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CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI: CARMELO D’AMICO CONFERMA LE ACCUSE CONTRO OLINDO CANALI

CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI: CARMELO D’AMICO CONFERMA LE ACCUSE CONTRO OLINDO CANALI

“Sicuramente Cassata e Canali, sapendo quello che hanno fatto, non staranno dormendo sonni tranquilli da quando hanno saputo che io ho iniziato a collaborare con la giustizia”.

1 FEBBRAIO 2021 INCHIESTE/GIUDIZIARIA

di Edg – Si è tenuto giovedì pomeriggio l’esame del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico nell’udienza davanti al gup Vincenza Bellini, del Tribunale di Reggio Calabria, nel processo a carico dell’ex sostituto della Procura di Barcellona Olindo Canali, da qualche anno giudice a Milano, accusato di corruzione in atti giudiziari e cioè di aver intascato denaro per compiere atti contrari ai propri doveri d’ufficio.

Nel 2015 il collaboratore D’Amico aveva riempito decine di pagine di verbale in cui accusava il giudice Olindo Canali. Nell’ultima udienza le stesse accuse sono state confermate durante l’esame a cui è stato sottoposto dal pm Paci e dall’avvocato della parte civile Sonia Alfano, Fabio Repici.

D’Amico ha spiegato, durante l’udienza, che finché è stato recluso a Bicocca ha avuto timore di accusare Canali per paura delle conseguenze che avrebbe potuto subire lui e la sua famiglia (“che non si era ancora del tutto allontanata da Barcellona”) da un altro magistrato, l’ex procuratore generale Franco Cassata, “una potenza che aveva agganci da tutte le parti”.

Sono due le accuse di corruzione da cui il magistrato brianzolo dovrà difendersi.

Una riguarda l’attività che Canali svolse in relazione al primo processo per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino del 4 novembre 1993, l’altro caso di corruzione in atti giudiziari contestato, tra il 2008 e il 2009, in concorso con Rugolo, D’Amico e il boss Gullotti, vede al centro il maxi processo “Mare Nostrum” e l’indagine per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano.

Con il magistrato è imputato lo stesso Carmelo D’Amico, adesso collaboratore di giustizia.

Il magistrato Olindo Canali è difeso dagli avvocati Ugo Colonna e Francesco Arata, Carmelo D’Amico dall’avvocato Antonietta Pugliese.

LA PRIMA IPOTESI

La prima ipotesi di corruzione in atti giudiziari – tra il 1997 e il 14 aprile 2000 – riguarda l’attività che Canali svolse in relazione al primo processo per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino del 4 novembre 1993. Un caso in cui lavorò come “applicato” alla Procura di Messina. In quella fase storica erano accusati dell’esecuzione Carmelo D’Amico e Salvatore Micale. Secondo quanto scrive l’aggiunto Paci, Canali avrebbe “accettato per sé la promessa e quindi ricevuto la somma di denaro di cento milioni di lire al fine di compiere atti contrati ai propri doveri d’ufficio nell’ambito del suddetto procedimento”. E c’è un passaggio ancora più preciso nel capo d’imputazione, perché la somma sarebbe stata “consegnata in due distinte occasioni”. Sono quattro le condotte individuate dalla Procura di Reggio: il boss D’Amico tramite Rugolo avrebbe indotto la moglie di una delle vittime del triplice omicidio a ritrattare al processo d’assise, nel 1998, quanto aveva dichiarato nel corso delle indagini, e cioè di aver riconosciuto proprio il boss D’Amico durante l’esecuzione tra i killer; l’ex pm Canali non avrebbe proposto entro i termini di scadenza (3 aprile 2000) l’atto di appello contro la sentenza assolutoria di primo grado per D’amico e Micale; avrebbe depositato l’atto di impugnazione il 7 aprile 2000 nonostante vi avesse apposto la data di effettiva scadenza del 3 aprile 2000, e avrebbe poi rinunziato in data 14 aprile 2000 all’impugnazione “per errore di calcolo”; infine Canali avrebbe omesso di avvertire dei vari passaggi l’allora titolare del procedimento, l’ex sostituto della Dda di Messina Gianclaudio Mango, e l’allora capo della Procura, Luigi Croce.

LE DICHIARAZIONI DI D’AMICO

“Sono stato arrestato per il triplice omicidio Geraci-Raimondi-Martino nel 1993 e scarcerato nell’agosto del 1995. Una volta scarcerato sono tornato a vivere a Barcellona. Intorno agli anni 97-98 ho iniziato a notare che Salvatore Rugolo, cognato di Pippo Gullotti e figlio di Ciccio Rugolo, all’epoca capo della famiglia barcellonese, si frequentava con notevole assiduità con il magistrato Olindo Canali. Io stesso – racconta D’Amico – ho visto tantissime volte Canali e Rugolo intenti parlare tra loro per strada a Barcellona o al bar dello studente… Quando mi accorsi di questa assidua frequentazione rimasi molto sorpreso perchè io e tutti gli altri della nostra associazione consideravamo il magistrato un nostro ‘nemico pubblico’”. In quel periodo il processo Gerace-Riamondo-Martino era in corso di svolgimento innanzi la Corte d’Assise di Messina. “Ero molto preoccupato per l’andamento di quel processo”. “Un giorno – continua il pentito – incontrai casualmente Rugolo a cui parlai del processo dove Canali era pubblico ministero. Rugolo mi confermò che era in buonissimi rapporti con Canali e mi rispose, ‘ora me la vedo io, ci parlo io, poi ti vengo a cercare io'”.

“Successivamente Rugolo – racconta il collaboratore – mi disse che aveva parlato con Canali e che in effetti quel processo si poteva sistemare. Ricordo che Rugolo usò questa frase, ‘Ci vogliono cento milioni per sistemare il processo’. Rugolo, quando usò questa espressione, sfregò le dita, facendo il segno solitamente usato per i indicare i soldi. Io rimasi piuttosto perplesso e devo dire che ebbi il sospetto che Canali in qualche modo mi volesse incastrare. In quella stessa circostanza Rugolo aggiunse che Canali gli aveva raccomandato di non parlare assolutamente con nessuno di quella vicenda (‘dice u dutturi di non parlare con nessuno’), aggiungendo che Canali lo aveva avvertito che se fosse uscito qualcosa di quella storia, lo stesso Canali li avrebbe rovinati”.

Il collaboratore ha risposto alle domande del pm e poi dell’avvocato Repici confermando le accuse messe nero su bianco in alcuni verbali del 2015. “Rugolo non me lo disse espressamente ma in quel modo mi fece capire che Pippo Gullotti già sapeva che Canali era ‘a disposizione’. Rugolo mi fece capire che anche Eugenio Barresi era al corrente di questa situazione. Rugolo alla fine mi disse, ‘procurati i soldi che il processo si sistema’”.

D’Amico racconta di aver incontrato Barresi che “sapeva già che Canali si stava interessando, insieme al magistrato Cassata anche per l’omicidio Alfano. Barresi no si stupì più di tanto e mi disse che per lui quella cosa andava bene”. Poi descrive in modo puntuale il momento della preparazione e della consegna dei soldi che sarebbero serviti per la corruzione del magistrato. “Dopo qualche giorno Barresi mi fece trovare cinquanta milioni di lire in contanti avvolti in un sacchetto di carta; si trattava di cinque mazzetti da dieci milioni ciascuno, tutte banconote da centomila lire. Presi in consegna quei soldi e me ne andai. Soldi che consegnai a Rugolo che mi rassicurò, ‘non ti preoccupare, Canali e Cassata stanno già cercando di sistemare sia il processo Alfano che il processo Mare Nostrum'”. Poi D’Amico racconta che Rugolo “disse che Canali gli aveva detto che io avrei dovuto avvicinare la moglie di Giuseppe Geraci, Francesca Consoli, in modo da convincerla a sostenere in udienza che suo marito non era stato in grado di riconoscere i killer che gli avevano sparato. Rugolo aggiunse che per il resto ‘se la sarebbe vista’ direttamente Canali'”.

Il pentito precisa che la seconda tranche di cinquanta milioni l’avrebbe consegnata una volta intervenuta la sentenza di assoluzione, raccontando poi un episodio accaduto al bar Maniscalco dove si presentò all’improvviso Canali che D’amico salutò, chiedendogli se fosse tutto a posto. “A posto! A posto!”, fu la risposta dell’allora pubblico ministero.

Il processo si concluse con l’assoluzione, anche se Canali chiese 30 anni di reclusione. “Dopo qualche giorno incontrai Rugolo a cui consegnai i restanti cinquanta milioni, anche in questo caso in cinque mazzette da dieci milioni ciascuno. In quell’occasione dissi a Rugolo, ‘Ti raccomando l’appello, digli che il processo deve finire, vedi quello che può fare’, e Rugolo rispose, ‘non preoccuparti, che se la vede Canali'”.

“Rugolo non mi specificò in che modo Canali avrebbe agito – conclude –  ma in effetti quel magistrato presentò l’appello contro la mia sentenza di assoluzione con un giorno di ritardo, cosicché quella sentenza divenne definitiva. Rugolo mi disse, ridendo, che Canali ‘aveva fatto un poco di scena’, facendo finta di sbagliare i conti e di depositare in ritardo l’appello”.

L’ALTRO CASO

L’altro caso di corruzione in atti giudiziari contestato – tra il 2008 e il 2009 – in concorso con Rugolo, D’Amico e il boss Gullotti, vede al centro il maxi processo “Mare Nostrum” e l’indagine per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Sempre secondo il capo d’imputazione l’ex pm Canali avrebbe “accettato per sé la promessa della consegna di denaro di trecentomila euro, della quale riceveva una prima parte di cinquanta mila euro“, sempre da D’Amico. Per fare cosa? In sostanza per cercare di “ammorbidire” la posizione del boss Gullotti scrivendo quel famigerato memoriale che ‘piombò’ letteralmente in aula durante il maxiprocesso “Mare Nostrum“. Memoriale in cui esprimeva forti dubbi sulla colpevolezza di Gullotti per la morte di Alfano, e in cui scriveva che “occorreva chiedere ed ottenere la revisione della sua condanna”.

“In un incontro con Rugolo, questi mi disse che c’era la possibilità di sistemare Mare Nostrum e di riaprire il processo Alfano in favore di suo cognato Pippo Gullotti (che era stato condannato a 30 anni) – racconta D’Amico -. “Rugolo mi disse che ne aveva parlato con Cassata e Canali e che si dovevano uscire seicentomila euro per fare qualcosa in favore di Gullotti. Rugolo mi disse che aveva parlato con quei magistrati per aggiustare quei processi in favore di Gullotti e che costoro in cambio avrebbero ottenuto la somma complessiva di 600mila euro. …Risposi a Rugolo che ero disposto a pagare quella somma, che per me andava bene e che l’importante era che Gullotti uscisse. Dissi inoltre che avrei versato centomila euro ‘a colpo’, ossia in corrispondenza di qualche risultato positivo nell’ambito di quei processi”.

Il collaboratore precisa inoltre nel suo racconto, che Rugolo gli disse espressamente che “300mila euro servivano per pagare Cassata e 300mila euro per pagare Canali”. “Dopo qualche tempo incontrai nuovamente Rugolo a Barcellona e gli consegnai la somma in contanti di 100mila euro dicendo espressamente che 50 erano per Cassata e 50 per Canali. Quel denaro era contenuto in una busta di carta ed era in ‘pezzi da cento e duecento euro’. La consegna avvenne a metà del 2008 a Barcellona”. “Rugolo – continua D’Amico – mi confermò di avere consegnato personalmente quelle somme di denaro a Canali e Cassata, ma non mi specificò come avvennero le modalità di quella consegna. Rugolo morì qualche mese dopo”.

D’Amico racconta di aver visto in numerose occasioni Rugolo con Canali o con Cassata.

E parla anche dell’associazione Corda Frates, dove “si giocava d’azzardo ad altissimi livelli” ed era sempre “frequentata da personaggi legati alla malavita organizzata” e di Cassata, “fortissimo giocatore d’azzardo” che una volta giocò per tre giorni consecutivi con i fratelli Marchetta, poi uccisi.

Sull’omicidio Alfano, D’amico ha raccontato della riunione con Pippo Iannello e l’avvocato Santalco nello studio di quest’ultimo.

“Parlando di Pippo Iannello, mi è venuto in mente un altro personaggio di cui finora non ho parlato, ossia l’avvocato Peppuccio Santalco… che faceva parte della famiglia dei barcellonesi e con questo ruolo ha aggiustato “diversi processi” per conto dell’organizzazione… Peppuccio Santalco svolgeva anche le funzioni di ambasciatore dei barcellonesi in carcere, nel senso che portava le ambasciate ai detenuti dell’organizzazione tra cui gli stessi Calabrò e Iannello, e Salvatore Ofria”.

Parlando dell’avvocato Santalco, D’Amico racconta di un incontro avvenuto nello studio del legale.

“Mi trovavo nello studio Santalco, la segretaria, l’avvocato e Pippo Iannello. Tutti stavano assumendo della cocaina. In quella occasione Iannello, parlando con l’avvocato Santalco, disse espressamente che suo cugino Pippo e ‘Saro’ avevano la testa malata. Pippo Iannello si riferiva a Pippo Gullotti e a Saro Cattafi, soggetto che non conoscevo di persona ma soltanto di vista e che sapevo fare parte del nostro gruppo. In quell’occasione Iannello disse che Pippo e Saro avevano la testa malata perchè avevano accettato l’incarico da parte dei catanesi e dei palermitani di compiere un attentato ai danni di Martelli e del giudice Di Pietro. In pratica Iannello si lamentava del comportamento imprudente di questi soggetti che si arrischiavano a compiere azioni così pericolose. Quando Iannello disse queste cose – continua D’amico – in ogni caso il proposito di uccidere Martelli e Di Pietro era stato accantonato”.

Ma le rivelazioni non finiscono qui. “Sempre in quella circostanza Iannello, parlando con Santalco, aggiunse che Gullotti aveva la testa malata perchè ce l’aveva con il giornalista Beppe Alfano, in quanto costui, in quel momento, stava indagando sul circolo “Corda Fratres” e sul giudice Cassata. In pratica Iannello sosteneva che Gullotti voleva ammazzare Alfano. Quando Iannello disse queste cose, Peppuccio Santalco gli rispose di non preoccuparsi perché egli stesso avrebbe parlato con il giudice Cassata, il quale sarebbe intervenuto a sua volta nei confronti di Pippo Gullotti e gli avrebbe fatto ‘levare dalla testa’ l’idea di uccidere Alfano”.

Quell’incontro – sempre secondo l’ex boss D’amico – avvenne circa due o tre mesi prima dell’omicidio di Pippo Iannello e dell’omicidio Alfano.

L’OMICIO MANCA

Durante l’esame da parte dell’avvocato Repici, D’amico ha raccontato anche delle circostanze sulla morte di Attilio Manca affermando che Rugolo aveva eccellenti rapporti con Cattafi, ma che si infuriò con lui quando venne a sapere i retroscena dell’omicidio Manca.

“Poco dopo la morte di Manca incontrai Rugolo che mi disse di averla a morte con l’avvocato Saro Cattafi perchè aveva fatto ammazzare Attilio Manca (lo riteneva responsabile della morte di Manca che riteneva sicuramente un omicidio e non certo un caso di overdose). In quell’occasione Rugolo mi disse che un soggetto non meglio precisato, un generale dei carabinieri (“non so chi fosse”), amico di Cattafi, vicino e collegato agli ambienti della Corda Frates, aveva chiesto a Cattafi di mettere in contatto Provenzano, che aveva bisogno urgente di cure mediche alla prostata, con l’urologo Attilio Manca, cosa che Cattafi aveva fatto”.

“Quando Rugolo mi disse queste cose, ebbi l’impressione che mi stesse chiedendo di eliminare il Cattafi, cosa che era già successa in precedenza, così come ho già detto quando ho parlato di Saro Cattafi, perchè ritenuto il responsabile della cattura di Nitto Santapaola”.

Fin qui quello che D’Amico ha detto in aula.

Ma sull’omicidio Manca l’ex boss aveva riempito altre pagine di verbale come quelle che raccontano alcune rivelazioni che gli confidò Antonino Rotolo.

“Antonino Rotolo mi confidò che erano stati i Servizi segreti ad individuare Attilio Manca come il medico che avrebbe dovuto curare il latitante Provenzano. Rotolo non mi disse chi fosse questo soggetto appartenente ai servizi ma io capii che si trattava della stessa persona indicatami da ruolo, ossia quel Generale dei carabinieri che ho prima indicato; sicuramente era un soggetto delle istituzioni. Rotolo mi aggiunse che sull’omicidio si era occupato un soggetto che egli definì “u calabrisi” ma anche “U bruttu”, costui, per come mi disse Rotolo, era un militante appartenente ai servizi segreti, effettivamente di origine calabrese, che era bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi, “un curnutu”. E mi parlò poi di un altro nome coinvolto nell’omicidio di Manca, in particolare mi parlò del direttore del Sisde, che egli chiamava ‘U diretturi'”.

La prossima udienza è prevista il prossimo 22 febbraio, quando si concluderà l’esame del collaboratore con l’intervento delle difese degli imputati.

Fonte:http://www.stampalibera.it/