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A ciascuno la sua cosca: le istituzioni sono miopi e la nuova mafia si prende il Gargano.

L’Espresso, 24 ottobre 2013

A ciascuno la sua cosca: le istituzioni sono miopi e la nuova mafia si prende il Gargano

Decine di omicidi e bombe contro le imprese: una feroce criminalità organizzata attacca ora una delle località più belle d’Italia, paradiso del turismo. La nuova mafia garganica ricorda proprio la nascita dell’impero di Riina e Provenzano, ma i tribunali sottovalutano il fenomeno

DI LIRIO ABBATE

una nuova mafia, sempre più potente, sempre più feroce. Cresce grazie a una doppia omertà. Quella tradizionale radicata in alcune zone del Sud. E quella di una parte delle istituzioni che non vogliono aprire gli occhi. Così questa cosca sta depredando uno degli angoli più belli d’Italia: il Gargano, promontorio verde affacciato sul mare che attrae quattro milioni di turisti l’anno. La mafia dello Sperone si è arricchita in fretta e i soldi rapidi hanno scatenato una guerra che ha pochi precedenti anche nelle terre di clan. Nell’ultimo triennio trenta persone sono state assassinate in provincia di Foggia per fatti di mafia, altre tre fatte sparire: vittime di uno scontro tra gruppi criminali di crudeltà pari solo a quelli siciliani e calabresi.

Il problema è che persino i tribunali non riconoscono la natura mafiosa di quello che accade nel Gargano: ritengono che delitti e sconti siano opera di semplice malavita e non di una criminalità organizzata che ha imparato i metodi di Cosa nostra. Assolvono o infliggono pene minori ai personaggi incriminati dalle procure, senza rendersi conto della reale pericolosità. Per fatti di mafia in questo triennio sono state arrestate 140 fra uomini e donne. A Foggia si ripete un copione che in passato ha provocato danni gravissimi, sottovalutando l’avanzata di boss venuti dal nulla. Come è accaduto con l’ascesa dei contadini di Corleone, i “viddani” con le scarpe sporche di fango scesi a Palermo con una masnada di picciotti che erano in gran parte pecorai: figure che, armi alla mano, hanno cambiato la storia di tutta Italia.

La nuova mafia garganica ricorda proprio la nascita dell’impero di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Le indagini della polizia di Stato e dei carabinieri hanno accertato come i boss dello Sperone non temano nulla: sono pronti a sfidare tutti. La violenza è il loro biglietto da visita. Hanno messo a segno centinaia di omicidi, spesso rimasti senza responsabili, scaricando i cadaveri in cave abbandonate o seppellendoli in terreni agricoli. Le forze dell’ordine hanno scoperto diversi cimiteri fantasma, macabre testimonianze della ferocia di questa potenza emergente. E ci sono poi estorsioni e rapine condotte in modo sistematico, con bombe e kalashinikov. Mentre in Puglia tanti continuano a ripetere: «Sono solo banditi, qui la mafia non c’è».

Il volto criminale di questo territorio compreso tra Foggia, Manfredonia, Mattinata e Vieste è stato svelato poche settimane fa da un’inchiesta condotta per due anni da agenti della Squadra mobile di Foggia e dallo Sco di Roma. La prima operazione ha unito ai metodi tradizionali, come appostamenti e intercettazioni, l’analisi delle dinamiche delle nuove cosche: per questo è stata ribattezzata “Età moderna”. Il risultato? Decine di arresti, realizzati due settimane fa.

Dalle migliaia di atti processuali raccolti dagli investigatori emergono le fratture che dividono i gruppi principali: da una parte Li Bergolis di Monte Sant’Angelo, dall’altra i Romito di Manfredonia e i Notarangelo di Vieste. I capi gestiscono l’importazione di droga dai Balcani: basta un motoscafo per rifornirsi e i sequestri effettuati lo testimoniano. E con i proventi acquistano armi ed esplosivo, che questi clan detengono in gran quantità. Notarangelo e Romito rafforzano i loro collegamenti con ‘ndranghetisti calabresi con cui fanno affari: allungano le loro attività fino a Milano, dove spesso mandano emissari per concludere nuovi business illeciti.

I Li Bergolis puntano anche sugli investimenti nell’economia legale. Sfruttano la crisi e prestano soldi a usura agli imprenditori, strozzandoli fino a prendere il controllo delle imprese. Ogni famiglia impone in modo violento il “pizzo” a commercianti e imprenditori: sono decine i casi riportati dagli agenti in quest’ultima operazione, ma gli inquirenti non hanno voluto contestare agli indagati l’aggravante di aver agito con il metodo mafioso.

Non tutti sono rassegnati a questa colonizzazione criminale del Gargano. Ci sono imprenditori che hanno alzato la testa, denunciando le estorsioni del racket mafioso. A Vieste 33 operatori del settore turistico hanno fatto nomi e cognomi, rompendo l’omertà e fondando un’associazione legata alla Federazione antiracket italiana guidata da Tano Grasso. Si sono resi conto che bisognava fare muro contro l’avanzata delle cosche, senza lasciare solo chi denunciava: decine di imprenditori ed esercenti con pullman organizzati dall’antiracket partivano da Vieste per essere presenti nel tribunale di Foggia durante le deposizioni delle vittime delle estorsioni. Spiega Tano Grasso: «Grazie al lavoro fatto da commercianti e imprenditori di Vieste stiamo tentando di costituire due nuove associazioni antiracket a Manfredonia e Foggia, territori in cui c’è ancora molto da fare per aiutare le tante vittime di estorsione». Una mobilitazione che ricorda quella storica di Capo d’Orlando, la cittadina messinese che nel 1990 mise alla porta gli esattori di Cosa nostra messinese, che anche allora molti definivano “pastori”.

Oggi la rivolta degli esercenti di Vieste deve fare i conti con la miopia delle istituzioni, in particolare quando il boss locale Angelo Notarangelo, arrestato per estorsione, trascorre comodamente la detenzione in casa a pochi passi dalle vittime che hanno sporto denuncia. Un segnale negativo per chi si ribella. E conferma ancora una volta che le istituzioni non sanno riconoscere come in tante zone stiano nascendo nuove mafie. Spesso emanazioni di Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. Altre volte invece realtà nate sul territorio che agiscono in osmosi con altre gang, come è avvenuto in Veneto con l’organizzazione di Felice Maniero e accade oggi con cosche calabresi di Lombardia o con le filiali di boss stranieri, slavi o asiatici. I tribunali, soprattutto quelli minori, non hanno gli strumenti o le conoscenze per giudicare questa evoluzione.

Un problema sottolineato la scorsa settimana da Ilda Boccassini, parlando delle infiltrazioni nell’economia del Nord: «Le indagini sono svolte dalla procura distrettuale antimafia, ma poi dobbiamo andare a fare i processi a Como o Busto Arsizio davanti a giudici di provincia che, con tutto il rispetto, non sanno nulla di mafia. Una visione globale la può avere solo il tribunale distrettuale ma non è mai stato istituito e questo è un problema serio». È una delle tante riforme lasciate a metà.

Da vent’anni esistono squadre di investigatori e pool di pubblici ministeri specializzati nel perseguire i mafiosi, ma queste competenze non arrivano ai magistrati del tribunale che devono giudicarli. Così dalla Basilicata alla Puglia si moltiplicano le assoluzioni, con il rischio di dovere fare presto i conti con tanti corleonesi: nuove mafie cresciute grazie ai limiti del sistema giudiziario. Come sta accadendo ogni giorno nel Gargano delle esecuzioni e delle bombe contro i negozianti.