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“A Napoli ha vinto la camorra” di Giorgio Bocca

La violenza dilaga. Il sistema criminale impera. I cittadini non si ribellano. E sembra ormai quasi scontato accettare la sconfitta dello Stato. Con dolore e pietà.

Mi scrive un lettore napoletano che si firma Giovanni Aiello: “Napoli la grande città che dovrebbe ribellarsi alla occupazione camorrista in larga parte costituita da ‘napulegni’ ovvero da cittadini impigliati nel vizio delle forze delinquenziali. Napoli insomma dovrebbe ribellarsi contro se stessa e questo è francamente impensabile. I potenziali ribelli, i ‘napoletani buoni’ come li chiama lei, sono davvero pochissimi. Le persone non affiliate, non colluse, non direttamente complici, non economicamente dipendenti, non simpatizzanti o anche non culturalmente contaminate, si contano ormai secondo una mia personale stima nell’ordine delle decine di migliaia. A fronte invece di un esercito fatto di arroganti, insolenti, ignoranti, ipocriti, presuntuosi e sempre più spesso violenti.

Insomma non è che non si voglia ma sono proprio troppi per combatterli. Il tessuto culturale di base è fatto da una trama simile a quella camorristica. E ci se ne accorge semplicemente entrando nei negozi, negli uffici, guidando la macchina o facendo lo slalom fra le merde di cane nelle strade più belle della città.

A Napoli ‘l’altro’ è quasi sempre percepito come un intralcio, come un ostacolo alla propria presunta libertà. Tutti si odiano e ciascuno si crede vittima di tutti gli altri. Inoltre questa mentalità è assolutamente trasversale, riguarda i più umili come i più istruiti e si ripropone in tutti gli ambienti, partendo dal profondo e poi ricadendo a cascata sulla città, come una fontana o come farebbe un vulcano. È forse per questo che anche le immondezze che arredano le strade non ci fanno un grande effetto perché Napoli è una città normalmente sudicia e trasandata.

In definitiva io credo che almeno per ora la criminalità abbia vinto. E non perché ci abbia sopraffatto, ma perché noi esprimiamo questo, siamo così. Ma le domando: perché tutti si accaniscono con la mia città? Fa schifo è vero, siamo in cima alle peggiori classifiche, ma lezioni e consigli della Milano dei berluschini e della Roma dei ladroni non ne possiamo accettare. Nessuno mi pare che in Italia abbia ormai il titolo per aprire bocca su nessun altro. Perché Napoli non è un’isola. Siamo tutti in parte corresponsabili dello stesso paese abbandonato”.

Ma questo Giovanni Aiello non sarà per caso un mio nom de plume, non sono io che ho intitolato il mio saggio ‘Napoli siamo noi’? Dicono che occuparsi della tragedia urbana di Napoli sia opera impossibile. Questa impossibilità sta dietro al rifiut o di molti napoletani di accettare le critiche dei foresti. “Non so cosa sia Napoli dopo cinquemila anni che ci vivo”, scrive Rea e ha ragione ma i morti e le immondezze per la strada non può non vederle anche lui. Chi si occupa di questa meravigliosa e orrida città non può separare una cosa dall’altra, non può indagare i misteri e gli accumuli della storia (a Napoli, ha scritto Benedetto Croce, dobbiamo ancora rimuovere le macerie del Duecento) e ignorare i mali assurdi del presente: la città coperta di lordure, gli assassinati per i più futili motivi, le regole del ‘sistema’ che continua a produrre miseria e la sordida ricchezza dei violenti. Non c’è altro da fare, si direbbe, che accettare questa fine del mondo sempre rinviata, questa anarchia sempre in qualche modo tenuta assieme dalla natura si direbbe più che dagli uomini.

Con dolore e pietà più che con rassegnazione.

(Tratto da Casa della Legalità e della Cultura)