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Aurelio ucciso dalla mafia foggiana

Aurelio ucciso dalla mafia foggiana

a cura di Marianna Ciavarella e Francesco Trotta

Il 9 agosto 2017 l’Italia, immersa nel caldo estivo e alle prese con le vacanze, si risveglia di soprassalto quando le notizie di cronaca, tra telegiornali e web, riportano di una strage in Puglia. Quattro uomini uccisi nelle campagne del foggiano, a San Marco in Lamis, un piccolo paesino con poco più diecimila persone. È così che scopriamo l’esistenza di una mafia ancor più pericolosa delle altre assai più famose, la “società foggiana”, un insieme di clan che poco o nulla hanno di che spartire con la Sacra Corona Unita, l’altra organizzazione criminale pugliese. Perché nella vasta area del Gargano, i mafiosi sono boss spietati, che resistono al contrasto dello Stato e gestiscono il potere da oltre trent’anni senza apparente disturbo: trecento omicidi di cui circa duecento ancora da comprendere, a cui dare risposte. Ma il 9 agosto 2017, non muore soltanto il bersaglio dei killer: Mario Luciano Romito, già in precedenza scampato ad altri agguati, insieme al cognato Matteo De Palma. Nella strage di San Marco in Lamis vengono uccisi due innocenti, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani.

È un regolamento di conti quello che costa la vita a loro due, persone perbene, due agricoltori, mariti e padri di famiglia. Vittime “collaterali” di una faida fatta di sangue, vendette e soffiate agli investigatori. Lo è così da sempre per le mafie. Ma quella foggiana sembra ancor più atavica e comunque capace di essere “contemporanea”. Con lo Stato sempre a rincorrere, ad arrivare dopo.

Come la mattina del 9 agosto, quando un commando di sicari, guidato secondo gli inquirenti dal basista Giovanni Caterino, dopo aver eseguito l’omicidio di Romito, incrocia Luigi e Aurelio, che quel giorno si erano recati nei terreni tra Apricena e San Severo. Due agricoltori per scelta. Orgogliosi di essere contadini, lavoratori sempre entusiasti di quanto gli offriva la terra. Anche quel giorno erano andati col solito Fiorino bianco a controllare i campi. Gli assassini mafiosi, scambiandoli forse per alleati di Romito o non volendo lasciare testimoni, hanno ucciso i fratelli Luciani all’altezza della vecchia stazione di San Marco in Lamis. Luigi è morto dentro il furgoncino, crivellato dai colpi. Aurelio, invece, aveva provato a fuggire, ma è stato inseguito, raggiunto, e barbaramente assassinato.

E a lui che dedichiamo questo racconto, con le parole di Marianna Ciavarella, sua moglie: «L’ultimo ricordo di mio marito è la sua telefonata del mattino, introno alle 7.30. Come ogni giorno, mi dava il buongiorno al telefono perché lui usciva sempre presto, sulle 5.00, per andare a lavoro e quindi non avevamo modo di vederci. Anche quella mattina fu così. Mi disse poi che si era liberato per il giorno successivo, per potermi accompagnare a fare la visita dal ginecologo. Aveva poi aggiunto di dire ai ragazzi di tenersi liberi per il pomeriggio così avremmo potuto trascorrere mezza giornata tutti insieme. Mi diede una buona notizia perché era un periodo molto impegnativo per il suo lavoro e mi toccava quindi andare da sola alle visite per la gravidanza. In quel periodo ero incinta di sei mesi e mezzo: Angela, fortunatamente, sarebbe nata pochi mesi dopo».

Marianna ha la voce ferma di una donna che ha dovuto affrontare il dolore ma senza abbattersi o poterlo fare. Portava la vita in grembo. È stata coraggiosa e continua ad esserlo. Il suo tono di voce infonde comunque tranquillità.

«Ricordo poi che mi arrivò la notizia, ma era abbastanza confusionaria. Si parlava di questo agguato ed essendo una zona molto familiare, dove tutti si conoscono, eravamo in attesa di capire meglio cosa era successo. Il fatto era accaduto vicino alla stazione di San Marco, l’azienda di mio marito era lì vicino e a quel punto mi venne un po’ di paura. Ci fu poi una telefonata che fu quella definitiva, dove mi diedero la notizia ufficiale». Marianna fa una piccola pausa e poi riprende a parlare: «Io da moglie chiedevo: “ma chi dei due? Aurelio o Luigi?”. Quando è girata voce di questo Fiorino ho ovviamente pensato a mio marito, perché lui ne aveva uno. Ma, appunto perché il lavoro era molto in quel periodo, anche il fratello spesso andava con lui e lo utilizzavano insieme. Dall’altro capo del telefono, non ebbero il coraggio di dirmi che erano morti entrambi. E in quel momento non ho pensato se Aurelio fosse vivo o no, pensavo solo che l’avrei raggiunto in ospedale. È stato questo il mio pensiero, che l’avrei rivisto lì. Ma così non è stato. I corpi sono rimasti sul posto finché non sono arrivati gli inquirenti, per poi portarli direttamente all’obitorio».

Il tono della voce di Marianna cambia leggermente quando le chiedo come ha fatto ad andare avanti. Si abbassa, ma le sue parole rimangono chiare e lasciano il segno. È allora che mi accorgo che in realtà lei non si è mai fermata. Ha sofferto, ha fatto suo il dolore per quanto ha potuto, consapevole di essere anche madre, oltre che moglie. «Ciò che mi ha spinta ad andare avanti è stata la bambina che portavo in grembo. Dovevo far nascere una nuova vita, era la figlia di Aurelio. Per lei e per gli altri due bambini, oggi adolescenti. Continuavo a far coraggio anche a loro, ripetendo che dovevamo far nascere e crescere la sorellina in un ambiente sereno e tranquillo. Il dolore c’è, è incancellabile. Ripetevo a loro che c’era tanto tempo per soffrire, ma in quel momento dovevamo affrontare anche l’arrivo di Angela. Non potevamo permetterci un altro trauma». I giorni che ha trascorso la famiglia Luciani e in particolare Marianna, capace di sopportare e di sostenere quanto la realtà le aveva dato, sono difficili da immaginare. Ma oltre al grande dolore che rimane, c’è stata anche la grande gioia: il 28 ottobre 2017. «Purtroppo non l’ho potuta condividere con mio marito e questa cosa mi fa malissimo. Ancora oggi quando guardo questa bambina che chiama papà riferendosi a una fotografia, a un’entità vaga, mi fa molto male. Purtroppo lei non ha potuto conoscere Aurelio, nemmeno sentire l’odore di suo padre, solo le carezze attraverso la pancia. Devo essere sincera, su tre figli, è stata l’unica ad avere così tante carezze attraverso il pancione». Sorride Marianna quando mi racconta questo particolare, dell’affetto consapevole e maturo riservato alla piccola.

«Aurelio lavorava e faceva sacrifici per la famiglia e tutti questi sacrifici oggi si vedono», aggiunge Marianna, che ricorda le persone che le sono state accanto, a partire dalla famiglia e dagli amici, ma anche le Forze dell’ordine del paese, che mai smette di ringraziare. «In particolare il Nucleo Investigativo Carabinieri di Foggia, denominato “9 Agosto 2017”. Poi c’è il lavoro dalla Magistratura che fino ad oggi sta portando avanti il processo in modo regolare e giusto. Abbiamo la forza di credere e andiamo avanti a credere, perché altrimenti avremo solo perso tempo».

Ed è acuta Marianna, come sa esserlo una madre ma anche una donna che conosce il territorio in cui vive, anche nel parlare della reazione del paese, San Marco in Lamis: «Per quanto riguarda la comunità credo che ci siano due poli: quelli che come noi hanno toccato con mano, ed è la buona parte della popolazione; poi ci sono quelli che hanno timore, perché comunque si parla di mafia, e quindi indietreggiano e non si espongono più di tanto».

Marianna non ha paura: «No, devo essere sincera. Paura, no. Perché loro non hanno avuto paura ad ammazzare due innocenti. Perché io devo avere paura della mafia? Ho un po’ di timore per il futuro dei miei figli e questa è l’unica preoccupazione che ho. I miei figli adolescenti hanno subito un’ingiustizia così grande che non posso sapere come l’abbiano interiorizzata veramente. Soltanto questa è la mia preoccupazione, ma paura della mafia no. Loro hanno ammazzato due innocenti che erano lì per lavorare, non hanno giustificazione per l’atto crudo che hanno compiuto, senza nessuna remora. Non li giustificherò mai e mai per loro ci sarà un perdono. Mio marito non era un poliziotto o un carabiniere, che sai che per lavoro la sua vita può essere a rischio. Lui era un agricoltore e non aveva contatti di nessun genere. I rischi del suo lavoro erano altri e mai avrei pensato che la sua potesse essere una morte mafiosa. Una cosa del genere io non la accetterò mai. Per questo dico che ho paura per i miei figli. Angela è ancora piccola, ma i fratelli l’hanno vissuta la situazione, erano piccoli perché avevano 10 e 12 anni quando hanno subito un lutto così grande e per mano mafiosa».

Allora è con un messaggio di speranza che comunque vogliamo salutarci, a partire dalla piccola Angela, a cui mamma Marianna racconterà di suo padre: «Le racconterò della persona serena e fantastica che era. Lei potrà rivedere il suo papà nei fratelli perché loro assomigliano molto a lui. In ognuno di loro rivedo tanto di mio marito, nei piccoli gesti, nelle affermazioni che fanno. Il ricordo di Aurelio è vivo ogni giorno e mi manca ogni giorno. Era una persona solare, tranquilla, di quelli con la filosofia del “vivi e lascia vivere”. Io oggi ai miei figli voglio trasmettere questo messaggio di positività, perché coltivare l’odio significherebbe essere mafiosi come loro. L’odio oggi non serve. Oggi serve solo la giustizia, essere giusti».

(Foto per gentile concessione di Marianna Ciavarella)

10 Aprile 2020

fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/