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Cosa Nostra è l’Antistato o il braccio armato dello Stato?. Una lucida analisi di Sandro Provvisionato

Era tutto chiaro gia’ 21 anni fa. Eppure solo adesso la magistratura apre un’inchiesta sulla possibilita’ che nell’attentato per fortuna fallito dell’Addaura, che risale al giugno del 1989, i servizi segreti abbiano avuto un ruolo centrale. E che quindi non solo nelle stragi politiche, ma anche in quelle mafiose, fallite o meno, spunti il solito, immarcescibile zampino dei servizi segreti.

Ricordate la famosa definizione coniata dai Violante, dai Caselli, dagli Arlacchi di turno della mafia come “antistato”? Eccolo l’antistato mafioso che agisce in perfetta simbiosi con i servizi segreti, cioe’ con coloro che dovrebbero garantire proprio la sicurezza dello Stato. Cosa nostra e’ l’antistato oppure e’ il braccio armato dello Stato? Restiamo all’inchiesta, ora riaperta, sull’Addaura, che a questo punto appare centrale soprattutto per comprendere bene fatti avvenuti in rapida successione: da Capaci a via D’Amelio fino alle stragi della primavera-estate del 1993. E restiamo a questa vicenda per decifrare al meglio perche’ la mafia non e’ mai stata l’antistato, ma una sua parte quanto mai vitale e collaborativa.

Ricapitoliamo i fatti: all’ora di pranzo del 20 giugno 1989 Giovanni Falcone stava recandosi nella villa presa in affitto davanti al mare, sulle scogliere dell’Addaura, assieme a due magistrati svizzeri, Carla Dal Ponte e Claudio Lehman, con cui stava conducendo un’indagine sul riciclaggio di denaro sporco in Svizzera. Non doveva tornare a casa per il pranzo quel giorno il magistrato antimafia, ma aveva cambiato idea e aveva invitato i suoi due colleghi nella sua villetta al mare. Una decisione che soltanto lui e i suoi due ospiti stranieri – accompagnati da una segretaria e da due funzionari della polizia elvetica – e gli uomini della sua scorta potevano conoscere. Qualcuno aveva ascoltato le comunicazioni di servizio tra scorta e questura?

Sta di fatto che quel giorno sulla scogliera ad attendere Falcone e i suoi ospiti c’era una borsa da sub piena di micidiale esplosivo scoperta da quattro degli uomini, circa una ventina, che notte e giorno vigilavano attorno alla villetta. La scoperta e’ avvenuta tre ore prima, alle 10 del mattino. La prima ricostruzione ufficiale e’ palesemente sbagliata: la borsa da sub sarebbe stata trasportata sulla scogliera dal mare con un gommone o in alternativa da due subacquei.

Ma la borsa che conteneva i candelotti non era a tenuta stagna, come trasportarla sott’acqua? Come poteva esplodere quell’ordigno una volta bagnato? Quando poi verra’ appurato che quell’ordigno e’ composto da 58 candelotti di gelatina, non occorre certo un esperto di esplosivi per sapere che la gelatina e’ refrattaria praticamente a tutto, ma teme come la peste l’umidita’.

Un carico di gelatina diventa assolutamente inoffensivo se aggredito dal bagnato o anche soltanto dalla salsedine. Se quella borsa fosse stata portata dal mare il suo contenuto sarebbe stato assolutamente inutilizzabile. Da qui una sola e semplicissima deduzione logica: quella borsa non e’ arrivata dal mare, ma da terra. E per fare un percorso dalla strada alla scogliera e’ dovuta passare tra una selva di gambe: proprio quelle degli uomini che vigilavano sulla sicurezza di Falcone.

Ma analizziamo bene i fatti. I poliziotti che fanno quella scoperta, pur non conoscendone ancora il contenuto, non la toccano. Sono solo allarmati per la presenza di quella borsa abbandonata e chiamano gli artificieri. Le fasi che seguono sono affidate ad un verbale di polizia. Arriva sul posto il brigadiere dei carabinieri Francesco Tumino, esperto in esplosivi, in servizio alla sezione antisabotaggio del reparto operativo dell’Arma di Palermo. Ripreso a distanza da una telecamera della Rai, Tumino si muove con destrezza. Prima studia attentamente la borsa: e’ una normalissima borsa da pescatore d’apnea, potrebbe contenere pinne e maschere, fucili con arpione, oppure solo Coca cola e panini.

Non si sa – e non si sapra’ mai – se qualcosa fa avvertire a Tumino il pericolo e se qualcuno gli abbia suggerito di minarne l’apertura. Ma lo fa. Sistema una microcarica esplosiva per neutralizzare eventuali inneschi e poi si sposta a distanza di sicurezza. Uno sbuffo di fumo si leva dalla borsa.

Nessuno potra’ mai dire se per innescare quei 58 candelotti di gelatina sarebbe bastato sollevare la borsa per i manici, dove era stata collocata una carica a strappo, oppure se per provocare l’esplosione sarebbe stato necessario un telecomando.

Logica vorrebbe che, per prima cosa, il brigadiere Tumino prelevi e consegni ai tecnici della scientifica quello che resta del congegno che avrebbe dovuto far brillare la gelatina. L’analisi tecnica di quel meccanismo avrebbe potuto aiutare le indagini. Il brigadiere invece si limita a scrivere nella sua relazione di servizio che un funzionario di polizia ha preso in consegna quel che rimaneva del dispositivo che avrebbe provocato l’esplosione. Chi e’ quel funzionario? Tumino afferma di non conoscerlo, anche se lo descrive in modo sommario: alto e con i baffi.

Trascorrono quattro anni e sull’inchiesta del fallito attento dell’Addaura cala il piu’ strano dei silenzi. L’inchiesta e’ ferma. Nel frattempo due uomini del Sisde sono finiti nei guai. Sono Bruno Contrada, numero tre del servizio segreto civile, e Ignazio D’Antone, anch’egli alto funzionario dello stesso servizio, gia’ stretto collaboratore di Contrada quando entrambi lavoravano alla squadra mobile di Palermo. Entrambi condannati a 10 anni di reclusione per concorso esterno con Cosa nostra.

Nell’aprile del ’93, il brigadiere Francesco Tumino, che intanto e’ diventato maresciallo, guardando la televisione, crede di riconoscere proprio in D’Antone il funzionario di polizia a cui, nel giugno 1989, dice di aver consegnato gli inneschi per attivare la bomba dell’Addaura. Ma D’Antone per quel giorno ha un alibi di ferro: era fuori dalla Sicilia.

Tumino e’ costretto ad ammettere di essersi inventato tutto. E da accusatore diventa accusato. Tumino ha messo in atto un depistaggio? E soprattutto dove sono veramente finiti i congegni di quel micidiale ordigno?

Processato per ben due volte, a Calatanissetta e a Palermo, Tumino fornisce tre diverse versioni. Nessuna creduta dai giudici. Poi incassa due condanne ridicole: sei mesi per falso ideologico e false dichiarazioni al pm e appena un anno e mezzo per calunnia, con la sospensione della pena ed il suo pieno reintegro nell’Arma.

Ma il colmo arriva nell’ottobre del 2004, quando la Cassazione, nel confermare le condanne per un gruppo di mafiosi (Riina, Biondino, Madonia) accusati dell’attentato fallito, ignorando certezze (la talpa che avverti’ gli attentatori) e depistaggi, scrive: “il fallito attentato dell’Addaura, del 20 luglio 1989, non fu opera dei servizi segreti ma di Cosa Nostra”.

C’e’ poi, tutta da approfondire, la vicenda di altre tre morti molto probabilmente legate proprio al fallito attentato dell’Addaura: quelle di Nino Agostino, poliziotto, e di sua moglie, e quella del collaboratore del Sisde Emanuele Piazza. Autocitarsi e’ sempre antipatico. Ma in “Segreti di mafia”, un libro uscito per Laterza nel 1994 (si badi all’anno), scrivevo: “Chi erano quei due giovani che cercavano Nino Agostino qualche tempo prima dell’omicidio e che, presentatisi al padre Vincenzo a bordo di una moto, dicevano di essere colleghi? La descrizione di uno dei due (“alto, scarno in volto, gli zigomi sporgenti, brutto come una scimmia”) corrisponde incredibilmente a quella fatta da due testimoni che videro bene in viso lo strano personaggio il quale, dal curvone che costeggia la scogliera dell’Addaura, per un lungo periodo, ogni sera, faceva strane segnalazioni verso il mare con i lampeggiatori di una Fiat 127. Ma c’e’ di piu’ e di piu’ allarmante: la stessa persona sarebbe stata riconosciuta in uno degli identikit del commando dinamitardo che partecipo’ alla strage di Capaci”.

Era, lo ripeto, il 1994: 16 anni fa. E tutto era gia’ risaputo. Ora l’inchiesta si riapre. Partendo da qui.

Ma di due giovani coraggiosi, Agostino e Piazza, parleremo nella prossima puntata di questa rubrica.

(Tratto da La Voce delle Voci)