Dalle indagini non si è riusciti ancora a risalire all’origine dei finanziamenti alle imprese che per anni hanno lavorato mettendo in piedi, per il solo caso del piano integrato, opere per 100 milioni di euro e che al momento sono avvolte dai sigilli della giustizia. In città gira voce che potrebbero essere coinvolte le banche locali con mani e interessi nell’affare Sperlonga. Si lavora incessantemente e in un clima di forte omertà. Uno dei pochi a non aver paura di parlare è l’ingegner Benito Di Fazio, componente dell’associazione Caponnetto, vero presidio di legalità sul territorio. “Da queste parti – sostiene – o sei amico di Cusani  o non lavori. Dal Comune è arrivato a molti il ‘consiglio’ di non rivolgersi a me, per il mio impegno a favore della legalità”.

Mafia pontina, la denuncia dell’antimafia: “Troppa omertà”

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A denunciare a chiare lettere le collusioni tra politica e criminalità è il deputato grillino Andrea Coletti. In una interrogazione al ministro dell’Interno e al Ministro della Giustizia scrive: “Clan campani e calabresi speculano nell’edilizia, nel settore turistico alberghiero di tutto il Sud Pontino e agiscono indisturbati per l’assenza di una direzione distrettuale antimafia presso le Procure di Latina e Frosinone, le più vicine geograficamente alla terra dei clan. Le Dda di Napoli e Roma sono troppo distanti da territori divenuti roccaforte dei clan”. Ma la richiesta di istituire una sezione dell’antimafia presso le Procure di Latina e Frosinone, datata luglio 2013, non ha avuto alcun riscontro.

Con grande sforzo i pool antimafia napoletani e romani cercano di estendere e dividersi il gran lavoro che c’è da fare in un territorio dove la strategia dei clan non è il fuoco, ma l’amicizia con chi muove le redini della macchina burocratica e amministrativa. E sempre a un’interrogazione parlamentare è affidata la denuncia di quanto sta accadendo nei vicini comuni di Gaeta e Fondi. Anche in questo caso è il Movimento Cinque Stelle a illustrare corruzione e abusi d’ufficio che se non sono bastati a giustificare lo scioglimento del Comune di Fondi, vicenda divenuta di rilevanza nazionale, potrebbero bastare a sciogliere quello di Gaeta. Il meccanismo è sempre lo stesso. Gare truccate, appalti da importi oltre la soglia comunitaria affidati con strategie poco chiare a società senza certificazioni antimafia. Rocamboleschi provvedimenti di autotutela finalizzati solo a legittimare il rifacimento di gare perché vincitori risultassero ditte, a detta dei parlamentari, in odore di camorra. Quello che fa specie, è che siano semplici cittadini a portare alla luce quello che a tutti i costi si cerca di affossare: un sistema clientelare “core business” di clan, politici e imprenditori a scapito di un territorio che è andato via via impoverendosi delle sue risorse naturali per essere divorato da cemento selvaggio. Edilizia, rifiuti, gioco, droga.

Silenzio e omertà
di ATTILIO BOLZONI

ROMA – A Sud c’è un altro mondo, vicinissimo e lontanissimo da Roma e dalla sua mafia. Il territorio racconta sempre tutto. Il paesaggio urbano non è più famoso per le sue linee rette, le sue forme pure, i travertini bianchi di quelle piazze volute dal Fascismo e scelte per le oceaniche adunate del Duce o le celebrazioni delle “battaglie del grano”. Case e strade s’inseguono tutte uguali sino al confine: da questa parte il Lazio, dall’altra parte la Campania. La burocrazia amministrativa dice che è Latina, molti sanno che è provincia di Caserta. A destra il mare e le dune di sabbia, a sinistra una campagna buona, orti, canali. E paesi e città che fanno finta di niente.

Un paio di anni fa siamo entrati con un operatore di Repubblica tv a Sabaudia – quella che Pasolini descriveva come la città “a misura d’uomo” – e ci siamo ricordati di una Corleone dell’altro secolo dove tutti dicevano che la mafia non c’era. Tutti si voltavano dall’altra parte, in molti avevano la bocca cucita. Silenzio. Silenzio. Silenzio.

L’omertà ha bruciato in un breve arco di tempo l’Agro Pontino, l’omertà e la paura. Prima delle ultimissime indagini dei reparti speciali di polizia e carabinieri – se ne dà conto nella nostra inchiesta – questa era terra libera per scorribande, zona franca per boss calabresi e campani (i siciliani erano arrivati molto prima, negli anni ’60, con Frank “Tre Dita” Coppola che aveva comprato tutto quello che si poteva comprare intorno a Pomezia) che si sono insediati e arricchiti sotto lo sguardo impassibile dello Stato italiano. Hanno fatto quello che hanno voluto. Ucciso, seminato terrore, corrotto, si sono impossessati di aziende e infiltrato i loro emissari nei consigli comunali, hanno continuato indisturbati a mantenere rapporti con la Piana di Gioia Tauro e con Casal di Principe, sono diventati tanto forti che quando c’era da sciogliere un piccolo comune per mafia – Presidente del Consiglio Berlusconi, ministro dell’Interno Maroni – il governo non riuscì a farlo anche se un prefetto, lì dentro a quel Comune, la mafia l’aveva trovata dappertutto. L’Agro Pontino – per la sua posizione geografica, per l’indifferenza manifestata per decenni dagli apparati di sicurezza, per i suoi piccoli porti e per il suo grande mercato – è stato e ancora è laboratorio politico-criminale. Era e resta frontiera. Appena fuori Roma, a Sud.