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Cosa nostra a 5 stelle

Cosa Nostra a 5 stelle

 

 

 

Da Cuntrera ai capoclan albanesi. In un elenco riservato, i nomi dei padrini cui nel 2005 è stato revocato il regime di carcere duro

 

di Francesco Bonazzi

 

 

 

ogliere il “41 bis”? Si fa, ma non si dice. Vale per un vecchio nemico di Falcone e Borsellino come Pasquale Cuntrera, il “boss dei due mondi” che partì da Siculiana per impiantare in Venezuela una delle più efficienti lavanderie di denaro sporco che Cosa Nostra ricordi. E vale per l’ex ras di Acerra Cuono Crimaldi, il capoclan che ha legato il proprio nome alla stagione più sanguinosa delle guerre di camorra a cavallo degli anni Novanta. Stesso discorso per il boss della ‘ndrangheta Domenico Gallico, quello che con tre ergastoli sulle spalle si tolse lo sfizio di schiaffeggiare in aula il giudice Teresi che si apprestava a infliggergliene un quarto. Idem per l’ex primula rossa dei Quartieri spagnoli, Ciro Mariano, spietato nelle vendette quanto abile nei rapporti politici. I loro nomi compaiono nell’elenco riservato degli uomini d’onore che nel 2005 hanno ottenuto di uscire dal girone del “41 bis”, il regime di deten-zione pensato per impedire ai boss di comandare da dietro le sbarre. Una lista che “L’espresso” ha potuto consultare e illumina la singolare “Fax manosa” seguita alla terribile estate del 2002. Quella in cui boss di prima grandezza come Leoluca Bagarella e Totò Riina condirono una garbata protesta contro il carcere duro con minacce ai politici e agli avvocati-deputati della maggioranza di centrodestra, accusati di averli dimenticati.

La risposta ufficiale della politica arrivò a dicembre del 2002 e fu di una durezza senza precedenti. II Parlamento, con maggioranza schiacciante e bipartisan, votò la stabilizzazione nei codici del “41 bis”, dopo anni di proroghe per decreto. Ma da allora, con il metodo silenzioso dei provvedimenti di “declassamento”, dal circuito del carcere duro sono usciti ben 119 boss. Circa un quinto del totale. Tra questi, come aveva raccontato “L’espresso” nell’agosto del 2004, nomi di peso come Vernengo, Ta-gliavia, Maliardo, D’Alessandro, Mammoliti e Pulvirenti. Ora chissà chi saranno i prossimi, in questi cento giorni che ci separano dalle elezioni politiche. Intanto, ecco che cos’è successo negli ultimi 12 mesi. Cosa nostra ha perso sette “41 bis”: Emanuele Argenti, Simone Benenati, Pasquale Cuntrera, Marcello D’Agata, Nicola Galletta, Vito Marceca e Alfredo Sole. Argenti, classe 1956, era il luogotenente di “Piddu” Madonia a Gela e dal 1994 sconta una condanna al carcere a vita. Benenati, 46 anni, boss di Alcamo, ha preso l’ergastolo nel 2003 insieme a Riina e Bagarella. Carcere a vita anche per D’Agata, 57 anni, che era uno dei luogotenenti di Nitto Santapaola ed è stato a lungo indagato per i suoi rapporti politici con uomini di Forza Italia tra il ’93 e il ’94. Tra i sette “declassati” della camorra nel 2005, oltre ai citati Crimaldi e Mariano, spiccano invece i nomi di Raffaele Stolder, Aniello Bidognetti e Luciano Mazzarella. Stolder, 47 anni, era il boss di Forcella e la sua lunga latitanza, finita nel 1992, ha goduto di una rete di connivenze che ha portato in galera anche medici e poliziotti. E nel dicembre del 2002 fu indicato dal rivale pentito Luigi Giuliano tra i boss che continuavano a comandare anche in regime di carcere duro. Mazzarella ha 39 anni, è in carcere da quando ne aveva 28 e appartiene a una famiglia ingombrante: è figlio del boss Ciro Mazzarella ed è imparentato con il defunto Michele Za-za. Anche Aniello Bidognetti, 33 anni, è figlio di un grande boss (Francesco, detto “Cicciotto ‘e mezzanotte”), ma soprattutto è ritenuto una delle menti finanziarie del clan dei Gasatesi. Tra i sei big della ‘ndrangheta che hanno appena salutato il carcere duro, oltre a Gallico, ci sono Giuseppe Campisi, Francesco Stilo, Francesco Novelli, Domenico Critellì e Antonino Ghiri-co. Quello con la storia più singolare è forse Campisi, 45 anni e un ergastolo da scontare, a lungo proconsole della cosca Mole nel Nord-Ovest. Per anni è riuscito ad evitare una condanna per omicidio grazie a un falso alibi fornitogli da un carabiniere. A spulciare la lista relativa al 2005 si scopre poi che sono stati beneficiati anche due potenti boss albanesi: Haki Aleksi, che operava a Genova, e Durim Keci. Sorprende che nel loro caso la decisione di declassarli non provenga dalla magistratura di sorveglianza, come di solito avviene, ma arrivi direttamente dal ministero della Giustizia guidato con mano solitamente ferrea dal leghista Roberto Castelli. Tanto è vero che nel 2005 Castelli si è avvalso di questa facoltà solo in altri tre casi (Mazzarella junior, e due boss minori). Chissà che ne pensano gli elettori padani, assai sensibili al problema della delinquenza balcanica. Se questi sono i dati, prima di farsi un’opinione sui singoli casi occorre però tenere a mente alcuni fatti. Il “41 bis” è un regime di detenzione che per sua stessa natura non può essere perpetuo. Isolamento, divieto di ricevere
cibo e vestiario dall’esterno, un colloquio al mese con i parenti attraverso il vetro divisorio e altre misure del genere servono per impedire che il boss continui a comandare dalla cella. Insomma, non c’entrano con la qualità e la quantità dei reati commessi e se tutto questo armamentario di restrizioni funziona, è ovvio che dopo un certo tempo venga revocato. Ma è anche evidente che un trattamento così afflittivo ha poco a che fare con la «funzione rieducatìva della pena» sancita dalla Costituzione. E quando viene applicato per anni a boss anziani e malati, come Pasquale Cuntrera, può avere poco senso. È con argomentazioni del genere che nel centro-sinistra prevale l’idea che il “41 bis” vada rimaneggiato. Per renderlo da un lato più concretamente applicabile. E dall’altro più rispettoso delle sentenze della Corte Costituzionale sull’umanità della pena. Ma per ora il dibattito non esce dalle segrete stanze dove si discutono programmi e organigrammi. Del resto, anche per il centro-destra si tratta di una materia troppo scottante per parlarne apertamente in campagna elettorale. Se invece si chiede un parere a magistrati e investigatori, si raccoglie un coro quasi unanime: il carcere duro è l’unica misura, insieme al sequestro dei beni, che spaventa davvero i padrini. Anche se vi sono istituti ritenuti “grand hotel” (Spoleto il più “richiesto”); se risulta che di recente in almeno quattro occasioni boss in carcere col “41 bis” abbiano fruito di colloqui senza vetro; se capita che un pezzo da novanta di Cosa nostra venga intercettato mentre ringrazia i parenti per «l’ottimo pesce fresco» con il quale ha fatto bella figura in cella. Ma dopo il “declassamento” che succede? In teoria, il boss entra nel circuito dell’alta sicurezza. «In pratica ormai diventa un detenuto comune», come ammette più di un dirigente dell’amministrazione penitenziaria. Sovraffolamento delle carceri e smantellamento quasi scientifico dei Gom (i reparti speciali della polizia penitenziaria) sono le cause principali. E per gli investigatori c’è spesso anche la beffa di non sapere dove vengono trasferiti i superboss. O meglio, lo sanno al ministero, ma a loro nessuno lo comunica. •

 

Da “L’espresso” 19 gennaio 2006