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Aemilia, il maxi-processo per ‘ndrangheta compie due anni e l’Emilia è ancora divisa. Ora tocca (di nuovo) alla politica

Il primo febbraio prossimo inizieranno le arringhe finali, ma prima i giudici vogliono ascoltare tre nuovi testimoni sul rapporto tra criminalità organizzata e istituzioni locali. Alla sbarra sono il radicamento in Emilia Romagna della cosca cutrese collegata al boss Nicolino Grande Aracri, alla finestra a guardare c’è una comunità locale stordita dalle dimensioni della infiltrazione mafiosa nei propri territori e divisa nella valutazione del problema

di Paolo Bonacini

L’inizio della fine per il processo Aemilia è segnato per giovedì 1 febbraio 2018, ma prima sarà di nuovo la politica a tornare a processo. A tre anni dalla notte del 28 gennaio 2015, quando 117 arresti segnarono la più grande operazione della Direzione Antimafia contro la ‘ndrangheta nel nord Italia, salvo sorprese la parola passerà ai pubblici ministeri per le arringhe. Il processo, iniziato nel marzo 2016, ha appena spento la seconda candelina di Natale ma il presidente del Tribunale Francesco Maria Caruso ha chiuso in fretta le feste, nell’udienza del 28 dicembre, indicando i nomi dei nuovi testimoni che il collegio giudicante intende ascoltare prima delle conclusioni: l’ex direttore dell’Agenzia del Territorio Potito Scalzulli, l’ex assessore alla legalità Franco Corradini e lo scrittore Enzo Ciconte. Tre persone, che scalderanno l’aria dell’aula bunker di Reggio Emilia nel mese di gennaio, per approfondire un tema che tiene banco più di altri dopo le deposizioni dei collaboratori di giustizia Antonio Valerio e Salvatore Muto: il rapporto tra mafia, istituzioni locali e politica. In totale sono 147 gli imputati rinviati a giudizio; altri 87 hanno scelto il rito abbreviato a Bologna che nel settembre scorso ha concluso il processo d’appello con 56 condanne per alcuni secoli di carcere. Alla sbarra sono il radicamento in Emilia Romagna della cosca cutrese collegata al boss Nicolino Grande Aracri e i suoi affari illeciti che hanno movimentato attività, dalla falsa fatturazione alle truffe comunitarie, dallo sfruttamento di mano d’opera al controllo del mercato edile, per miliardi di fatturato. Alla finestra, a guardare, c’è una comunità locale stordita dalle dimensioni della infiltrazione mafiosa nei propri territori, divisa nella valutazione del problema.

Il primo nuovo testimone chiamato dai giudici è Potito Scalzulli, attuale assessore nel comune collinare di Galeata, in provincia di Forlì, direttore tra il 2009 e il 2012 dell’Agenzia del Territorio di Reggio Emilia. Ascoltato il 20 settembre scorso dalla Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi, ha ripreso e rilanciato accuse sulla malagestione del Catasto che avevano spinto la procura reggiana, nel 2002, ad aprire una inchiesta poi archiviata per prescrizione dei reati che andavano dalla corruzione alla truffa verso lo Stato, all’abuso d’ufficio e al falso ideologico. Scalzulli sostiene che in quegli uffici si operava per falsificare al ribasso i valori delle rendite su centinaia di immobili e capannoni, arrivando anche a dimezzarle, per favorire i relativi proprietari o le società titolari attraverso un drastico abbattimento di imposte. Tra i colpevoli di queste pratiche indica il consigliere comunaleSalvatore Scarpino, eletto per tre mandati nelle liste dei Ds (poi Pd) e di recente passato a Mpd. Scalzulli sostiene di avere segnalato la cosa al deputato Pd Maino Marchi, allora membro della commissione antimafia, ma che il parlamentare rispose “Scarpino non si tocca” perché in ballo c’erano i voti di almeno 700 cutresi che lui garantiva per il partito. “E’ tutto falso” ha replicato Marchi, annunciando querele. Ma la domanda di oggi è: “Perché i giudici di Aemilia vogliono sentire Scalzulli?”. Forse perché di favori alle imprese edili, da parte di organi e persone dello Stato e degli Enti Locali, si è tanto parlato nelle udienze di Aemilia da rendere legittimo qualche ulteriore approfondimento. O forse perché c’è un reato che più di altri aleggia nell’aria dell’aula bunker: il 416 ter, cioè il voto di scambio politico mafioso, punibile con una pena da 4 a 10 anni di carcere. Si sa mai che a forza di aleggiare atterri su qualcuno dei presunti ‘ndranghetisti alla sbarra, qualora il processo accertasse che ci hanno davvero provato, come sostengono i collaboratori di giustizia, a portare a casa “utilità” e “favori” in cambio di voti.

Il secondo testimone che sarà chiamato in gennaio è l’ex assessore alla coesione e sicurezza sociale del Comune di Reggio EmiliaFranco Corradini: un altro come Scarpino che in Consiglio Comunale ci ha passato una vita. Alla faccia della coesione politica si candidò a sindaco nelle primarie Pd del 2014 contro l’attuale primo cittadino Luca Vecchi e in una battaglia senza sconti finì al centro di roventi polemiche per le centinaia di extracomunitari che andarono a votare per lui in una sezione del centro storico. Il sindaco reggente Ugo Ferrari (Delrio era già da tempo a Roma) gli ritirò la delega di assessore per quella storia e Corradini rispose facendo ricorso al TAR e poi al Consiglio di Stato: una vera armonia di partito.

Il terzo testimone è lo storico e scrittore Enzo Ciconte, profondo conoscitore delle dinamiche mafiose e in particolare della penetrazione ‘ndranghetista in Emilia Romagna. Per capire, conoscere, studiare la materia del radicamento mafioso, a lui si rivolsero più volte gli amministratori locali, in particolare l’ex sindaco Gaziano Delrio che lo ha citato nella propria deposizione al processo. Ed allora, ribaltando le parti, venga Ciconte in aula a raccontarci cosa a suo avviso hanno capito e compreso a Reggio Emilia. Quale sia lo spessore della consapevolezza politica sulle ferite inferte dalla ‘ndrangheta e sulle sue collusioni con pezzi di comunità locale.

Il processo Aemilia, di conseguenza, è prossimo alla fine ma non è finito. In gennaio se ne sentiranno delle belle in aula mentre fuori genti e istituzioni continuano a dividersi. Da un lato chi fa propria la cultura della lotta alla mafia senza se e senza ma, introdotta a partire dal 2009 nel suo mandato a Reggio Emilia dall’allora prefetto Antonella De Miro, oggi prefetto a Palermo. Dall’altro chi considera il problema sovrastimato, di interesse strettamente giudiziario e dannoso per l’immagine della Regione, per cui prima si archivia il processo e meglio è.

Simbolo di questo filone di pensiero è il Comune di Brescellosulle rive del Po, sciolto per infiltrazione mafiosa il 20 aprile 2016, dove si andrà a votare per ricostruire un governo dei cittadini nella prossima primavera dopo due anni di commissariamento. L’8 dicembre scorso il Consiglio di Stato ha definitivamente respinto il ricorso dell’ex sindaco Marcello Coffrini contro lo scioglimento ma buona parte del paese resta al suo fianco e grida al complotto dicendo: qui la mafia non esiste.

Nel capoluogo, a Reggio Emilia, il sindaco Luca Vecchi è sotto pressione per le parentele della moglie che i collaboratori di giustizia hanno sbandierato in aula e che secondo il pentito Salvatore Muto spinsero Francesco Lamanna, uno dei capi della cosca emiliana già condannato a 12 anni nel rito abbreviato, a garantire il suo impegno per far giungere voti all’attuale primo cittadino nelle elezioni del 2014. Nella storica Sala del Tricolore che diede i natali alla bandiera italiana sedeva anche fino al settembre scorso il capogruppo di Forza Italia Giuseppe Pagliani, condannato in appello a Bologna a 4 anni per il patto stretto con la famiglia di Nicolino Sarcone, numero uno dell’associazione a Reggio Emilia: voti in cambio di promesse di lavori e di battaglia contro le interdittive antimafia. La stessa battaglia che di là dal Secchia, nel modenese, conduceva il senatore Carlo Giovanardicontro le esclusioni dalla white list che impedivano ad imprese ritenute colluse con la ‘ndrangheta di lavorare nella ricostruzione dopo il terremoto del 2012.

Il processo Aemilia ci ha raccontato che la consorteriaera bipartisan sul fronte politico: stava con chiunque stesse con lei. E si sentiva talmente forte, prima degli arresti, da concepire una discesa in campo autonoma, come ha spiegato il collaboratoreAntonio Valerio: “Noi avevamo un obbiettivo politico: conquistare l’avvallo della comunità reggiana. Avevamo con noi politici come Pagliani, ma facemmo una cena anche con il senatore Berselli (PdL). Olivo e Scarpino (consiglieri comunali dei DS) erano addirittura riusciti ad andare dal Prefetto dopo le interdittive, sponsorizzati dal sindaco Delrio. Questi sono dati di fatto. Poi avevamo Pasquale Brescia e Alfonso Paolini (a processo in Aemilia) che andavano d’accordo con le forze dell’ordine e Giuseppe Iaquinta (pure) che era una figura pubblica, un lustro per la consorteria. Era la faccia pulita, che ci apriva le porte della Reggio bene.”

L’obbiettivo del loro muoversi pubblicamente mette i brividi: “Volevamo creare consenso popolare, mobilitare le masse, portare avanti le nostre problematiche. Ci stavamo strutturando con una organizzazione di cui ha bisogno qualsiasi movimento.”

Quel disegno politico è stato bruscamente interrotto dagli arresti del gennaio 2015 e il processo l’ha definitivamente sepolto. Maquanto la ‘ndrangheta reggiana abbia realizzato sul versante degli affari illeciti, grazie ad amministratori e politici doc, è invece ancora tutto da capire. Dice il collaboratore Antonio Valerio ai Procuratori Antimafia con una delle sue colorite espressioni: “Voi con Aemilia avete tirato fuori dal nulla qualcosa di mirabile. Ma è veramente una pochezza, credetemi”. Inteso: rispetto alla realtà.

fonte:Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2018