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Arrestato e, poi, rilasciato a Viterbo il pentito Carmine Schiavone. Chi è?

Spartacus, vita e morte dei Casalesi

La sentenza di primo grado è del 2005 Ergastolo a Sandokan Zagaria e Iovine

CASERTA. Il 16 maggio, tra meno di tre mesi, saranno passati quindici anni dalla svolta. Quella mattina, nella sala colloqui del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Carmine Schiavone sciolse la riserva e iniziò a raccontare la vita e la morte all’ombra del clan dei Casalesi: «Mi chiamo Schiavone Carmine, nato a Casal di Principe. Voglio collaborare con la giustizia perché sono stanco e pentito, per i miei figli e nipoti voglio un destino diverso». Ad ascoltarlo erano andati Lucio Di Pietro, Federico Cafiero de Raho, Francesco Greco, i magistrati che hanno istruito il processo poi affidato, nel lungo dibattimento, a Cafiero e alla II Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere. Cugino del capoclan caduto in disgrazia, di quel Francesco Schiavone che era arrivato al vertice dell’organizzazione scalzando prima Bardellino, e poi beneficiando della morte di Mario Iovine, Carmine aveva molte cose da raccontare: fatti di cui era stato testimone ma anche informazioni orecchiate. Era la stori a di quasi vent’anni di camorra che stava scrivendo, con i limiti di chi è solo e che sa di non poter essere smentito ma anche con la conoscenza profonda di meccanismi e dinamiche del clan e della famiglia. Fornì la sua «interpretazione autentica» di omicidi e guerre di successione, di ricatti e di scalate al mondo dell’imprenditoria. Raccontò di patti scellerati con la politica, di poliziotti, giudici e carabinieri corrotti, di come la camorra controllasse tribunali e apparati amministrativi, Comuni e voto. Non tutto è risultato vero, non tutto è stato provato. Ma nonostante questo, nonostante le mille e una contraddizioni di un pentito scavalcato nella scala dell’attendibilità da molti altri che lo hanno seguito, se non ci fosse stato quel 16 maggio 1993, se non ci fosse stato Carmine Schiavone, il clan dei Casalesi sarebbe ancora quello che era stato, forte e inossidabile, potente e sanguinario. Senza Carmine Schiavone non ci sarebbe mai stato neanche il processo. Le sue accuse divennero tali il 5 dicembre del 1995, quando il gip di Napoli Giovanna Ceppaluni fece arrestare 136 persone nel blitz che va sotto il nome di «Spartacus», come lo schiavo che si ribellò ai tiranni. Processo che si è chiuso in primo grado a mezzogiorno del 15 settembre 2005, dopo sette anni, due mesi e quindici giorni di dibattimento. Dopo 626 udienze celebrate; 508 testimoni sentiti oltre ai 24 collaboratori di giustizia (di cui 6 imputati). Dopo quindici giorni di camera di consiglio. Quel giorno, il presidente Catello Marano e il giudice Raffaello Magi, estensore di una sentenza che è una sorta di bibbia e di vademecum della storia di camorra dagli Anni Ottanta al 1996, lessero il lungo e articolato dispositivo che ha riguardato 113 imputati: novantuno condanne, di cui ventuno ergastoli. Ventuno anche le assoluzioni. Svolta per l’omicidio di Antonio Bardellino: per la Corte, fu Francesco Schiavone-Sandokan, d’accordo con Mario Iovine e Vincenzo De Falco (uccisi nel 1991), a deciderne l’eliminazione per subentrare al vertice del clan. Omicidio per il quale è stato condannato il solo Schiavone. Quindici anni dopo, però, la sentenza non è ancora diventata definitiva. In Corte di Assise di Appello il processo è stato smembrato in due tronconi. Il primo, nel quale si discute solo degli omicidi, è quasi concluso: sette imputati, condannati all’ergastolo, hanno patteggiato la pena, ridotta a trent’anni. Per altri quattordici il pg ha chiesto la conferma del carcere a vita. Tra questi ci sono Francesco Schiavone-Sandokan, il fratello Walter, il cugino omonimo, Francesco Bidognetti (tutti detenuti) ma anche Michele Zagaria e Antonio Iovine, latitanti dal 5 dicembre del 1995, allo stato gli uomini più ricercati d’Italia. Non si sa più nulla, invece, del secondo troncone, quello nel quale si ricostruisce la storia criminale della provincia di Caserta e nel quale si contesta l’accusa di associazione camorristica, cioè l’esistenza stessa del clan. A due anni e mezzo dalla sentenza di primo grado, la prima udienza di appello non è stata ancora fissata né si sa quale sezione della Corte di Appello dovrà discuterlo. Dall’ultimo fatto contestato agli imputati condannati sono già trascorsi dodici anni. La prescrizione è lontana, ma per qualcuno è già a portata di mano.

(tratto da www.internapoli.it)