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Coronavirus, morto il boss Francesco Di Carlo: fu il pentito che raccontò gli incontri tra Berlusconi, Dell’Utri e Bontade

Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2020

Coronavirus, morto il boss Francesco Di Carlo: fu il pentito che raccontò gli incontri tra Berlusconi, Dell’Utri e Bontade

Il boss di Altofonte, storico narcotrafficante di Cosa nostra, per anni è stato detenuto in Inghilterra dove, dietro il paravento di una società di import-export, gestiva traffici di cocaina per miliardi di sterline. Da pentito è stato tra i principali accusatori dell’ex senatore di Forza Italia

di Giuseppe Pipitone

Per vent’anni è sopravvissuto alle vendette dei suoi ex sodali, ma non al coronavirus. L’epidemia uccide anche Francesco Di Carlo, importante boss di Cosa nostra, da circa 25 anni collaboratore di giustizia. A dare notizia della morte – avvenuta per una polmonite causata dal Covid 19 – è l’agenzia Ansa. Di Carlo era un pentito importante: fu il primo a parlare degli incontri tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e Stefano Bontade, all’epoca al vertice della mafia siciliana e poi assassinato dai corleonesi di Totò Riina. Non un racconto de relato: Di Carlo fu testimone oculare di quel faccia a faccia tra il padrino Cosa nostra e l’imprenditore di Arcore nel 1974. Era l’unico sopravvissuto, a parte Berlusconi e Dell’Utri e la corte d’appello di Palermo gli ha creduto.

Boss di Altofonte, storico narcotrafficante di Cosa nostra, per anni è stato detenuto in Inghilterra dove, dietro il paravento di una società di import-export, gestiva traffici di cocaina per miliardi di sterline. Un uomo in chiaroscuro e dai molteplici misteri: aveva, per sua stessa ammissione, rapporti coi servizi segreti di mezzo mondo, e secondo un altro pentito, Francesco Marino Mannoia, sarebbe stato lui a uccidere il banchiere Roberto Calvi. L’ultima intervista l’ha rilasciata il 9 febbraio al Fatto Quotidiano per commentare le dichiarazioni in aula di Giuseppe Graviano: quelle in cui il boss di Brancaccio fa per la prima volta il nome dell’ex presidente del consiglio. “Lui ricostruisce 25 anni di rapporti con Berlusconi e non c’è mai una volta che avrebbe partecipato Dell’Utri? Mai Cinà? E poi non mi torna nemmeno il ruolo del nonno e del cugino Salvatore, mai sentiti in Cosa nostra. In questo racconto si capisce che lui vuol far trasparire qualcosa che sa, però non torna una cosa: non fa mai il nome di Marcello Dell’Utri”, è l’analisi che Di Carlo ha fatto della deposizione di Graviano.

Intelligente, brillante, ma anche a tratti feroce persino soltanto con lo sguardo, negli anni ’70 Di Carlo è uno dei pochi a godere della fiducia di entrambi gli schieramenti interni a Cosa nostra: amico fin dalla tenera età di Bontate, che lui chiama “il barone“, era anche legato ai corleonesi, che nel 1976 lo fanno promuovere capofamiglia. Poi nel 1996 decide di “farsi” un pentito. Per i pm diventa una sorta di enciclopedia, visto che fornisce dettagli sugli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mauro De Mauro e Mario Francese, ma anche di Piersanti Mattarella, presidente della Regione e fratelo dell’attuale capo dello Stato.

Ma soprattutto Di Carlo diventa uno dei testimoni chiave dei processi a Dell’Utri, l’ex senatore di Forza Italia condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno a Cosa nostra. È il boss di Altofonte che racconta ai magistrati l’ormai noto incontro tra Bontate e Berlusconi nel capoluogo lombardo nel 1974: “Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente”. Non era una novità: “Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi”.

La deposizione di Di Carlo ha fatto la storia giudiziaria del processo all’ex senatore di Forza Italia: “Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta… Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri”. Quello che il pentito mise a verbale è il racconto in presa diretta dal faccia a faccia tra l’imprenditore di Arcore e il capomafia di Villagrazia: “Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti… Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone… Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello.… E poi aggiunge: Le mando qualcuno”. Quel qualcuno altri non è che Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore.

Di Carlo ha spiegato anche il motivo dell’arrivo di Mangano ad Arcore: “Ci voleva qualcuno di Cosa nostra” perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. Appena Bontate ha pronunciato quelle parole, “Cinà e Dell’Utri si sono guardati”. Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, ha continuato il pentito, “Cinà ha detto a Bontate e Teresi: Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”. Di Carlo ha ricordato che “Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”. “Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno”, ha spiegato Di Carlo. “Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra… Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti”. Quella “cortesia” non era gratuita. E a raccontarlo è stato sempre il boss di Altofonte: “Tanino Cinà mi dice: Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire… Mi pare malo. E io gli dissi: Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi… E poi ci hanno voluto”.