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Almeno tacciano!!!

Evidentemente si preferisce un tipo di antimafia soft, fatta più di parole che non di fatti; un tipo di antimafia che parli di cieli e di terra, di morti ammazzati, di storie di clan e di boss, di commemorazioni e di racconti.
Utilissimo, anche questo, per carità, se non altro per svegliare le coscienze e per ricordare a tutti il pericolo che si corre se non ci si impegna a combattere il fenomeno ed a vincere la guerra.
Ma non basta.
Noi ci siamo trovati di fronte ad uno Stato che ha dato l’impressione spesso di essere una sorta di Giano bifronte, di uno Stato, cioé, che, mentre da una parte ha combattuto il livello militare della mafia, ha mostrato un’incredibile dose di tolleranza nei confronti di quelli politico ed economico.
Eppure le mutazioni delle mafie, che da fenomeno essenzialmente delinquenziale si sono trasformate negli anni in grandi e potenti strutture a forte caratterizzazione politica ed economica al punto da condizionare la vita pubblica di grandi porzioni del territorio italiano, per non dire dell’intero Paese, avrebbero dovuto imporre una diversa analisi e l’individuazione e l’attuazione di strategie e tattiche aggressive più efficaci ed aggiornate.
Ci sono stati- vogliamo essere buoni – ritardi, omissioni, carenze imperdonabili ed oggi, se le mafie hanno raggiunto un livello di radicamento particolarmente inquietante in tutti i territori del Paese, le responsabilità non sono di certo del povero mendicante dietro l’angolo del caseggiato.
Le RESPONSABILITA’.
Ci monta la rabbia in corpo a sentir parlare coloro che, per gli alti livelli di responsabilità ricoperti o che ricoprono, dovrebbero almeno aver il pudore di tacere, mentre sono i primi ad accusarti e minacciarti di querelare ove mai tu sbagliassi una virgola.
DOVREBBERO VERGOGNARSI E CHIEDERE SCUSA AL PAESE PER LE LORO INERZIE, DISATTENZIONI, INCAPACITA’.
Di chi la responsabilità se siamo arrivati al punto in cui siamo arrivati se non loro?
Quando a Paolo Borsellino alcuni studenti domandarono se si sentiva o meno protetto dalle Istituzioni e lui rispose ” NO”, alcuni di quei signori che ancora vanno blaterando sulle piazze e sulle colonne dei giornali non venne alcun senso di colpa? Inetti! Mafia. Quella parola che a Roma non si può dire. Il raccolto rosso della capitale  di Pietro Orsatti  dimensione font  Stampa  Email   Video  Commenta per primo!
ROMA – Fra il 1983 e il 1993 in Italia le mafie uccisero diecimila persone. In Sicilia, Campania, Calabria e Puglia principalmente. Ma anche in altre zone del paese i boia procedettero tranquillamente nella loro contabilità di morte. Ce lo ricorda, spietatamente, Enrico Deaglio nel lbro “Raccolto Rosso” che quella strage ha cercato di raccontarci. Una guerra, o la somma di più guerre contemporanee che insanguinarono la penisola in un silenzio, il più delle volte, assordante. Per il controllo del traffico dell’eroina, degli appalti, del racket, del rapporto preferenziale con pezzi della politica e della finanza. In tutto il paese. Numeri impressionanti e terribili. Che si tentò all’epoca in tutti i modi – da parte della politica – di disgregare dalle statistiche e spesso sminuire e che oggi abbiamo affrettatamente dimenticato. Certo oggi ricordiamo ile troppe vittime innocenti, gli appartenenti agli organi dello Stato, i giornalisti, testimoni, imprenditori, semplici cittadini caduti. Troppi, si, ma che sono comunque una frazione minima di quei diecimila. E quell’enormità ora abbiamo dimenticato irresponsabilmente. Perché se gran parte dei caduti di questo terrificante conflitto erano appartenenti alle organizzazioni mafiose il bilancio del “Raccolto Rosso” colpisce e lacera l’intera società italiana. Ancora oggi. Perché anche se si uccide meno si continua a uccidere anche in questi anni. La guerra, anche se meno visibile, prosegue. Non c’è zona del paese che non vi sia stata coinvolta. La famosa linea della palma di Leonardo Sciascia, quella che descrive nel libro Il giorno della Civetta, si è affermata da decenni, salendo lentamente e inesorabilmente a Nord. È nelle cose, l’abbiamo cosi metabolizzata nella nostra geografia interiore fino ad averne una percezione fatalistica se non addirittura di normalità. Si uccide ancora, con regolarità. In questo momento uno dei luoghi dove si uccide di più in Italia è Roma. È in corso da alcuni anni una guerra di mafia nella capitale e nessuno la chiama con il suo nome. Perché si ha una paura terribile di pronunciare la parola “mafia”. Sembra quasi che ci si vergogni di aver abbassato la guardia e di aver sottovalutato la penetrazione e il radicamento delle mafie nel tessuto economico e sociale della capitale, e allora meglio negare che assumersene pubblicamente la responsabilità. E ancora, temo – anche se sempre più spesso trovo conferma dei miei timori -, a qualcuno conviene non definire, non chiamare con il proprio nome, la mafia o le mafie per pura convenienza. Perché le mafie portano soldi e affari. E potere. Come trent’anni fa. Come anche prima.
Perché la mafia non è semplicemente criminalità che si organizza. La mafia è potere criminale, economico e anche politico. Deaglio parla di “borghesia mafiosa”. Altri, come Roberto Scarpinato e Saverio Lodato ne “Il ritorno del principe” definisco la mafia come fenomeno nato e condotto all’interno della classe dominante. Tutte e due le definizioni sono esatte. Perché la mafia ha mille aspetti per esprimersi. E solo pochi e chiari obiettivi: arricchimento e garantirsi impunità. Quando invece di parlare di mafia o mafie si usa il termine “criminalità organizzata” già si mette in atto una sottovalutazione consapevole del problema. Quando un’esecuzione di mafia viene definita come “regolamento di conti fra bande” si mette in atto un’operazione di rimozione che abbiamo già vissuto e subito nel passato e che ha causato enormi tragedie a tutta la nostra comunità. “Finché si ammazzano fra loro”. Esattamente quello che accadeva all’alba della mattanza a Palermo, la scalata dei corleonesi di Liggio, Riina e Provenzano ai vertici di Cosa nostra. L’ho sentita oggi quella frase. A Roma, “Finché si ammazzano fra loro” e quindi non si definisce questa emergenza, usare il termine “mafia” è pericoloso, anzi no, è consapevole disfattismo, attentato all’economia della città, del paese. La mafia è a Roma. Anzi le mafie, perché ci sono tutte e prosperano da decenni anche se di tanto in tanto ci scappa un morto o, peggio, qualche arresto a disturbare quel pacifico prosperare. Ci sono Cosa nostra siciliana, i casalesi e i camorristi e gli scissionisti campani, la ‘ndrangheta calabrese e pure la nuova mafia autoctona figlia della vecchia banda della Magliana. Senza poi parlare delle organizzazioni straniere come quella cinese. Negli anni ’70 e ’80 le parole d’ordine delle mafie che operavano nella capitale erano quattro: eroina, politica, appalti, affari. Oggi è cambiato solo un fattore, la cocaina ha sostituito l’eroina (anche se quest’ultima sta lentamente riprendendo piede). Il conflitto sanguinoso in atto in questi anni ha proprio la droga al centro delle sue motivazioni. Attenzione, non si uccide solo per il controllo delle piazze dello spaccio. Quello si è una ragione del conflitto, ma la questione è altra e con ben altre dimensioni. Si uccide per il traffico di cocaina a livello nazionale e internazionale. Almeno il 30% (ed è la stima più ottimistica) di tutta la coca trafficata in Europa transita per il Lazio e la capitale. Parlo di un affare di molti miliardi di euro l’anno. E il cartello delle organizzazioni mafiose tradizionali (calabresi, campane e siciliane) hanno l’assoluta necessità di garantirsi un controllo totale del territorio. Si, un cartello mafioso, sperimentato e consolidato negli anni a Fondi nel basso Lazio (la presenza del più grande mercato ortofrutticolo d’Europa a fare da copertura a ogni traffico possibile) e che ora sta imponendo anche con il sangue la propria dittatura nell’hinterland e nella capitale. Perché a Roma, in continuità con quello che fu la banda della Magliana, si è ricreata un’organizzazione autoctona di stampo mafioso – a volte con l’aiuto di fuoriusciti dalle altre organizzazioni – che ha cercato di occupare spazi strategici nello spaccio e nel traffico. Hanno alzato il tiro, hanno chiesto la loro fetta della grande torta della cocaina e forse anche degli altri affari che l’incredibile liquidità garantita dal traffico e dallo spaccio di droga garantisce soprattutto in questa fase di crisi economico/finanziaria dove credito e liquidità legali sono diventati un miraggio. Da qui l’esplosione di un conflitto unidirezionale. A riprova il fatto che la maggior parte dei “caduti”, sicuramente di quelli “eccellenti”, appartengono a questa organizzazione. il cartello non tollera nuovi concorrenti. Soprattutto non tollera che i gregari e la manovalanza cerchino di salire un gradino nella gerarchia degli affari. Ma andiamo ai numeri di questa guerra di mafia. Ufficialmente non ce ne sono. Non c’è una certa contabilità di morte. Quasi tutti gli omicidi – e si tratta di esecuzioni e non conflitti a fuoco – vengono derubricati -spero solo nei comunicati stampa e non nelle indagini – come “regolamenti di conti” strettamente locali. Questo il messaggio lanciato all’opinione pubblica. Poco più che criminalità comune. Poche le voci discordanti e stonate in questo coro anestetizzante. Qualche dichiarazione proveniente dalla procura (puntualmente inascoltata e pubblicata in taglio basso dai giornali) altre da parte di alcuni esponenti delle forze di polizia. Ma la versione più accreditata dalla politica e dalla stampa capitolina è quella minimalista. Si, forse la mafia c’è a Roma come in tutto il paese del resto, ma certo non è in atto alcuna guerra. State tranquilli.
Ho fatto una veloce ma faticosa verifica sull’archivio dell’Ansa usando come parametri di selezione le modalità di esecuzione degli omicidi e il “curriculum” degli uccisi. Questo dopo l’ultima esecuzione alla vigilia di Pasqua in un bar di Tor Bella Monaca. In 30 mesi 64 fatti di sangue nella capitale e nell’hinterland. Ed è certo un numero calcolato per difetto. Se poi dovessimo andare a censire il numero di intimidazioni verso imprenditori e commercianti, gli attentati incendiari a mezzi e negozi, i casi di usura, non finiremo più. Si tratta non di segnali tutti da interpretare ma delle innumerevoli prove dell’assoluto controllo che le mafie esercitano sull’intero territorio di Roma. Intero, non solo in pezzi delle più degradate periferie. Ho avuto più di una segnalazione di atti di intimidazione in pieno centro a Roma. Uno in particolare mi ha colpito perché fisicamente avvenuto a metà strada fra la Camera dei deputati e la sede dell’ordine dei giornalisti. Una zona della città dove il controllo dello Stato sul territorio dovrebbe essere fortissimo. E invece… Quanti morti dovremo censire, quante infiltrazioni, quante penetrazioni nel tessuto economico attraverso il racket e l’usura, quanti appalti truccati, quante tonnellate di cocaina trafficata dovremo contare prima che si abbia il coraggio di pronunciare la parola mafia? Le mafie a Roma ci sono, operano da decenni. E a Roma è in corso una guerra di mafia e non slegati regolamenti di conti fra qualche bullo di periferia