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BOLOGNA – i giudici: “Le nuove mafie sono dentro lo Stato e attaccano la Costituzione”.

L’Espresso, Lunedì 31 luglio 2017

“Le nuove mafie sono dentro lo Stato e attaccano la Costituzione”

«Il disegno di uccidere il giornalista Giovanni Tizian è il tratto più inquietante dei fatti venuti alla luce» scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza del processo. Che diventa uno spartiacque per la giurisprudenza italiana. «Le organizzazioni criminali si inseriscono nelle istituzioni fino a sostituirsi ad esse»

DI FEDERICO MARCONI

Le nuove mafie esistono, prosperano in territori nuovi e utilizzano metodi inediti oltre a quelli tradizionali.E così il loro attacco ai principi della Costituzione si fa sempre più forte, come dimostrano le minacce di morte al giornalista Giovanni Tizian, colpevole di averne denunciato il giro di affari. Si possono riassumere così le 764 pagine con cui il Tribunale di Bologna ha motivato la sentenza del processo che ha visto sul banco degli imputati l’organizzazione criminale con a capo la famiglia Femia, smantellata nel 2013 dall’inchiesta “Black Monkey”.

La sentenza, emessa lo scorso 22 febbraio, è stata accolta come uno spartiacque per la giurisprudenza italiana: riconosce un’associazione a delinquere di stampo mafioso dai tratti tipicamente moderni e in grado di corrompere con la forza del denaro. Ma soprattutto un’associazione mafiosa «caratterizzabile come tale anche se non insediata nei classici territori di radicazione», come si legge nella motivazione pubblicata lo scorso 19 luglio.

Quella di Nicola Femia e degli altri ventidue imputati è per i giudici bolognesi «un sistema di potere, prima ancora che una consorteria criminale: è fondato sul consenso sociale ed economico e non può prescindere dalla penetrazione nelle istituzioni». È questo un altro punto fondamentale: la nuova mafia non si pone più come antagonista allo Stato, ma «la sua esistenza e affermazione comporta anche la collaborazione con funzionari pubblici, apparati dello Stato e politici».

Il processo ha dimostrato, scrive il presidente della prima sezione penale del Tribunale di Bologna Michele Leoni, i collegamenti dell’associazione capeggiata da Femia «con funzionari che assicurano una rete di sicurezza svelando indagini, o con sedicenti o effettivi apparati dell’intelligence». In altre parole, un rapporto di complicità tra mafia e parti dello Stato.

Su questo rapporto potrà fare chiarezza lo stesso Nicola Femia, che a febbraio ha iniziato a collaborare con la giustizia. A febbraio ha chiesto di parlare con il pm del Dipartimento distrettuale antimafia di Bologna Francesco Caleca. La sua collaborazione potrebbe risultare importante per ricostruire gli interessi della ‘ndrangheta nell’Italia settentrionale.

«La mafia oggi non è più solo pizzo» continuano i giudici nella motivazione «ma imprenditoria con aspirazioni monopolistiche-oligopolistiche». Aspirazioni che non prescindono però «dai consueti metodi illegali che permettono l’insediamento e il consolidamento dell’organizzazione criminale». In quest’ottica il consenso sociale «non è solo estorto agli altri operatori economici, ma proviene dai vantaggi offerti dalla condivisione di attività illecite».

Alcune tracce del passato rimangono, altre svaniscono.Rimane «la capacità non solo attuale, ma potenziale, di sprigionare una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di chi viene in contatto con gli affiliati dell’organismo criminale». Fatto dimostrato nel corso del processo dal susseguirsi di teste totalmente reticenti. Svanisce, invece, il rituale di affiliazione: non c’è bisogno di dito punciuto e santino bruciato per individuare un mafioso. «La ricorrenza di un rituale può essere una prova» scrivono i giudici bolognesi «ma non condiziona l’esistenza di una realtà criminale associativa, che deve essere dimostrata da altri persuasivi elementi».

Elementi come il potere di intimidazione e assoggettamento, l’omertà, il controllo di settori economici, infiltrazioni nelle istituzioni e consolidati legami con le altre organizzazioni mafiose, che evidenziati nel corso del processo hanno «indotto ampiamente a ritenere la natura mafiosa dell’associazione per delinquere facente capo a Nicola Femia».

Tra le parti civili del processo è presente anche il giornalista Giovanni Tizian, che dal 2011 vive sotto protezione per le minacce ricevute da Guido Torello, tirapiedi di Nicola Femia. La colpa del giornalista, che all’epoca scriveva per la Gazzetta di Modena, è stata quella di aver pubblicato due articoli sugli affari illeciti del clan. In un’intercettazione telefonica del dicembre 2011 si sente Torello parlare a Femia e minacciare Tizian: «Lo facciamo smettere… ci penso io… o la smette o gli sparo in bocca…».

«Il disegno di uccidere il giornalista Giovanni Tizian, colpevole di aver denunciato sulla stampa l’attività criminale dei Femia, è il tratto più inquietante e sinistro dei fatti venuti alla luce» scrivono i giudici bolognesi «si tratta di un aspetto addirittura eversivo, un attentato alla Costituzione la quale, all’articolo 21, stabilisce che la stampa non può essere soggetta a censure». Viene evidenziata così «la pericolosità della mafia quale contropotere che tende ad avere il controllo sociale, a tacitare l’informazione e, lentamente e progressivamente, a inserirsi nelle istituzioni fino a sostituirsi ad esse».