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Chi sono i capi invisibili della ‘ndrangheta

L’Espresso, 10 gennaio 2020

Chi sono i capi invisibili della ‘ndrangheta

La vera forza della mafia: hanno deciso governi, scalate economiche, maxi-investimenti. Sono la mente strategica delle operazioni e per decenni sono riusciti a nascondersi

DI ALESSIA CANDITO

Si chiamano “invisibili”. E sono il motivo per cui decenni di arresti, processi e condanne non hanno impedito alla ’ndrangheta di continuare ad essere «la mafia più potente del mondo». Per conto dei clan in rapporto con i vertici del potere «politico, istituzionale, professionale, informativo, finanziario, imprenditoriale, sanitario, bancario ed economico», gli invisibili sono la vera forza delle mafie. La mente, la direzione strategica. Ma per decenni sono riusciti a nascondersi.

Gli invisibili hanno deciso governi, scalate economiche, maxi-investimenti. Protetti dall’immagine di una ’ndrangheta arcaica, rozza, quasi tribale, descritta così, secondo il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri «da alcuni in buona, da altri in cattiva fede». Politici, imprenditori, finanzieri, banchieri, pubblici funzionari sono stati travolti dalle indagini in tutta Italia. Insomma, la caccia agli invisibili è iniziata da tempo.

«Chi sta sopra, decide le strategie, chi sta in mezzo le pianifica e le rende attuabili e chi sta sotto, le esegue. Le tre componenti, unitariamente considerate, formano l’attuale struttura della ’ndrangheta» diceva già una decina di anni fa il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. È stato lui, con l’inchiesta “Bellu Lavuru”, a trovare la prima traccia recente degli “invisibili”, evocati dal boss-massone Sebastiano Altomonte, come «quelli che non li conosce nessuno, ma contano davvero».

Poi sono arrivati collaboratori di giustizia come Consolato Villani a spiegare che esiste «una ’ndrangheta di forma e una di sostanza», fatta di «persone invisibili, che sono più in alto, hanno contatti con il mondo politico, con altre parti della società, sono massoni». O Nino Fiume, che ha parlato di quel «livello superiore» che ha consentito al clan De Stefano di essere «in protezione». E le dichiarazioni di Filippo Barreca e Giacomo Ubaldo Lauro, i primi collaboratori della storia della ’ndrangheta, hanno acquisito senso. Sono stati loro a svelare l’esistenza della Santa o Mammasantissima. All’epoca si pensava fosse semplicemente una “carica”, il grado più alto nelle gerarchie dei clan: In realtà era la prima “struttura riservata”, la conventicola di grandi capi in grado di decidere le strategie dell’intera organizzazione. E di misurarle con i rappresentanti di altri poteri economici, istituzionali, politici, che nelle logge incontravano da pari a pari.

Sperimentata con il golpe Borghese e i moti di Reggio, la struttura nel tempo è affiorata sotto la superficie di fatti di sangue e misteri, dalla strage di piazza della Loggia alla stagione degli attentati negli anni Novanta. Ha incrociato i propri destini con la P2 di Licio Gelli, l’eversione fascista, i paramilitari di Gladio e le schegge impazzite dell’intelligence, e il proprio cammino con personaggi come il terrorista nero Franco Freda.

Protetto dal clan De Stefano durante la latitanza a Reggio Calabria, c’era anche lui – racconta Barreca – fra i fondatori della «superloggia segreta di cui facevano parte appartenenti alla ’ndrangheta e alla destra eversiva» nata alla fine degli anni Settanta sulla sponda calabrese dello Stretto e nascosta «in una loggia massonica ufficiale». Nel 2009, il collaboratore Cosimo Virgiglio, massone di alto rango finito al servizio dei clan, ai pm descrive la medesima struttura. Nel tempo si è evoluta, spiega, ha usato come paravento obbedienze diverse, imparato a giocare con l’extraterritorialità, rifugiandosi dietro logge e cavalierati con base a San Marino e in Vaticano.

Sul piatto, la ’ndrangheta mette liquidità, diffusione capillare sul territorio, capacità militare, voti. Gli altri, i canali per trarne profitto tutti insieme. Con il grembiule addosso, si diventa fratelli. Come involontariamente confermato anche dal boss Luni Mancuso nel 2011: «La ’ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria, è sotto (nascosta ndr) della massoneria, però hanno le stesse regole. Oggi la chiamiamo “massoneria”, domani la chiamiamo p4, p6, p9», come quando «caduta la “democrazia”, hanno fatto un altro partito, Forza Italia».

Quello che non cambia sono i cognomi di chi ha accesso a quegli ambienti. A partire dagli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, travolti dall’inchiesta Gotha della procura di Reggio Calabria, a oggi gli unici ad essere finiti a giudizio come esponenti della direzione strategica della ’ndrangheta. E se Romeo attende ancora l’esito del giudizio di primo grado, De Stefano è già stato condannato a 20 anni come invisibile. Penalista con il pallino della politica, vicino alla destra eversiva ma eletto con la Dc, massone, con un capitale di contatti, fra i referenti dei siciliani negli anni degli “attentati continentali”, per tutti in grado di addomesticare sentenze fino in Cassazione e di creare dal nulla legioni di politici, anche dopo una prima condanna per concorso esterno, non ha mai rinunciato al proprio ruolo. Né lo ha fatto «il suo sodale e amico» Paolo Romeo, vicino alla destra eversiva e a Gladio ma eletto in Parlamento con il Psdi, pure lui già condannato in passato per concorso esterno alla mafia.

Un pezzo di una strategia molto più complessa e in più fasi – ipotizza oggi l’inchiesta di Reggio Calabria “’Ndrangheta Stragista”, sviluppando quella palermitana sulla Trattativa – che ha visto clan calabresi e siciliani lavorare gomito a gomito per individuare nuovi referenti politici affidabili nello scenario nazionale e internazionale stravolto da Tangentopoli e dalla fine della guerra fredda. Una fase delicata in cui molti invisibili, sebbene al momento non a processo come tali, sono venuti alla luce. Ad indicarli, ex boss calabresi, ma soprattutto siciliani.

Al killer oggi collaboratore di giustizia Giuseppe Maria Di Giacomo, è stato Santo Mazzei, il capoclan di Catania imposto dai corleonesi negli anni delle stragi, a spiegare che fra gli interlocutori di fiducia in Calabria c’erano «i Piromalli della Piana di Gioia Tauro e i Mancuso di Limbadi». Ed in particolare quel Pino Piromalli “Facciazza”, che sebbene oggi – dicono alcune informative – a causa della lunga detenzione abbia dovuto appaltare lo scettro ai nipoti, primo fra tutti Gioacchino “l’avvocato”, rimane uno dei più potenti boss calabresi. Parola dell’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, in carcere come riservato dei Mancuso, ma tanto vicino allo storico casato della Piana da poter affermare che «Dell’Utri, la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro». E assicurare che «ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno si chiama Giuseppe Piromalli, e l’altro si chiama Luigi Mancuso che è più giovane e forse più potente». Due «punte della stella» della medesima realtà criminale entrambi appartenenti a quella che il collaboratore Di Giacomo chiama «la cupola calabrese» di cui facevano parte «tutte le famiglie ed i relativi esponenti». Il passaporto per interloquire con altri mondi a nome dell’organizzazione.

Lo stesso che avevano i fratelli Domenico e Rocco Papalia, boss di Platì da mezzo secolo trapiantati a Milano, per trattare con i servizi affari, omicidi su commissione e scarcerazioni, o Cosimo Commisso “U Quagghia”, elemento di vertice di quel Crimine di Siderno che ha una componente in Calabria ed una in Canada. «Ci sono soggetti anche di maggiore peso nella zona jonica reggina» spiegano fonti investigative: feudo di storici casati mafiosi come i Nirta la Maggiore e i Pelle di San Luca, i Morabito Tiradritto di Africo, i Barbaro-Papalia di Platì. È da lì che emana il potere in grado di dare legittimazione a clan non certo di seconda fila come i Grande Aracri, diffusi come un’infezione dall’Emilia-Romagna al Nordest. Eppure Nicolino, che ne è il patriarca, dice il collaboratore Luigi Bonaventura «ha ottenuto il “crimine” da Antonio Pelle “Gambazza”, boss di San Luca, nella Locride». Anche Nicolino Grande Aracri è un «fratello», con tanto di spada templare, poi sequestrata nel 2012, ordinato cavaliere del sovrano Ordine di Malta. Intercettato, dice: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ’ndrangheta».

Lì dove maturano legami, contatti, strutture. Come quella «superassociazione» in cui le mafie coabitano con «altri componenti di un sistema politico-economico pantagruelico e deviato» su cui da tempo lavora la Dia di Reggio Calabria. Un «sistema pancriminale» in grado di gestire politici come gli ex alti papaveri di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e Amedeo Matacena o di condizionare gli investimenti di grandi imprese statali. Uno “Stato parallelo”.