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Colpo alla ‘ndrangheta, così le mafie riciclano i soldi al Nord

Bar e terreni per riciclare i soldi dell’attività mafiosa e fornire un reddito “pulito” agli appartenenti del clan. È quanto hanno scoperto in provincia di Torino, nell’ambito della vasta operazione che ha permesso di decapitare la cosca ‘ndranghetista dei Marando e che ha avuto sviluppi anche in Lombardia, Lazio, Umbria e ovviamente Calabria, i carabinieri e gli uomini della Direzione invistigativa antimafia. L’inchiesta è partita proprio dal Piemonte, dove sono state individuate alcune delle attività sporche. Tra queste la principale ruotava intorno a un bar di San Mauro, risultato intestato ad Antonio Marando, 22 anni, figlio del boss Domenico, 44, che dalla sua cella nel carcere di Rebibbia continuava a dirigere tutte le operazioni. Oltre che un investimento per la ‘ndrina, l’esercizio commerciale risultava un’ottima copertura per le reali attività della famiglia, incentrate sui traffici internazionali di stupefacenti e sull’usura. Ma il bar era il centro di investimento meno importante della cosca. Le prime indagini condotte dai carabinieri, infatti, avevano consentito di risalire alla società Green Farm srl, con sede a Torino, intestata a un cittadino tedesco risultato poi inesistente. In questo caso la “mission” era strettamente immobiliare, con l’acquisto di terreni probabilmente con l’obiettivo di venderli o di costruirvi edilizia. In questo caso, sono stati accertati acquisti di numerosi terreni sul territorio di Rivarossa. Oltre ad Antonio, il falso barista, e al boss Domenico Marando, già in carcere per il triplice omicidio di Volpiano avvenuto nel 1997, sono stati arrestati la sua educatrice in carcere, Maria Tassone, 45 anni, che faceva da tramite tra Rebibbia e l’esterno, e altre cinque persone: Nicola Marando, 35 anni, Luigi Marando, 21 anni, Cosimo Salerno, 49 anni, l’affarista della cosca, Francesco Tassone, 47 anni, e Francesco Filardo, 47 anni, questi ultimi fratello e marito dell’educatrice. di Davide Petrizzelli Leggo

«Le mafie non sono soltanto un problema del Mezzogiorno». Così il procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli commenta l’operazione della Dia. «Quando parliamo di mafie dobbiamo fare i conti con strutture criminali che cambiano nel tempo, intrecciando localismo territoriale con attività illecite reticolari di dimensioni globali». «Oggi il problema mafia – ha aggiunto il magistrato – è che le ricchezze accumulate illecitamente costituiscono una vera e propria economia parallela, che risucchia commerci e imprese in difficoltà per concorrenza illegale. Sono in gioco – ha sostenuto – il libero mercato e la concorrenza». Per capire l’espansione delle mafie, secondo Caselli, «la parola chiave è riciclaggio»: «Il nostro Piemonte – ha proseguito – registra fin dal 1983 la presenza della ‘ndrangheta, che ordinò l’omicidio di Bruno Caccia a cui è intestato il Palazzo di Giustizia di Torino. La consapevolezza di questa centralità del riciclaggio è tale – ha concluso – che la procura di Torino ha istituito di recente un pool antiriciclaggio».

Erano almeno otto e non due. L’inchiesta sulle ramificazioni della ‘ndrangheta ha permesso di fare ulteriormente luce su un sanguinoso caso di “lupara bianca” a due passi la Mole. Si tratta dell’omicidio di Antonio e Antonino Stefanelli, zio e nipote, e di Franco Mancuso. I tre scomparvero la sera del 1 giugno 1997 e i loro cadaveri non sono mai stati ritrovati. Si trattò, secondo l’accusa e le famiglie degli scomparsi, di un regolamento di conti successivo a un altro omicidio, avvenuto nel maggio dell’anno precedente. Allora, nei boschi di Chianocco, fu ritrovato il cadavere bruciato di Francesco Marando, 37 anni, fratello di Domenico. Quest’ultimo, così, ordinò di eliminare colui che considerava il mandante, Antonio Stefanelli, che si presentò con lo zio Antonino e con due guardaspalle, Francesco Mancuso e Roberto Romeo, nella sua villa di frazione Tedeschi a Volpiano dove erano stati attirati con la scusa di trovare un accordo. I primi tre furono uccisi sul posto e i loro cadaveri fatti sparire, forse sepolti in qualche cava. Romeo, che era rimasto all’esterno, riuscì a fuggire, ma fu giustiziato qualche mese dopo a Rivalta. Nel 1998 furono arrestati Domenico Marando e Giuseppe Leuzzi, un intermediario a cui si era rivolta la famiglia Stefanelli: sono stati condannati a 30 e 20 anni di carcere. A loro si sono aggiunti ora Gaetano Napoli, 40 anni, Rosario Marando, 42 anni, Giuseppe Perre, 71 anni, Santo Giuseppe Aligi, 41 anni, e il latitante Natale Trimboli, 42 anni, oltre a Rosario Trimboli, 38 anni, probabilmente già morto.

(Tratto da Ultime Notizie)