Cerca

Quei quattro anni ad ascoltare la famiglia Provenzano

Ecco la storia di un “intercettatore”, colui che catturò il capo di Cosa Nostra con un grande “alleato”: le conversazioni della moglie e dei figli del boss. Parole, sospiri, silenzi: ogni dettaglio può essere un indizio

È quando ha imparato ad ascoltare la notte, a riconoscere i rumori del sonno, che ha cominciato a sentirsi uno di loro. Uno di famiglia. Come se in quella casa avesse vissuto da sempre, come se con loro avesse condiviso tutto. Anche le sofferenze, le gioie, anche le paure. Erano già passati quarantotto mesi, millequattrocentoquaranta giorni, trentaquattromilacinquecentosessanta ore e lui era ancora là con le cuffie incollate alle orecchie per catturare un altro bisbiglio, un soffio che forse questa volta l’avrebbe portato a prenderlo. Era ancora là ad ascoltare le voci che provenivano da una piccola villa di Corleone quando all’improvviso ha percepito un lamento, un gemito. Era sera, un inizio d’inverno. E una donna stava piangendo, al buio, sola. È quando ha imparato ad ascoltare la notte, a riconoscere i rumori del sonno, che ha cominciato a sentirsi uno di loro. Uno di famiglia. Come se in quella casa avesse vissuto da sempre, come se con loro avesse condiviso tutto. Anche le sofferenze, le gioie, anche le paure. Erano già passati quarantotto mesi, millequattrocentoquaranta giorni, trentaquattromilacinquecentosessanta ore e lui era ancora là con le cuffie incollate alle orecchie per catturare un altro bisbiglio, un soffio che forse questa volta l’avrebbe portato a prenderlo. Era ancora là ad ascoltare le voci che provenivano da una piccola villa di Corleone quando all’improvviso ha percepito un lamento, un gemito. Era sera, un inizio d’inverno. E una donna stava piangendo, al buio, sola.

Era Saveria, la moglie di Bernardo Provenzano. La microspia “registrava” i singhiozzi. Il poliziotto si è alzato in piedi di scatto e ha chiuso gli occhi per concentrarsi sul pianto, per raccogliere i pensieri e provare a comprendere quel dolore. Era successo qualcosa nella casa dove si aggirava il fantasma di un capomafia, qualcosa di grave che faceva lacrimare la sua compagna. Quel lamento soffocato, profondo, come una mappa l’ha guidato fino al sud della Francia, a Marsiglia, in una clinica dove il vecchio padrino di Corleone – sotto falso nome – si era fatto ricoverare per un cancro alla prostata. Era per quella malattia che Saveria piangeva. Per la prima volta dopo quattro decenni, un’intercettazione ambientale gli aveva restituito le tracce di uomo che sembrava scomparso per sempre. Era vivo, il latitante Bernardo Provenzano, era ancora vivo. E lui, il poliziotto, con quelle cuffie sempre attaccate alle orecchie, si stava avvicinando al boss che tutti credevano imprendibile. Un altro passo, un altro passo ancora e avrebbe sentito anche il suo odore.

Il suo incarico era quello di entrare nelle vite degli altri, di spingersi nella loro intimità per carpire informazioni sul criminale più misterioso dell’isola, di frugare nelle praterie dei sentimenti per cercare anche il più piccolo indizio che lo potesse aiutare a fermare il boss delle stragi e delle protezioni indicibili. Le vite degli altri. Per lui, da quattro anni, gli altri erano Saveria Palazzolo e due ragazzi, Angelo e Paolo, i figli adolescenti del Padrino. Faceva lo sbirro ma ormai era diventato anche psicologo, analista, era diventato l’ombra di una famiglia di mafia di Corleone. E sapeva bene quali, di quelle parole origliate e rubate, sarebbero dovute restare per sempre segrete. E sapeva bene anche quali, di quelle stesse parole, prima o poi si sarebbero rivelate decisive per le sue indagini. “Non rilevante”, continuava a scrivere nei brogliacci che trasmetteva in procura. “Conversazioni familiari”, annotava giorno dopo giorno nei suoi rapporti quando inviava nastri che nessuno avrebbe mai ascoltato e che nessuno avrebbe mai divulgato.

Niente sapevamo del privato della famiglia Provenzano prima e niente abbiamo saputo dopo la sua cattura. È rimasto tutto celato, dentro le mura della loro casa. La loro esistenza più nascosta è servita soltanto a lui. È servita a lui che era uno dei ventotto investigatori del “Gruppo Duomo” che il questore di Palermo Antonio Manganelli, alla fine del 1998, aveva dislocato negli stanzoni di un vecchio commissariato lontani da tutto e da tutti. Soli, liberi di arrestare un uomo che era sul bollettino dei ricercati dal settembre del 1963. La storia è finita l’11 aprile del 2006, in un casolare sulla Montagna dei Cavalli, a neanche due chilometri dalla casa dove una notte Saveria aveva pianto. E l’ha potuta raccontare chi c’era. Chi era là. Chi respirava con loro. Chi ascoltava il loro sonno.

Spie luminose. Manopole. Fili. Il poliziotto arrivava ogni giorno alle sette del mattino con un bicchierone di caffè nella “sala” e si estraniava dal mondo. C’erano solo quelle voci. Sulla scrivania un foglio bianco e la penna a sfera per segnare le ore e i minuti: il telefono che squilla, un parente che bussa alla porta, la tivù che si accende e dopo un attimo si spegne. Dalle sette del mattino alle due di notte appeso ai suoni e ai silenzi. Lui e altri due come lui, che ormai conoscevano tutto degli studi di Angelo, della cucina di Saveria, delle passioni di Paolo. Dovevano sapere tutto. Dovevano sapere se avevano già pagato l’assicurazione dell’auto o se avevano acquistato quel libro, dovevano sapere cosa mangiavano, quando dormivano, dove andavano, chi incontravano, quante volte scendevano a Palermo e quante altre volte vedevano lo zio, un cugino, un amico. Erano sempre in agguato di un “evento inatteso”. Bastava un errore, un cedimento di nervi, una fragilità. Una volta fu quel pianto.
E un’altra volta fu una lunga, una lunghissima quiete. Troppa per la famiglia di un ricercato di mafia. Troppa per una moglie sola. Voleva dire che il boss si era ripreso dai suoi malanni, che Saveria forse l’aveva visto di recente ed era tornata serena, voleva dire che la filiera dei pizzini funzionava a meraviglia. I messaggi di carta di Bernardo Provenzano arrivavano a chi dovevano arrivare. E poi tornavano. Uno stato d’animo e uno spiraglio investigativo, ogni emozione che lui percepiva apriva una nuova pista, una nuova speranza.

Il nastro girava, girava sempre. A mezzogiorno il poliziotto prendeva la bobina della notte e ascoltava “il registrato”. Era sempre di più dentro di loro. Da una parola detta o non detta, da una risata, da un mugugno riconosceva quando erano felici o afflitti. “Non rilevante”, continuava a scrivere sul brogliaccio. Non rilevante per tutti ma non per lui. Un altro rumore, un altro sussurro era sempre l’inizio di qualcosa che stava accadendo. Anche un minuto di niente poteva significare tanto. Dopo un silenzio prolungato – che forse non era un silenzio – le sue cuffie non bastavano più. Correva nell’altro stanzone con l’ultimo spezzone di vita dei Provenzano, lo infilava in un marchingegno che eliminava ogni fruscio, isolava i disturbi acustici, i ronzii, scomponeva le voci. Ed era allora che una macchina cominciava a sentire quello che non sentivano le sue orecchie. Forse Angelo era uscito, forse anche Paolo era uscito ma lui non se n’era accorto, forse Saveria aveva raccomandato sottovoce qualcosa di importante ai suoi figli. Qualcosa che lui non avrebbe dovuto scoprire mai.

Il poliziotto era esperto ma anche sperto, che in siciliano vuol dire scaltro. Lo sapeva che era più intelligente di una microspia, lo sapeva che la microspia non sarebbe servita a nulla senza la sua fantasia investigativa, il suo intuito, la sua abilità di sbirro. Era il momento di chiamare al cellulare i colleghi che il giorno prima avevano pedinato un parente dei Provenzano, era il momento di avvertire anche quegli altri colleghi che avevano appena visionato i filmati delle quattro telecamere piazzate per le strade di Corleone. Una era davanti alla casa di Saveria, sempre lì da otto anni. Un’altra era dietro al bastione che porta alla piazza, la terza in via del Calvario, la quarta su un albero in mezzo alla campagna. Occhi tecnologici che sostituivano occhi umani, che seguivano automobili, i movimenti di un ragazzo che non si era mai visto prima, di una donna che era apparsa come d’incanto.

In un’immagine c’era Angelo che portava un sacco della spesa. Era in fondo a un vicolo, ed era lì con un cugino che prendeva quel sacco, poi il sacco passava nelle mani del padre del cugino e poi ancora nelle mani di un altro. Chi era quell’altro? Chi era l’ultimo uomo che prendeva la busta della spesa e poi usciva dalla vista delle telecamere? Era lo stesso volto che la telecamera davanti alla casa dei Provenzano aveva ripreso un paio di settimane prima, era la stessa voce che il poliziotto aveva ascoltato un paio di mesi prima nella casa di Corleone. “Non rilevante”, aveva trascritto anche quella volta sui suoi quaderni. “Conversazione amichevole”, aveva aggiunto poi spedendo un altro pacco di intercettazioni in procura. Però il poliziotto sapeva che ormai era solo questione di tempo: le voci, le immagini, la decifrazione dei pizzini sequestrati in un covo, i dati raccolti sul territorio – i pedinamenti – tutto era dentro una “scena”, tutto era lungo una via che lo stava portando a Bernardo Provenzano. Senza quelle intercettazioni non sarebbe mai arrivato dove era arrivato. Dopo quarantatré anni di latitanza, dopo notti di Natale e notti di San Silvestro passate nella sala buia ad ascoltare quelle voci, ci voleva ancora un po’ di pazienza. Ci voleva freddezza. Ci voleva altro genio investigativo. Ci voleva fortuna. Ci volevano ancora trentanove giorni. Dalla mattina del 4 marzo alla mattina dell’11 aprile del 2006.
La fortuna era in quel sacco della spesa che andava e veniva dalla casa dei Provenzano. Dal figlio Angelo al cugino Giuseppe Lo Bue, da Giuseppe Lo Bue a suo padre Calogero, da Calogero Lo Bue a Bernardo Riina, da Bernardo Riina alla Montagna dei Cavalli. Un’altra telecamera che seguiva un’altra automobile, il bosco che copriva la visuale, gli uomini appostati con i binocoli che da lontano spiavano chi saliva verso la Montagna dei Cavalli.

Ore 9.45 dell’11 aprile. La telecamera piazzata sulla collina era puntata su un casolare. C’era un uomo che camminava lentamente verso una porta, sembrava solo. Il poliziotto lo conosceva. Si chiamava Giovanni Marino, era uno che vendeva ricotta giù in paese. L’uomo era sempre più vicino alla porta e dava le spalle al casolare, stava lì impalato a guardare le sue pecore. Ma le telecamere erano sulle sue labbra. E le sue labbra si muovevano. Il venditore di ricotta stava parlando. Fra lui e il casolare però non si vedeva nessuno. Con chi parlava? La porta improvvisamente si era aperta e una mano era scivolata fuori. Una lettera, un messaggio che passava da una mano all’altra. Se nel casolare c’era una mano, nel casolare c’era anche un uomo. Il poliziotto non aveva certezze sulla sua identità, non poteva averne. Ma le voci ascoltate gli dicevano che era Bernardo Provenzano. Altri tredici lunghissimi minuti, l’ultima attesa. Ore 9.58 dell’11 aprile. L’uomo era lui, era il vecchio Bernardo.
Attilio Bolzoni

(Tratto da Repubblica)